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Title: Gli avvenimenti di Sicila e le loro cause
Author: Napoleone Colajanni
Release Date: January 16, 2010 [eBook #30984]
Language: Italian
Character set encoding: ISO-8859-1
***START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK GLI AVVENIMENTI DI SICILA E LE LORO CAUSE***
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In fondo al volume si trova una lista delle correzioni effettuate, identificate nel testo da una sottolineatura.
D.r NAPOLEONE COLAJANNI
Deputato al Parlamento
PALERMO
REMO SANDRON—Editore
Via Vitt. Eman., 324
1895
Prezzo Lire 2.
Opere dello stesso autore
La libertà e la questione sociale. (1879) (Esaurito). | |
La repubblica e le guerre civili. (1882) (Esaurito) | |
Le istituzioni municipali. (1 vol. in 16º pag. 331) | L. 3,00 |
Il Socialismo. Appunti (1 vol. in 16 di pag. 100) (Esaurito). | |
La delinquenza della Sicilia e le sue cause. (Esaurito). | |
Un sociologo pessimista: Gumplowicz. (Esaurito). | |
L’alcoolismo, sue conseguenze morali e sue cause. (Un vol. di pag. 201 in-8º con tavole statistiche) | L. 3,00 |
Oscillations thermometriques et delits contre les personnes. (Opuscolo) | L. 1,00 |
Di alcuni studi recenti sulla proprietà collettiva. (Opuscolo). | L. 0,50 |
Corruzione politica. (Un vol. in-16º di pag. 96). (Esaurito) | |
Corruzione politica. Chiarimenti e risposte. 2ª edizione con numerose aggiunte e lettere di Gabriele Rosa, A. Saffi e Giov. Bovio, (Un vol. in-16 gr. di pagine 112) | L. 1,25 |
Sociologia criminale. Appunti. (2 volumi) | L. 13,50 |
Ire e spropositi di Cesare Lombroso. (1 volume) | L. 1,00 |
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La Difesa Nazionale e le economie militari. (Un opuscolo). | L. 0,80 |
Banche e Parlamento. (Un vol. Milano 1891) | L. 2,00 |
In Sicilia. (Un volume, Roma 1891) | L. 1,00 |
Prefazione | Pag. 3 | |
I.— | Prime armi del socialismo in Sicilia | 7 |
II.— | Forze del socialismo | 11 |
III.— | Il programma—I risultati—Le accuse | 19 |
IV.— | Le cause—Il malcontento in alto | 28 |
V.— | Il malcontento tra i lavoratori delle miniere | 42 |
VI.— | Le classi rurali | 57 |
VII.— | I paria della terra | 65 |
VIII.— | Il latifondo | 74 |
IX.— | Rapida depressione economica | 83 |
X.— | Organizzazione sociale e rapporti tra le varie classi | 89 |
XI.— | I partiti in lotta e le amministrazioni dei corpi locali | 97 |
XII.— | L’odio di classe | 111 |
XIII.— | Nulla è mutato! | 115 |
XIV.— | Facili presagi | 141 |
XV.— | Provocazione e preparazione ai tumulti | 147 |
XVI.— | La repressione | 174 |
XVII.— | Le responsabilità. a) Il Clero | 194 |
XVIII.— | Le responsabilità. b) I fasci | 208 |
XIX.— | Le responsabilità. c) Il governo | 234 |
XX.— | La reazione | 260 |
XXI.— | I tribunali militari | 286 |
XXII.— | Il processo mostruoso | 342 |
XXIII.— | L’opera civile del generale Morra | 395 |
XXIV.— | La discussione parlamentare | 419 |
Conclusione | 471 |
Proprietà letteraria dell’Editore
REMO SANDRON
AVVERTENZA
Di questo libro fu fatta una 1.ª edizione per cura di Edoardo Perino. Accintosi l’A. a questa seconda trovò tanto da correggere e da aggiungere che ne raddoppiò la mole, e la modificò talmente che solo in pochissime pagine è uguale all’antecedente, sicchè può a ragione considerarsi libro affatto nuovo.
L’Editore
tipografia diretta da SANTI ANDÒ—Via Celso N. 49
Carissimo Colajanni
Catania, 10 Febbraio 94.
I tumulti recenti della Sicilia hanno, per le origini e gli effetti loro, una importanza sociale, che la facilità onde sono stati repressi non parrebbe loro concedere. Tu che li hai osservati con occhio di filosofo, moderati con accorgimento d’uomo politico e con cuore di cittadino, fai bene di consegnarli alla storia con quella serenità di giudizio, che alle coscienze intemerate non è difficile mantenere nei momenti più tempestosi e fra le passioni più vive.
Due principali verità risultano, a parer mio, dalla notizia sincera dei fatti: la indipendenza dei moti siciliani da qualunque opera di partito, e la prepotenza d’un governo che vuol parer forte e non è.
Non che essere eccitate e preparate dai socialisti, a me pare che le ribellioni, determinate unicamente dalle condizioni specialissime dell’isola, dagli arbitrî feudali dei proprietarî, dalla spietata ingordigia delle amministrazioni, dalla miseria ineffabile dei lavoratori, abbiano fatto constatare e toccar con mano la nessuna coesione del partito socialista, la discordia dei suoi capi, la varietà bizzarra dei suoi gruppi, l’incertezza dei principî,[4] dei metodi, dell’azione. Il socialismo in Sicilia ha avuto più presa che altrove, perchè ha trovato terreno più proprio: la propagazione meravigliosa dei Fasci prova che esso non è artificiale e superficiale, ma ha radici nelle viscere stesse della vita del proletario siciliano; è piuttosto effetto che causa. Il popolo, per altro, quale ch’esso sia, poco suole accogliere e fecondare delle teoriche d’un partito: afferra tutt’al più un’idea rispondente al suo stato, un sentimento che consuona col suo; e quando si sente alle strette, si getta nell’azione, senza chiedere consiglio a nessuno. La miseria e la mala signoria furono e saranno mai sempre i motivi principali delle rivolte.
Questa condizione di cose rende ancor più colpevoli e mostruosi i modi adottati dal governo per reprimere le ribellioni. Qualche agevolezza conceduta lì per lì alle prime avvisaglie, avrebbe probabilmente sedato il fermento dei contadini affamati. Ma sì! I cartelloni erano già stati affissi alle cantonate; la baracca era aperta, i biglietti distribuiti; la gran cassa rintronava già negli stomachi degli spettatori; e come si faceva a sopprimere lo spettacolo.
La signora Astrea, che dietro alle quinte avea fatto copia di sè a tutta la borghesaglia legittima e legalitaria, venne allora su la ribalta e recitò col peggior garbo del mondo la parte della verginella oltraggiata: scaraventò i pesi in faccia ai presunti seduttori: agguantò la bilancia per il giogo e la sbatacchiò su la testa dei primi poveri diavoli che le vennero a tiro. La borghesaglia legittima e legalitaria si dichiarò soddisfatta; si soffiò il naso impeperonito: e con le dita intrecciate sul buzzo e tentennando la testa come i cuorcontenti di gesso, esclamò in falsetto pecorino: Le istituzioni[5] son salve; l’ordine regna in Varsavia; ora possiamo tornare tranquillamente a barattare, a banchettare e a russare.
A proposito: e le riforme? Ah! sì: ci sono anche queste per aria; o per dir meglio, c’è una commissione che le studia, e che ponza la felicità del genere umano. Lasciamola ponzare; e che Dio la renda lubrica. Che cosa saranno queste riforme il gazzettume ufficioso nol dice: esso spreca tutto il suo fiato prezioso per informarci di balzelli nuovi, di soppressioni di ufficî, di monopolî audaci, di ricchezze cavate dalle borse e dalle vene di tutti. Le istituzioni, si sa, han da salvarsi; i sagrificî non sono mai troppi. E poi, i balzelli hanno l’ale; e le riforme la gotta. Aspettiamo dunque che l’erba cresca; e se l’asino muore, peggio per lui. Ciò che saranno codeste riforme possiamo immaginarlo: riforme borghesi; e non occorrerebbe dir altro: semi di lino su la cancrena; concessioni ed elemosine tirate in faccia con la balestra. E se non bastano, piombo: procedura solita e spicciativa.
Ma il piombo credi che basterà? Io modestamente credo di no: salvo che siasi trovato il modo di renderlo digeribile e nutritivo, come il pane che manca.
In conclusione, questi tumulti hanno rivelato condizioni tali, che non possono e non devono assolutamente durare, per l’onore d’Italia e della razza umana; hanno resa necessaria una fraterna intesa di tutti i partiti democratici in un ideale, in una fede, in un’opera comune; hanno ridotta la questione sociale all’aut aut degli scolastici. L’idea-valanga s’è già staccata dal vertice, e seguirà fatalmente il suo corso. O unirsi ad essa o rimanere stritolati nel fango. È la Storia che passa.
M. Rapisardi
Dopo le elezioni politiche generali del 1890, e più ancora dopo quelle del 1892, la stampa che rispecchia le tendenze, i bisogni e i timori delle classi dirigenti italiane, gittò un grido di allarme, additando una macchia grigia sulla carta geografica d’Italia, che rappresentava la zona dove maggiormente si era rivelato potente per numero di adepti e per organizzazione il socialismo. La macchia era più scura nel Modenese, nella provincia di Reggio Emilia e di Parma; ma si manteneva abbastanza cupa in alcuni punti della provincia di Cremona, nel Mantovano, nel Polesine ecc., mentre si era rischiarata nel più antico centro di diffusione: nelle Romagne.
Giovani ardenti, colti, instancabili nella propaganda, sinceri nella fede, come Berenini, Agnini e Prampolini erano venuti in Parlamento da quelle zone ed era significante assai che il secondo fosse riuscito contro il generale Gandolfi, che pure, a parare[8] la sconfitta, nel suo programma e nei suoi discorsi molte dichiarazioni in senso socialista aveva fatte.
Allora pochi o nessuno avevano dato importanza a ciò che avveniva in Sicilia, non ostante la doppia elezione dell’amico G. De Felice, non ostante l’onore delle quattro candidature, che mi toccò nel 1890 e la vittoria che ebbi allora e nel 1892. Non senza fondamento questi due ultimi avvenimenti furono spiegati collo intervento di alcuni fattori, che attenuarono sensibilmente la importanza del contributo che vi aveva apportato il socialismo. Intanto nel silenzio, o almeno con un rumore che non si faceva sentire al di là dello stretto di Messina, si organizzavano i Fasci dei lavoratori, da principio con intenti non nettamente determinati, sicchè si sarebbe potuto prenderli per organizzazioni non molto dissimili dalle antiche società operaie; ma più tardi, e particolarmente dopo il Congresso di Genova, con programma schiettamente socialista, ed anzi esclusivamente marxista.
Credo di essere stato il primo, o uno dei primi, a notare la esistenza dei Fasci fuori d’Italia, in un articolo pubblicato nella Grande Revue di Parigi-Pietroburgo nello scorso inverno; e confesso che allora non sospettavo che avessero dovuto fare parlare molto, e presto, di loro; e fui dei primi, pur rallegrandomi, come socialista, dei progressi che facevano le idee, a dare un grido di allarme per certi fenomeni poco rassicuranti da me osservati.
Parlai al vento; e gli eventi seguirono il loro corso, come se nulla avesse dovuto e potuto farsi per impedire che riuscissero dolorosissimi. Così si[9] arrivò ai massacri di Giardinello, di Pietraperzia, di Marineo, di Gibellina, di Santa Caterina ecc., che, per una serie incredibile di errori, di violenze di arbitrî, di infamie, si riannodano, a meno di un anno di distanza, a quello di Caltavuturo!
E il movimento socialista siciliano, per virtù degli iniziatori, per colpa degli avversarî e per favorevole coincidenza di diversi fattori, assunse tali proporzioni da preoccupare, finalmente, i nostri governanti di ogni partito; alcuni dei quali con stoltezza, che risente della calunnia, piuttosto che confessare la imprevidenza propria, preferirono attribuirlo all’oro della Francia ed alle mene dei clericali.
I governanti, imprevidenti e prepotenti pel passato, non si limitarono a spargere la voce che l’oro francese alimentasse i malumori della Sicilia, ma con abile e repentina preveggenza cominciarono ad accreditare nel continente il sospetto che nell’isola si preparasse un movimento separatista.
In tal guisa, pensarono che il sentimento pubblico avrebbe agevolata e approvata qualunque repressione.
Quando il moto fu meglio conosciuto, i socialisti di Europa se ne rallegrarono e fecero atto di solidarietà mandando il loro obolo; e la Volks Tribune di Vienna ha potuto così riassumerlo afferrandone esattamente il carattere: «per le condizioni specifiche del luogo e per le qualità personali degli agitatori, il movimento proletario di Sicilia, ha qualche cosa in sè di vibrato, di solenne, di primitivo, di spontaneo, che in tutta l’Italia se ne risente l’effetto. La stampa borghese d’Italia ne ha[10] risentito come per effetto l’azione, e per la prima volta essa ha parlato sul serio del movimento socialistico.—La gran massa di proletari organizzati e disciplinati nei Fasci è di salariati di campagna, di salariati delle miniere di zolfo, di lavoratori dell’industria vinicola, di artigiani, di piccoli borghesi e di studenti. La disciplina di tale organizzazione ha dato già prova di sè in modo notevole e palese... Questa organizzazione siciliana è il primo grande movimento di massa proletaria, che si veda in Italia, ed è il primo atto del socialismo Italiano.»[1]
[1] L’on. Comandini in una delle sue splendide ed oneste corrispondenze al Corriere della Sera di Milano ricorda che la colta gioventù socialista di Sicilia si sente assai lusingata della iniziativa dell’isola. (Nº del 16-17 Gennajo 1894). L’osservazione è esatta e collima con quelle del giornale di Vienna. Avverto una volta per sempre che ripetutamente mi riferirò ai giudizi dell’on. Comandini, non già perchè egli sia stato il solo ad enunziarli; ma perchè venendo da lui, che non milita tra radicali e socialisti, non può essere sospettato di esagerazione e di partigianeria.
Notevolissime sono del pari le osservazioni del Borelli nel Popolo Romano, che nella serie di corrispondenze dal titolo La Sicilia com’è—ha saputo sintetizzare acutamente e onestamente le condizioni economiche, politiche e morali dell’Isola.
Sarebbe grave errore disconoscere la importanza del movimento socialista siciliano, che s’imperniava nella organizzazione dei Fasci dei lavoratori; giova, però, ridurlo alle sue giuste proporzioni.
Ciò è necessario in vista delle notizie numerose pubblicate dai giornali italiani e stranieri, ora esagerate, ora addirittura false.
Una statistica esatta del numero dei Fasci, che corrisponda alla realtà, è difficile, perchè molti ne sorgevano ogni giorno e non pochi ne scomparivano senza che se ne avesse notizia. Chi dice che erano 300 e chi li riduceva a 120; il Comitato centrale dei Fasci al 1º novembre li portava a 163, oltre 35 in formazione. Reputo, poi, esageratissima la cifra dei soci, che da tutti si ripete ammontasse a 300,000 e più; la esagerazione la desumo da ciò ch’è a mia personale conoscenza: molti Fasci erano puramente nominali, come quello di Caltanissetta; di alcuni altri il numero dei soci era stato per lo meno quintuplicato.[12]
Appena si aprivano le iscrizioni i soci accorrevano numerosi; ma poco dopo le file si diradavano, sia perchè i soci non amavano pagare il piccolo contributo mensile o settimanale, sia perchè si scoraggiavano presto, non ottenendo miglioramenti immediati.
I Fasci erano più numerosi e più disciplinati nelle Provincie di Palermo, di Catania e di Trapani; molti ne sorsero nel novembre e dicembre scorsi nella provincia di Siracusa mercè l’opera indefessa dell’avvocato De Stefano Paternò, ma sulla loro consistenza non si potè portare un giudizio perchè erano di data assai recente; meno numerosi erano in quelle di Girgenti e di Caltanissetta; scarsissimi, infine, in quella di Messina.
In generale si mostrarono meglio organizzati e più compatti, più disciplinati e più ardenti i Fasci dei centri agricoli, specialmente nella provincia di Palermo, dov’era singolarissima la partecipazione simpatica e ardita delle donne, che richiamò l’attenzione del Lombroso, del Morselli, mia e di tutta la stampa italiana, che giustamente ha consacrato al fatto parole di alta ammirazione non iscompagnata da un certo senso di meraviglia, perchè le condizioni intellettuali e sociali, il genere di vita e la educazione delle donne siciliane avrebbero dovuto allontanarle dal moto attuale.[2] Invece inferiori si mostrarono i Fasci delle città, non ostante che[13] fossero stati preparati dai congressi, dai giornali e dalla propaganda socialista da molti anni.
Superiore a tutti in modo assoluto, pel numero dei soci iscritti e attivi, per la organizzazione e per la coscienza dei fini da raggiungere, era il Fascio di Catania, che formava uno strano contrasto con quelli della provincia, che erano fiacchi e incoscienti.
A Catania, mercè l’instancabile propaganda dell’on. De Felice Giuffrida, sorse quattro anni or sono il primo sodalizio. Ivi il terreno era preparato dalla vita non inonorata, che vi ebbero parecchie società operaie, che dal 1860 in poi avevano organizzato scuole, mutuo soccorso, assistenza medica e anche prestiti sull’onore; ed alcune di esse, come quella dei Figli dell’Etna, dei Figli del lavoro, della Pace ecc., sussistono ancora, sebbene facessero capo al Fascio e con questo procedessero ed agissero di conserva.
La visita dei mille soci del Fascio di Catania alla esposizione di Palermo determinò la organizzazione di analoga associazione nella città delle iniziative, d’onde, aiutata dall’Isola e dal Giornale di Sicilia e dall’attivissima azione di un generoso gruppo di giovani, il movimento si propagò in tutta la Sicilia; sicchè, se a Catania spetta il merito della iniziativa, il centro di diffusione divenne Palermo, per quel maggiore ascendente esercitato sempre dall’antica capitale sull’isola tutta.
È da notarsi che non pochi degli organizzatori dei Fasci appartenevano alla classe borghese; alcuni sono agiatissimi, come il Ballerini; pochi ricchissimi vengono dall’alta aristocrazia, come il marchese[14] di Montemaggiore e il principe di Cutò.[3]
L’organizzazione era abbastanza semplice e logica. Dove i soci erano numerosi, vennero divisi secondo le arti e i mestieri e ciascun gruppo aveva la sua speciale bandiera; vi erano anche delle squadre coi rispettivi capi per quartieri.[4]
Ogni Fascio aveva il suo rosso gonfalone con qualche altro particolare emblema; e quel benedetto rosso che scioccamente dà ai nervi delle autorità politiche, ha dato luogo a pericolose colluttazioni, ad arresti e processi. Ogni socio, nelle feste, portava una coccarda rossa, ed i capi una fascia pure rossa: bisognava vedere con quanta fierezza la indossavano i contadini e gli operai nelle solenni occasioni.
Non pochi Fasci avevano la fanfara, composta quasi sempre di reduci dall’esercito, che vi avevano portato il sentimento della disciplina, unito ad entusiasmo e attività notevoli. La fanfara, talvolta discreta, serviva a richiamare l’attenzione delle donne, destava l’invidia di molti e pur troppo somministrò occasione a numerose contravvenzioni alla legge reazionaria di pubblica sicurezza, le quali costrinsero i poveri soci o a pagare o a scontare le non piccole multe col carcere. Ajutarono moltissimo la propaganda le passeggiate da un paese all’altro, abilmente[15] organizzate, che sviluppavano elevati sentimenti di solidarietà e davano ai lavoratori coscienza della propria forza.
Nelle sedi dei Fasci sulle pareti vi erano grandi striscie di carta con motti significativi di Marx, di Lassalle, di Bovio, di Hugo, di L. Blanc ecc. Non di rado vi si trovavano i ritratti di Marx, di Mazzini, di Garibaldi, del Re e della Regina. Il Rossi della Tribuna, ed io stesso, in alcuni luoghi non trovammo sul tavolo che un Cristo col suo lumicino, che costituiva tutto l’ornamento del luogo; e confesso che tanta semplicità impose a Rossi ed a me, e di più doveva imporre a contadini ed operai, tra i quali è ancora vivo il sentimento religioso e che si esaltano maggiormente quando si parla loro in nome del Nazzareno.
I socî pagavano un tenuissimo contributo mensile e settimanale, che variava da luogo a luogo, ma che non oltrepassava una lira al mese. Le casse, come si può immaginare, non erano provviste e non avrebbero potuto far fronte alle spese ordinarie di amministrazione e molto meno a quelle straordinarie incontrate nell’aspra lotta col governo e colle classi dirigenti—se i più ricchi del partito non avessero fatto sacrifizî considerevoli. Soccorsi, ma in tenue misura, vennero dai socialisti del continente, della Germania, dell’Austria ed anche della Rumenia. Le scarse somme venute dall’estero, passarono per le mani del Prof. Labriola, che con vivo rammarico altra volta mi fece osservare che tra gli oblatori brillavano per la loro assenza i socialisti francesi. In qualche paese agricolo si fecero sufficienti provviste di frumento per opera di Presidenti[16] e di soci preveggenti; ciò che consentì loro la resistenza, vittoriosa spesso, negli scioperi. Così a Corleone.
Alcuni Fasci praticavano il mutuo soccorso; altri avrebbero voluto fondare casse di resistenza, ma i mezzi erano del tutto inadeguati ai fini; si accennò qua e là, a cooperative di consumo, che fecero cattiva prova a Catania, dove cercarono sostituirvi dei prezzi di favore con particolari venditori di oggetti di consumo; scioperi inconsulti furono tentati ed una cooperativa di produzione ebbe vita per poco tempo in Palermo e finì miseramente. Erano pochissime le cooperative di lavoro, in conformità della legge dell’11 Luglio 1889, che avrebbero potuto dare eccellenti risultati. Ma non c’è da meravigliarsene perchè erano malviste dalle amministrazioni locali, che preferiscono tuttavia confidare i lavori agli appaltatori prediletti, dando luogo a sospetti, non sempre infondati, d’illecite partecipazioni ai lucri per parte degli amministratori.
A Catania, mercè il tenue versamento di centesimi 15 per settimana, si praticava l’assicurazione collettiva, mercè la quale alle famiglie dei socî che morivano venivano date L. 400. Sino allo scioglimento del sodalizio la cassa fece fronte ai suoi impegni; ma avrebbe potuto continuare per lo avvenire, se non avessero fatto meglio i calcoli e non avessero tenuto conto esatto delle tavole di mortalità?
Non poche ed inconsulte furono le spese per le inaugurazioni dei gonfaloni; e non poche volte ho assistito a banchetti relativamente luculliani, che ho biasimato con tutte le mie forze.[17]
Lo spagnolismo in Sicilia s’impone anche tra i lavoratori!
Molti dei Fasci erano ascritti al Partito italiano dei Lavoratori e s’inspiravano alla intolleranza e al fanatismo della chiesa di Milano; alcuni, per così dire, erano indipendenti specialmente se erano sorti per ragioni locali. Vera direzione centrale non c’era per quanto il Fascio di Palermo aspirasse a tale onore e facesse di tutto per meritarlo. La Lotta di Classe di Milano penetrava in qualche luogo e vi esercitava la sua azione; in molti altri, il giornale prediletto era La Giustizia sociale, che seguiva il metodo della prima, di Palermo; L’Unione di Catania, Il Mare di Trapani erano giornali settimanali diffusi nelle rispettive provincie e redatti con criterî più conformi alle condizioni locali.
Per la propaganda, più che sui giornali—essendo grandissimo in Sicilia il numero degli analfabeti—si contava sulle conferenze, sulle amichevoli conversazioni, sulle feste da ballo alle quali partecipavano le famiglie dei socî, e che riuscivano splendide—anche dal lato economico—in Catania, e sul teatrino socialista di Palermo, istituzione che se avesse trovato scrittori ed interpreti adatti avrebbe potuto dare buoni frutti.[5]
[2] Il Sonnino fin dal 1876, nel suo libro sui Contadini in Sicilia, che dovrò citare ripetutamente, aveva rilevato che le condizioni delle donne non erano adatte a farle partecipare ai moti sociali.
[3] Il Marchese di Montemaggiore colla morte del padre divenuto principe di Baucina pare abbia cambiato improvvisamente di opinione.
[4] Credo che erroneamente un autorevole giornale di Roma abbia scritto che la organizzazione dei Fasci sia stata modellata su quella dei Sindacati e delle Camere del lavoro di Parigi; e l’errore venne ripetuto dal Cavalieri nella Nuova Antologia.
[5] Il sig. Enea Cavalieri nella Nuova Antologia del 1º gennajo 1894 riassume in parte esattamente la storia dell’idea socialista in Sicilia; ma accorda forse soverchia importanza all’antica stampa e agli antichi agitatori. Fu minima l’azione esercitata dal Bakounine da Napoli dopo il 1867, e assai circoscritta e poco duratura quella del suo e mio carissimo amico Saverio Friscia, nel circondario di Sciacca; e minima azione esercitarono i giornali Lo Scarafaggio di Trapani e il Povero di Palermo. Così dicasi pure pel Riscatto e pel Vespro di Messina e per cento altri giornaletti settimanali pullulati in tutte le provincie della Sicilia e che vissero stentatamente e per breve tempo. Vorrei poter meritare l’onore, che mi attribuisce, affermando che il punto culminante della propaganda socialista bisogna riconoscerlo nella pubblicazione del mio libro sul Socialismo e del giornale quotidiano L’Isola da me diretto. Del primo so qualche cosa, perchè ne fui l’editore: poche copie se ne vendettero in Sicilia e credo nessuna ne pervenne tra le file del popolo.
La seconda, per quanto ispirata alle idee repubblicane e socialiste penetrava maggiormente tra la borghesia più onesta e più intelligente. Invece credo che negli animi delle popolazioni ho fatto più breccia colla campagna elettorale del 1890 combattuta in quattro collegi. Dei giornali quello che ha maggiormente contribuito a creare la coscienza socialista nella cerchia della provincia di Catania fu ed è l’Unione del De Felice; vengono dopo la Nuova Età di Palermo e di Marsala e l’Esule di Trapani.
Quale fosse il programma ufficiale dei Fasci dei lavoratori è facile conoscerlo, poichè venne riassunto in un opuscolo di propaganda di Garibaldi Bosco. (I fasci dei lavoratori; il loro programma ed i loro fini. Palermo 1893.)—Questo programma è quello del partito socialista dei lavoratori italiani; è il programma della scuola marxista. Non si vuole divisione delle terre, ma socializzazione di tutti i mezzi di produzione; si vuole e si combatte per l’abolizione del salariato, e come mezzo si adotta la lotta di classe, cioè degli sfruttati contro gli sfruttatori; della lotta di classe si servono per fare in modo che le classi odierne possano sparire, distruggendo tutte le ineguaglianze artificiali, artificialmente create.» (p. 11).
Questa parte per così dire radicale del programma non è detto chiaramente ed esplicitamente che sarà realizzata in un avvenire non prossimo, come riconosce lo stesso Bebel. Ma si argomenta che i capi[20] non dovevano ritenere di pronta attuazione la socializzazione dei mezzi di produzione, da quello che dicevano su di essa in altra parte del programma,—che consideravano come d’immediata attuazione e adatta alle condizioni dell’ambiente—e cioè: cooperative di consumo, cooperative di lavoro, conquista dei municipî, delle provincie ed anche del parlamento.
Queste modeste aspirazioni, che sono propugnate da tanti che non sono socialisti e pel cui conseguimento (se non vi facesse ostacolo la intolleranza di alcuni capi), si potrebbe trarre profitto dall’impiego di tante altre forze, rappresentano molto meno di quello che c’era nel programma minimo del cosidetto partito possibilista francese, ch’ebbe ad interprete autorevole e stimato il Malon.
Non avevano messo nel programma neppure le cooperative di produzione, perchè disgraziatamente nemmeno quelle di consumo e di lavoro hanno potuto attecchire in Sicilia, dove indarno si cercherebbe una associazione di semplice mutuo soccorso, che possa gareggiare con la più meschina Trade-Union inglese del vecchio stampo.
Se alcuni dei capi conoscevano le teorie di Marx—e alcuni le avevano studiate con amore e le spiegavano con molta chiarezza, come il Montalto, il Barbato, il De Luca, il Petrina, ecc.;—la immensa maggioranza dei soci dei Fasci, per non dire la totalità, non riusciva a formarsene la più lontana idea. Così avveniva che mentre i giornali ed i capi del partito parlavano di collettivismo, tra i socî e specialmente tra i contadini più arditi e più radicali si aspirava alla divisione delle terre, alla quotizzazione.[21] Per loro una buona legge agraria sarebbe l’ideale; molti altri si sarebbero contentati della riforma dei patti colonici. La elevazione dei magri salarî per gli uni, la mezzadria ad oneste condizioni—come c’è in Toscana e nell’alta Lombardia, e di cui non mancano buoni e numerosi esempî nella stessa Sicilia—per gli altri, sarebbero bastate a soddisfarli ed a quietarli per un pezzo.
Il sig. Enea Cavalieri giustamente osservò che in fondo, «astraendo dal loro infeudamento al socialismo, i Fasci, come nuclei operai, dovevano qualificarsi Società di resistenza, Trade-Unions insomma: principio di resistenza, che ha alte giustificazioni.»
Nessuno aveva, dunque, motivo di allarmarsi e di protestare se praticamente, in sostanza, i contadini e gli operai di Sicilia si organizzavano come in Inghilterra e facevano domande d’immediata realizzazione che vennero trovate ragionevoli da illustri professori di diritto, che le difesero in seno della Regia Commissione che discusse i Contratti agrarî.
Per la parte più radicale, ma di remota realizzazione, poi è bene notare che l’on. Marchese di San Giuliano, ex sottosegretario di Stato nel Ministero Giolitti—e pour cause mi limito tra i liberali e i conservatori a citare il solo rappresentante di Catania—nel suo libro: Le condizioni presenti della Sicilia (p. 135) considera come superstiziosa la venerazione di cui viene circondata la proprietà privata, che considera—al modo di Lassalle—quale una categoria storica modificabile col tempo nella legislazione. A che dunque far la voce grossa contro i socialisti, che dicono la stessa cosa?
In quanto allo spirito e ai moventi reali che spinsero[22] alla costituzione dello insieme dei Fasci, perchè i fatti posteriori mi dettero ragione, credo opportuno ripetere ciò che scrissi altra volta.
«Anzitutto,—osservai in sul finire del luglio 1893—a spiegare certi fenomeni non degni di ammirazione, è d’uopo rilevare che certi Fasci sono sorti come arma di combattimento contro locali Società operaie infeudate ad uomini ed a partiti diversi. L’ideale socialista in questi casi non è servito che come marca di fabbrica, che doveva coprire la merce di contrabando. Così alla prima occasione tali Fasci si sono visti rinnegare i principî, che dovrebbero inspirarli e in nome del socialismo combattere anche i socialisti.»
«Più di frequente i soci, che accorsero numerosi, furono trascinati nelle nuove associazioni dall’innegabile contagio psichico, che tanto più attivamente agisce quanto meno colte sono le masse sulle quali dispiega la sua azione; ma ognuno crede che in questi casi, scomparso il fascino del momento ed anche la parvenza teatrale, rimangono poco utili, se non addirittura dannosi, al sodalizio, dove portano un pericoloso contingente di svogliatezza e di malumore.»
«Nel maggior numero, infine, degli operai, che si sono iscritti nei Fasci dei lavoratori della Sicilia e che del resto ne costituiscono l’elemento migliore prevalse quel socialismo sentimentale, ch’è fatto di forte malcontento—ben giustificato—dello stato presente, e di vaga aspirazione verso un più lieto avvenire, tanto più seducente quanto più inghirlandato colle magiche promesse contenute nelle parole giustizia ed eguaglianza. Manca, però in questo[23] maggior numero la coscienza vera di ciò che si vuole, dei mezzi congrui per conseguirlo ed anche il concetto adeguato della forza, che si ha nelle proprie mani—giudicata talora grandissima e tal altra minima—e manca in generale questa coscienza perchè manca la coltura intellettuale anche la più elementare». (Rivista popolare 1. agosto 1893). Tutto questo era innegabile dinanzi allo spettacolo di Fasci sorti e presieduti da liberali ortodossi, come quello di Militello, o dei contro-fasci, come quello di Monreale.
Questo giudizio onesto di un socialista onesto, che credeva giovare alla causa prediletta col culto della verità, senza orpelli e senza illusioni, non piacque a coloro che in Italia hanno preso nelle mani il monopolio del socialismo intransigente, come non piacque ciò che dissi con altrettanta franchezza nella Grande Revue, e venni considerato come un nemico dei Fasci e designato al disprezzo come un socialistoide. A mio conforto ed a mia giustificazione venne dopo una corrispondenza da Reggio Emilia—all’epoca del congresso socialista—nel Peuple di Bruxelles, e che certamente è dovuta al Vandervelde—uno dei capi più autorevoli del socialismo belga—nella quale è detto: «In Sicilia il movimento socialista data da ieri. Si è sviluppato con una rapidità che fa pensare alla formazione delle leghe operaie belghe, dopo gli avvenimenti di marzo 1866. Sinora i contadini siciliani erano rimasti completamente al di fuori di tutte le preoccupazioni socialiste. Bruscamente in meno di un anno, tutto questo proletariato si è organizzato; ma il va sans dire che questi nuovi aderenti[24] non sono arrivati alla piena ed intera coscienza dell’ideale socialista. La maggior parte accettano il nuovo vangelo, come quei pagani che si facevano battezzare, ma che continuavano a portare delle ghirlande di fiori sugli altari di Freja. In qualche società i membri sono obbligati di assistere, da una parte alle riunioni socialiste, dall’altra alle feste annuali della Madonna. Ci si cita un gruppo—Il circolo della regina Margherita—che accetta ad una volta il principio della lotta di classe e il patronato del re d’Italia.
Questo giudizio era forse più aspro del mio; ma non era meno vero; e più severo sarebbe stato se fosse venuto all’indomani di certi luttuosi fatti determinati da domande giuste offuscate da altre assai reazionarie (Giardinelli ecc.).
È bene osservare però, che se per i lavoratori della Sicilia il programma marxista era incomprensibile, un passo notevole nel senso socialista in Sicilia si fece in questi ultimi tempi colla modificazione profonda nella coscienza degli stessi lavoratori, nel considerare la loro posizione di fronte alle altre classi e nel reclamare il loro diritto. Pel passato le classi dirigenti avvalendosi dei mezzi più poderosi di dominio—morale, religione, politica—adoperati nel modo descritto dal Loria, erano riuscite a mantenere in una specie di servitù di fatto i lavoratori che si credevano nel dovere di soffrire ed ubbidire. In altri tempi, costrettivi dalle sofferenze fisiche, poterono ribellarsi, ma essi raramente invocavano e facevano valere i propri diritti e credevano che il poco che potevano chiedere e sperare lo dovevano[25] attendere dalla carità e dalla generosità altrui. Ora invece sanno e dicono che quel poco che chiedono è loro dovuto ed hanno diritto di esigerlo.
A Partanna nei tumulti si grida: Vogliamo lavoro e non elemosine! A Piana dei Greci, quando Plebano, Farina e Comandini visitaronla i contadini, benchè affamati e nella più squallida miseria, respingevano l’elemosina credendosi avviliti, degradati accettandola.
Questi fatti provano la formazione della coscienza socialista nelle masse siciliane, e non è poco. Questa coscienza non si potrà più distruggerla e darà i suoi frutti.
Coloro che stavano alla direzione del movimento opportunamente avevano pensato ad eliminare molte stridenti contraddizioni; avevano messo in mora parecchi Fasci, che vi si abbandonavano ed alcuni anche ne avevano eliminato dal seno del partito; (Lercara, Delia, ecc. ecc.); ma i fatti rimangono sempre come un indizio dello spirito che c’è nelle masse e della loro maturità maggiore o minore per accogliere i dettati del rigido socialismo marxista.
Intanto è bene avvertire che nel programma minimo i Fasci avevano già ottenuto notevoli risultati. In taluni punti i salarî si erano elevati alquanto; altrove erano stati accettati dai proprietarii,—per timore di peggio o per ridestato senso di umanità—i patti colonici votati dal Congresso di Corleone. Il Cavalieri alludendo a questi successi sul terreno economico, nota che le modificazioni nei contratti agrarî, indarno raccomandate da tanti anni da Villari, da Rubieri, da Sonnino ecc., le ottennero i Fasci[26] colla violenza e colla minaccia e perciò in fondo loda l’opera del Congresso di Corleone[6].
Credo che egli sia stato inesattamente informato sui mezzi adoperati dai Fasci di contadini per ottenere più eque condizioni dai proprietarî delle terre, a meno che egli non consideri come una violenza lo sciopero; ma se pur egli fosse nel vero, si potrebbero biasimare coloro che da secoli sono stati vilipesi ed abbandonati e che colle buone non erano mai riusciti a migliorare la propria tristissima condizione?
La vittoria, infine, aveva coronato non poche lotte elettorali amministrative. A Piana dei Greci, a Corleone, a Prizzi, a Partinico, ad Alcamo, a San Giuseppe Jato, a Sancipirrello, ecc. ecc. contadini ed operai, candidati dei Fasci, erano andati a far parte dei Consigli Comunali.
Si avrebbe torto, però, ritenendo che questi ed altri successi elettorali fossero dovuti esclusivamente alle forze socialiste: gli operai da un pezzo senza vero programma di partito prevalsero in molti comuni:[27] alcuni li ebbero in mano completamente—Caltagirone, Agira, Biancavilla, ecc.—Altrove, ad esempio a Catania, a Messina gli eletti socialisti e con grande numero di voti, sono l’espressione di molte cause concomitanti e specialmente del malcontento suscitato dalle precedenti amministrazioni; negli eletti giovani onesti, intelligenti e coraggiosi si è visto un freno ed un controllo utile. In qualche punto i clericali e quella congerie di partiti locali senza programma alcuno hanno adescato i lavoratori, hanno messo all’asta il loro appoggio, accordando posti nei Consigli comunali a chi dava loro un maggior numero di voti e accordandoli spesso a coloro che meno li meritavano!
I successi reali i cui risultati economici sono stati visibili ed immediati, si sono visti con particolarità nelle zone agricole; si spiega perciò come e perchè i contadini fossero i più ardenti nella lotta e si può prevedere che i loro Fasci si riorganizzeranno presto e meglio degli altri non appena sarà passata la bufera attuale e prevarranno se saranno accortamente diretti; direzione accorta che c’era a Piana dei Greci per merito del D.r Barbato ed a Corleone per opera di Bernardino Verro. È facile prevedere ciò che avverrà in queste zone dal risultato delle elezioni amministrative in Piana dei Greci, dove pochi giorni prima della iniqua sentenza del 30 maggio, il D.r Barbato e i suoi compagni del Fascio, non ostante lo stato di assedio e le cancellazioni arbitrarie ed odiose dalle liste elettorali fatte dal Regio Commissario straordinario,—vennero eletti consiglieri comunali alla quasi unanimità.
[6] Questo piccolo episodio siciliano illustra sempre più ciò che L. Bissolati brillantemente sostenne contro l’on. Prof. Luigi Luzzatti sulla assoluta mancanza di spontaneità nelle concessioni fatte dalla borghesia al proletariato (V. L. Bissolati: La lotta di classe e le alte idealità della borghesia. Milano 1893). L’avvocato cremonese dimostra che tutte le leggi sociali favorevoli ai lavoratori in Inghilterra sono in correlazione colla conquistata influenza politica degli ultimi. Giustissimo! Sostenni sempre tale tesi, che formò il caposaldo delle mie teorie politico-sociali: la esposi nella conferenza al Teatro S. Cecilia in Palermo (1890) e al Consolato Operaio in Milano (1891). Allora dai valvassori del socialismo fui deriso e canzonato.... E ora?
Alla descrizione del movimento socialista siciliano nelle sue fasi e nelle sue condizioni attuali parmi opportuno far seguire un breve studio sulle cause, che lo hanno fatto assorgere ad una importanza, che non ha riscontro sul continente italiano; studio utile perchè somministra le migliori e più esatte indicazioni sulla condotta da seguire per regolarlo.
Il Prof. Lombroso, ch’è rimasto colpito dal rapido sviluppo del socialismo in Sicilia, per ispiegarlo attribuì un’azione preponderante al miscuglio delle razze e al clima. Senza intrattenermi di questo secondo fattore, la cui esagerata influenza ho dimostrato insussistente nella Sociologia Criminale (Vol. 2º), osservo sulla prima che a torto adesso lo si invoca.
I contatti tra razze diverse certamente producono fermenti insoliti e acceleramento della vita sociale: Carlo Cattaneo, precedendo il Gumplowicz e parecchi altri etnologi e sociologi contemporanei, giustamente lo affermò. Non è il caso di ricorrere a questa spiegazione oggi in Sicilia dove le razze sono[29] fuse da oltre dieci secoli e dove la miscela non sarebbe nè maggiore, nè più recente che in Lombardia o nel Napolitano.
Alcune alte autorità, che non hanno coltura sufficiente per comprendere che una propaganda che non trovasse l’ubi consistam nelle opportune condizioni sociali, rimarrebbe sterile e forse neppure sarebbe tentata, attribuiscono tutto all’azione degli agitatori, dei demagoghi, come essi li chiamano per designarli al disprezzo pubblico; e agli agitatori assegnano moventi non confessabili. Dicono che questi ultimi sono mossi dall’ambizione di divenire consiglieri comunali e provinciali o anche deputati; osano affermare che si volle fare il giuoco di Crispi e rendere necessario il suo ritorno al potere; che si aspira alla separazione col protettorato inglese, sotto il quale Malta fiorisce; che la Francia soffia nel fuoco e vuole trarre partito di un movimento insurrezionale da lei favorito; che tutto il movimento non è che una manifestazione brigantesca e che la organizzazione non è socialistica, ma modellata e inspirata dalla mafia.
La maggior parte di queste affermazioni rappresentano calunnie tanto odiose, quanto ridicole. Per quella piccola parte di vero che c’è dirò che bisogna non conoscere il cuore umano per meravigliarsi che l’ambizione si annidi nel cuore di qualche giovane intraprendente: essa anzi è un grande stimolo a mutare ed a progredire; e senza ambizione si può dire che non vi sono nell’attuale organizzazione sociale se non gl’inetti e i disgustati dalla vita pubblica. Tutto sta nel modo come si esplica e si cerca di soddisfare; e in quanto a questo, io che conosco[30] quasi tutti i giovani, che stavano alla testa dei Fasci dei lavoratori posso assicurare con serena coscienza, ch’essi sono davvero eccellenti nella grandissima maggioranza.[7]
E non a torto l’on. Comandini ha descritto, in una delle sue corrispondenze, la jeunesse dorée del socialismo siciliano, simpaticamente, come dedita allo studio e alla propaganda. Il caso non è nuovo e non deve affatto sorprendere. Chi non ricorda il lavorio di demolizione di tutte le vecchie credenze che venne fatto in Francia nel secolo scorso da buona parte della jeunesse dorée? E chi non sa che al nihilismo i martiri e gli eroi più belli vennero dalla borghesia e dalla aristocrazia?
In quanto alla ingerenza e all’influenza della mafia e del brigantaggio, l’accusa è iniquamente bugiarda. Qualche ammonito, e davvero pochi, faceva parte dei Fasci; ed a me che una volta deplorai il fatto si rispose: «dunque non si dovranno mai riabilitare? E perchè si meravigliano di qualche ammonito ch’è nei Fasci se hanno mandato Tanlongo in Senato e tanti ladri del pubblico denaro stanno in Parlamento? E perchè desta tanto scandalo un disgraziato che violò la legge per miseria per ignoranza e viene da noi paternamente accolto, mentre si trova regolarissimo che il Barone Tizio sia sindaco, sebbene abbia passato qualche[31] anno in carcere sotto gravissima accusa; e il Conte Filano tenga ai suoi ordini, come bravi, i peggiori mafiosi dell’isola? Cristo, del resto, impone il perdono!»
Questo linguaggio semplice, onesto, elevato fu tenuto anche a Piana dei Greci a Rossi della Tribuna.
Mi piace aggiungere che a me consta, che alcuni ammoniti da che erano stati ricevuti nei Fasci avevano tenuto una condotta irreprensibile. E il fenomeno non è nuovo, per quanto possa sembrare strano a coloro che non conoscono il cuore umano. Ci fu in Sicilia nel 1893 un leggero aumento nella delinquenza; ma fu anche maggiore in gran parte del continente senza che vi fossero Fasci, ma per le cause sociali generali.
Se s’ingannano da pessimisti le autorità politiche e le classi dirigenti, o vogliono ingannare, non si appone neppure al vero il Bosco nella parte in cui si abbandona ad un ingenuo ottimismo e adduce come fattori concomitanti del progresso del socialismo in Sicilia lo sviluppo intellettuale e morale delle masse. Questo sviluppo è tale meschina cosa che davvero non avrebbe potuto dare i risultati che gli vengono attribuiti. L’analfabetismo e la delinquenza—negli omicidî Caltanissetta e Girgenti hanno il primato assoluto—nell’isola sono altissimi, e la lasciano a grandissima distanza dal Piemonte, dalla Lombardia, dal Veneto, dalla Toscana, dove il socialismo è assai meno rigoglioso in questo momento.[8]
Ispira simpatia il caso citato dal Rossi della Tribuna di quei socî del Fascio, poveri anch’essi, che si quotizzarono per ricomprare il mulo al compagno che l’aveva perduto, come si farebbe nella Zadruga degli Slavi meridionali. Ma il caso isolato non autorizza affatto il Bosco a scrivere: «Moralmente il nostro contadino è di molto migliorato. Egli a poco a poco va spogliandosi della laida veste dell’egoismo e sente vivo l’amore pel prossimo; egli che non comprendeva nemmeno l’amore per la famiglia, ama oggi il fratello di dolore e lo aiuta in tutto quello che può. E di azioni veramente altruistiche, che indicano un grande progresso morale, potremmo citarne a centinaia(!!)»
Questa è poesia bella e buona; la realtà è diversa e si avvicina molto a quel materialismo economico da cui un discepolo di Marx non avrebbe dovuto discostarsi.
La realtà è questa: in Sicilia c’è un grande malcontento pel malessere economico aggravato dalle condizioni politiche; malcontento che spinge alla protesta e alla reazione, coadiuvato dall’influenza ereditaria e dalle tradizioni locali. Il malcontento ha cause economiche generali e ne ha particolari che lo hanno reso più rapidamente sensibile: il malcontento è in alto e nelle classi dirigenti, che a forza[33] di mormorare e di protestare hanno incitato il popolo ad imitarle; e col malcontento in alto sono venuti meno i freni morali e materiali, che avrebbero potuto rattenere e moderare il malcontento irrompente in basso.
Tra le classi dirigenti il malumore serpeggia e si accresce con prodigiosa rapidità per tutte le cause generali, che agiscono in tutta Italia e che trovano l’addentellato e nella politica interna e nella politica estera e in tutte le esplicazioni della vita pubblica. Di questo stato dell’animo delle classi dirigenti dettero un saggio i grandi proprietarî di Sicilia—senatori, deputati, duchi, principi, marchesi, baroni, cavalieri ed anche avvocati nullatenenti—che riuniti nella sala Ragona in Palermo, in numero di duecento, applaudirono freneticamente un rapporto del Comitato promotore, che nella parte generale—dovuta al senator Guarneri—dice in principio così: «I deplorabili moti,—promossi da quali agitatori e da quali intenti l’Italia oggi non ignora—che sono scoppiati, non sarebbero avvenuti, o almeno non avrebbero tanto attecchito se in tutta l’isola non regnasse il più profondo malcontento ed universale malessere, nato da lunghi anni di trista amministrazione.» (p. 3) Dopo questa constatazione che valore possono avere le sciocche invettive contro i sobillatori?
I proprietarî si lamentano acremente per la gravezza delle imposte erariali, provinciali e comunali, e in parte si lamentano a torto i grandi proprietarî, che se molto pagano non possono e non devono negare che dal 1860 in poi hanno visto aumentare vistosamente i loro redditi. Il prof. Salvioli afferma[34] che nel circondario di Mistretta i fitti raddoppiarono: in provincia di Catania aumentarono di circa un terzo ed in qualche zona del doppio, fino al 1881. Così in quella di Siracusa e di Caltanissetta. In provincia di Trapani l’aumento variò dal 30 al 100%. (Gabellotti e contadini in Sicilia ecc. nella Riforma Sociale del Nitti 10-25 marzo 1894). Le ricerche di altri agronomi e le mie confermano questo aumento straordinario nei fitti: e in questo come in tanti altri casi continua la rassomiglianza tra la Sicilia e l’Irlanda.[9] Inoltre il prodotto delle imposte di ogni genere in maggior parte venne speso a vantaggio degli stessi proprietarî. Molte strade comunali e provinciali, che hanno rovinato i corpi locali sono state costruite a loro esclusivo beneficio: e su di alcune si narrano intrighi e imposizioni scandalose per farle votare ed eseguire. Le imposte e le spese così riuscirono spesso ad aumentare la ricchezza dei proprietarî.
In Sicilia, eziandio, a produrre una speciale perturbazione economica ha contribuito un fattore, che avrebbe dovuto essere benefico e che sotto certi punti di vista tale realmente è riuscito. Alludo al censimento dei beni demaniali e dell’asse ecclesiastico.[35]
Qui da dieci secoli le corporazioni religiose, le confraternite ecc. avevano ricevuto doni dai fedeli ed accumulato ricchezze enormi. Nel 1860 si può ritenere che esse possedevano oltre 190,000 ettari della migliore terra malamente coltivata sì, ma il cui prodotto veniva consumato localmente. Il generale Garibaldi vide il pericolo che derivava dalla esistenza di tale vasta manomorta ed il vantaggio che si poteva ricavarne distribuendola in piccoli lotti ai lavoratori; ma il suo ottimo pensiero fu svisato completamente poco dopo.
Il governo italiano, che successe alla Dittatura, ad un elevato fine economico-sociale ne sostituì uno puramente fiscale: e col censimento, che seguì alla soppressione delle corporazioni religiose, si costituì una risorsa finanziaria compiendo una vera spogliazione a danno dei Comuni, cui accordò in teoria un quarto della rendita dei beni delle suddette corporazioni—assottigliata da imposte e prelevazioni di ogni sorta—ma in fatto la negò con ogni sorta di tergiversazioni e di litigi.[10]
Coll’incameramento e col censimento eseguito con criterî fiscali, dal punto di vista sociale il progresso fu poco, perchè alle corporazioni nelle proprietà della terra si sostituì a poco a poco il grande proprietario, checchè ne abbia pensato il Prof. Corleo,[37] ch’era un poco interessato a difendere il modo come s’era praticato il censimento; il competente Prof. Basile, anzi, arriva a dire, «che si sono vendute tutte le terre appartenenti una volta alle manimorte e sono state acquistate da proprietarî oziosi, da far comparire manivive i monasteri di una volta.» (La quistione dei contadini in Italia. Messina 1894).
Dal punto di vista economico l’isola subì tutte le conseguenze dell’assenteismo; poichè il prodotto della terra e del lavoro—in gran parte sotto forma di canone—emigrò tutti gli anni al di là dello stretto per essere consumato a Roma e nell’alta Italia, dove per ragioni geografiche, politiche e militari lo Stato spende una somma maggiore di quella che vi esige.
L’assenteismo—quest’altro male caratteristico dell’Irlanda—generato dal governo in Sicilia, si complica per dato e fatto di alcuni privati, che vi hanno grandi possessioni—Duca d’Aumale, duca di Ferrandina, duca di Monteleone, Principe di Trabia, Principe di S. Elia, Principe di Belmonte, ecc.—e che vivono, i più, nel continente italiano, in Francia o in Ispagna. I danni enormi economico-sociali dell’assenteismo vennero riconosciuti da tempo dal Sonnino, dal Baer (nel suo eccellente studio sul Latifondo in Sicilia nella Nuova Antologia del 15 aprile 1883) e di recente dal Cavalieri, da Monsignor Carini, dal De Rosa, ex-prefetto di Caltanissetta, dal senatore Faraldo, ex prefetto in Sicilia (Alcuni riflessi sui casi succeduti in Sicilia) ecc. ecc.
Questa causa di depressione economica, che agiva lentamente, da recente fu resa più energica colle facilitazioni allettatrici, che accordò lo Stato[38] per lo affrancamento dei censi sui beni dell’asse ecclesiastico; i cui possessori assunsero impegni superiori alle loro forze, s’indebitarono—e contribuirono ad accrescere le immobilizzazioni bancarie—e mandarono al centro, non il reddito annuo ma l’importo delle terre censite e sottrassero alla vita economica del paese un ingente capitale.
In questo modo si crede, ed a me pare che la credenza sia giustificata, che l’isola abbia dato all’Italia più di quanto ha ricevuto; ed ha sicuramente ricevuto meno di quanto le si doveva sotto forma di strade, che sarebbe stata la più utile delle restituzioni sotto tutti gli aspetti. Lo Stato, altresì, a cagione della sua organizzazione centralizzatrice sino all’assurdo, agisce sulla periferia come una pompa aspirante, che restituisce solo in minima parte ciò che ne assorbe.
Oltre questi fatti d’indole economica, vi è un’altra causa di malcontento, che si è resa intensa da recente per i proprietarî in generale ed è rappresentata dal peggioramento nelle condizioni della pubblica sicurezza. Sintanto che in Sicilia si ammazzava più che altrove, essi non si preoccupavano molto del fenomeno morale: questa forma di delinquenza di ordinario non li colpiva. Quando aumentarono i reati contro la proprietà e sopratutto l’abigeato, o furto di animali bovini e da trasporto, i sequestri di persona, i ricatti ecc. allora essi furono toccati direttamente, furono presi da paura, si rinchiusero nelle loro case, videro andare in malora i loro interessi, furono privati dei godimenti della vita campestre e venne meno la funzione dello Stato da loro più apprezzata: quella che compie lo stato-gendarme.[39] Si può comprendere come e quanto protestassero!
È bene si dica che i furti in Sicilia se sono alquanto maggiori alla media del regno e dell’alta Italia, sono però molto al disotto che in Sardegna, nel Lazio, in Basilicata e negli Abruzzi[11]. Ma in Sicilia le forme speciali del reato contro la proprietà sopraccennate,—cioè: abigeato, sequestro di persona, ricatto, ecc.—se aumentano destano un grande allarme. E le gesta della banda Maurina, la taglia pagata dalla Baronessa vedova Sisto, i sequestri Coniglio, Terresena e del disgraziato cav. Billotti, che fu ucciso e bruciato in una grotta, destarono e mantengono lo spavento in tutti; spavento accresciuto talora dalle notizie false che spargono i contadini e gl’impiegati, che hanno interesse a tenere lontani dalle campagne i padroni. E il malandrinaggio e le altre cennate forme di reato contro la proprietà in Sicilia sono facili e frequenti per la esistenza del latifondo (che costringe alla cattiva distribuzione della popolazione, riunita in grossi centri, lontanissimi gli uni dagli altri, e circondati da campagne deserte e brulle) e per la mancanza di strade, per l’analfabetismo, e per le prepotenze feudali, che in qualche punto perdurarono più che altrove e generarono largo risentimento. I malandrini assurgono gradatamente alla trista altezza di briganti, e sanno tenere impunemente la campagna colla buona tattica: rispettano i piccoli, sanno procacciarsi il rispetto[40] o la solidarietà dei contadini, dei bovari, dei pastori, degli zolfatari, o con terribili esempî incutono loro timore, quando in loro non trovano le ragioni—che mancano di rado—di odio contro i padroni.
Queste cause che generano e mantengono la particolare delinquenza della Sicilia in modo permanente, negli ultimi tempi sono state rese più intense dalla crisi agricola e dalla crisi zolfifera. Della prima si è scritto abbastanza ed è conosciuta: il rinvilimento del prezzo dei cereali e dei vini e degli altri prodotti dell’isola—rinvilimento cagionato dalla rottura delle buone relazioni commerciali colla Francia e dalla depressione del mercato interno, impoverito dall’alta quota delle imposte pagate e da altre cause—ha arrecato gravi perdite ai proprietarî e per ripercussione ai lavoratori. La crisi ha talvolta forme e cause strettamente locali: così a Monreale, a Partinico e in altri punti della provincia di Palermo, dove sono avvenute dimostrazioni e torbidi, sebbene la proprietà sia ben divisa, in questi ultimi anni la miseria è grande, tanto più intollerabile in quanto che è del tutto insolita, poichè eccezionalmente generata dal ribasso fortissimo nel prezzo degli agrumi che rappresentano il prodotto esclusivo di quella ferace contrada[12].
Della crisi zolfifera dirò brevemente più oltre; qui mi basta conchiudere osservando che le due crisi, l’agricola e la mineraria, hanno direttamente aumentato il malcontento della classe dirigente per le ragioni economiche; e l’hanno indirettamente accresciuto in quanto che contribuirono in forte misura a peggiorare le condizioni della pubblica sicurezza.[13]
[7] G. Alongi, intelligentissimo funzionario di pubblica sicurezza, in uno studio sui Fasci dei Lavoratori estratto del Manuale del Comm. Astengo, ha raccolto talune odiose calunnie sopra alcuni Presidenti dei Fasci, che tolgono valore al suo studio nel resto abbastanza buono.
[8] In Sicilia, secondo i dati statistici recenti comunicatimi gentilmente dal D.r A. Bosco (della Direzione della statistica del regno), nel 1891 c’erano tra gli sposi e le spose 71% di analfabeti e 63% tra i coscritti, in Piemonte invece vi sono analfabeti nella proporzione del 12 e del 16%. In quanto a reati per 100,000 abitanti in Sicilia si ebbero nel 1891 denunzie 28 per omicidio, 359 per lesioni violente e 392 per furti; in Piemonte per le rispettive categorie si ebbero queste cifre; 4, 103, 223. Quanti insegnamenti in questo confronto!
[9] Chi vuole formarsi un’idea adeguata della somiglianza tra le due isole, in quanto a condizioni economico-sociali legga il libro dell’individualista Fournier: La question agraire en Irlande e l’opuscolo del socialista Kautsky: Irland. kultur-historische Skizze, Leipzig 1880.
Il parallelo riesce utilissimo per le indicazioni che i casi d’Irlanda somministrano per la soluzione del problema siciliano.
[10] Nel rapporto dei grandi proprietarî di Sicilia a pagine 4 e 5 si legge:
«La Sicilia è entrata nella grande famiglia italiana con un debito pubblico di appena ottantacinque milioni in capitale, e con un lieve bilancio di sole lire 21.792,585. E a dippiù dessa vi ha arrecato il suo tesoro, accumulato da lunghi secoli, dei beni ecclesiastici e demaniali. Però dessa vi è entrata al tempo stesso povera di opere pubbliche, cioè di mezzi di viabilità di ogni genere, di lavori portuali, e di bonifiche di qualunque natura.
«La censuazione dei beni ecclesiastici, e la vendita di quelli demaniali ha avuto luogo, non a scopo sociale, non a sollievo delle classi agricole, ma a fine di lucro, e di finanza, e quest’Isola ha dovuto ricomprare le sue terre chiesastiche e demaniali, e allibertare le sue altre proprietà immobiliari, erogandovi la colossale somma di quasi 700 milioni, che sono stati sottratti alla bonifica delle altre sue terre.
«Ed il quarto dei beni ecclesiastici, attribuito dalla legge del 7 luglio 1866 ai comuni dell’Isola, è stato davvero derisorio, giacchè (incredibile a dirsi, ma pure vero) il valore di questi beni a riguardo dei detti comuni, è stato calcolato in base alle vilissime dichiarazioni del clero di Sicilia, per il soddisfo della tassa di manomorta del 4%. E da questo nominale valore sono stati dedotti il 30% attribuito allo Stato giusta la legge del 15 agosto 1867, e dippiù il 4%, di tassa di manomorta, ed un altro 5% per ispese di amministrazione. Però tutte queste deduzioni sono stato ragionate sul valore effettivo dei cennati beni; e sottratte in oltre le pensioni dovute ai membri degli Enti soppressi. Sicchè nulla, o quasi nulla, han percepito sin oggi dopo più che un quarto di secolo, i Comuni del cennato quarto di beni. Anzi il Demanio ha richiesta la restituzione delle poche somme, per tale causa, pagate a qualche Comune.
«Or dietro tanti sacrifici che quest’Isola ha, per virtù di patriottismo, accettati, dessa avea bene il diritto di vedersi equiparata alle altre regioni d’Italia nelle condizioni di viabilità, o di miglioramento di ogni genere.»
Mi associo di tutto cuore alla osservazione del Comitato promotore, che vorrei vedere tenuta nel dovuto conto da coloro che credono nella generosità del governo italiano verso la Sicilia. Però devo notare che la valutazione dei beni dell’asse ecclesiastico fatta dalla relazione dei grandi proprietarî—secondo i dati fornitimi gentilmente dal Comm. Simeone, direttore generale del Demanio—è troppo esagerata.
[11] La media del regno pel 1891 per 100,000 abitanti è di 348 furti, in Sardegna di 846, nel Lazio di 667, in Basilicata di 638, negli Abruzzi di 518, in Sicilia di 398.
[12] Degli effetti del fiscalismo e dell’usura, che producono il grave malcontento dei piccoli e medî proprietarî se ne avrà una idea da questi desolanti dati statistici. Nella provincia sola di Caltanissetta dal 1883 al 1893 si fecero le seguenti espropriazioni: Caltanissetta 3151, Piazza Armerina 2033, Riesi 1648, Butera 1388, Santa Caterina Villarmosa 731, Mazzarino 604, Castrogiovanni 463, Montedoro 500, Valguarnera 432, Resuttano 449, Sommatino 399, Delia 392, Serradifalco 322, Aidone 252, San Cataldo 228, Villalba 228, Niscemi 158, Barrafranca 140, Sutera 136, Vallelunga 116, Acquaviva 46, Pietraperzia 28, Villarosa 29, Marianopoli 10, Campofranco 6. La lista non è completa eppure le espropriazioni del decennio arrivano a 16662! (Dalla Rivista popolare del 31 Dicembre 1893). Nel solo comune di Chiaramonte Gulfi (paese di circa 10000 abitanti nella provincia di Siracusa) nel mese di Dicembre 1893 per conto dell’esattore andarono all’asta 129 piccolissime e medie proprietà. Ho sottolineato la città di Castrogiovanni perchè nonostante il suo vastissimo territorio e i suoi 22000 abitanti, ha avuto, un numero relativamente esiguo di espropriazioni, perchè c’è un certo benessere. Fu mantenuta sempre la calma e l’ordine.
[13] L’on. Marchese di San Giuliano da vero uomo di Governo, nel senso comunemente attribuito a questa frase in Italia, e che sente la responsabilità della politica disastrosa da lui appoggiata dal 1882 al giorno d’oggi, ha tentato scagionare il governo dalle accuse rivoltegli, sostenendo che della depressione economica della Sicilia la colpa del governo è poca o almeno non è quanta glie ne viene attribuita. (Le condizioni presenti della Sicilia). La difesa non merita di essere discussa. Alle sue affermazioni, veramente audaci, rispondono i fasti della politica finanziaria, militare e doganale—strettamente connesse alla dinastica politica estera—che trovarono estimatori assai più equi anche tra i più eminenti uomini di governo; tra i quali cito soli i senatori Jacini e Finali, perchè credo, che bastino a controbilanciare l’autorità dell’ex-sottosegretario di Stato per l’agricoltura e commercio.
Dei piccoli proprietarî non occorre tener parola. La loro condizione, che peggiora dappertutto, non è diversa in Sicilia di quella che è altrove; essi che hanno minore resistenza da opporre alle cause di depressione economica, sentono che muoiono, che gradatamente vengono gettati tra le file del proletariato. Perciò giustamente cominciano ad essere accessibili alla propaganda socialista, che tra loro riuscirebbe più efficace se il concetto della lotta di classe—facilmente frainteso—non li spaventasse, perchè temono che in un momento decisivo i proletarî, non saprebbero fare distinzioni sottili tra grandi e piccoli proprietarî e li voterebbero tutti alla morte[14].
Nè occorre intrattenersi del proletariato urbano, poco dissimile per le condizioni economiche da quello del resto d’Italia; inferiore al medesimo nella istruzione, nella coltura, nella compartecipazione alla vita pubblica. I Fasci dei lavoratori delle città,—eccettuato quello di Catania—perciò offrono una minore solidità ed attività di quelli delle campagne, e poco fanno parlare di loro. Così Palermo rimane tranquilla, mentre alle sue porte, a Partinico, a Monreale, a Girardinello è forte l’agitazione; si arresta, si ferisce, si ammazza. Con che non s’intende disconoscere che in questa attitudine non abbia seriamente contribuito la influenza moderatrice che i capi del partito socialista esercitano sulle masse, consci come sono dei danni che verrebbero da un movimento inconsulto: azione altamente moderatrice e non mai abbastanza lodata—sebbene dal Governo del tutto disconosciuta—esercitata pure dal dott. Barbato a Piana dei Greci e dal Verro nelle contrade di Corleone: paesi che senza di questa azione moderatrice avrebbero potuto dare un forte e pericoloso contingente agli ultimi sanguinosi tumulti.
Tristissima è la sorte delle cinquantamila famiglie, che vivono direttamente del lavoro nelle miniere di zolfo. I reporters che hanno visitato l’isola in generale si sono dati alle commoventi descrizioni dei così detti carusi, cioè dei giovani dagli 8 ai 20 anni, che sulle loro spalle traggono fuori dalle viscere[44] della terra il minerale da cui si estrae lo zolfo; e lo trasportano attorno ai calcheroni, nei quali viene fuso e ridotto in pani; descrizioni, che fanno rassomigliare una zolfara ad una bolgia dantesca coi suoi disgraziati abitatori e che di poco si scostano dal vero.
I carusi hanno formato oggetto di vive discussioni a varie riprese in Italia.
La stampa del continente se ne occupò con interessamento dopo la pubblicazione del libro di Sonnino sui Contadini in Sicilia, il quale ne trattò nell’appendice. Quando si cominciò a parlare di legislazione sociale tornarono di moda; e finalmente nel settembre scorso ci fu di nuovo una esplosione di sdegno per le sofferenze di questi lavoratori delle miniere dopo la descrizione fattane dal Rossi della Tribuna.
Se sono molte le inesattezze scritte e divulgate sulla durezza del lavoro dei minatori di zolfo, sono assai minori quelle sui carusi.
Tra tutte le descrizioni sul lavoro aspro, durissimo, cui sono condannati i carusi, rimane, a mio giudizio, più esatta, per quanto elegante e sentimentale, quella datane da Gustavo Chiesi nella Sicilia Illustrata. Non mi arrischio di rifarla o di ripeterla perchè a me manca quella vivacità dello stile ch’è necessaria per farne un bozzetto, che per quanto impressionante rimane sempre verista. Mi limito, perciò, ad occuparmi di quella parte delle loro condizioni, che si presta ad essere trattata con l’aridità che mi è abituale.
Comincio dalla durata del lavoro. Raramente la giornata di lavoro dei carusi sorpassa le otto ore,[45] come raramente rimane al disotto, mentre quasi mai il picconiere lavora per otto ore, e la sua settimana di lavoro è di quaranta ore.[15]
Quindi sotto questo punto di vista la legge delle otto ore nelle miniere della Sicilia non avrebbe sensibile applicazione e non darebbe gli sperati utili risultati.
I carusi, come i picconieri, lavorano a cottimo e ricevono una parte maggiore o minore dell’importo della cassa di zolfo, secondo la maggiore o minore distanza dal cantiere della lavorazione al piano d’impostamento presso il calcherone, e secondo pure la lunghezza e ripidità della scala. Da queste due condizioni, infatti, dipende il numero dei viaggi, che può fare il caruso e la quantità di minerale, che può essere trasportata fuori in una giornata.[46]
Il salario varia in questo momento dai 40 centesimi alla lira al giorno secondo l’età; ma si avverta, che oggi non che al salario dello sweating system sono ridotti al doloroso sciopero forzato.
L’usura pesa sui carusi, come pesa sui picconieri, e non è esatto che questi ultimi riversino sui primi la parte che a loro spetta; almeno questo è un caso del tutto eccezionale e che si verifica quando il picconiere è agiato, ha un piccolo capitaluccio e fa lui stesso le anticipazioni in generi al caruso. Ma in questo caso, per essere giusti, si deve riconoscere che il picconiere non esercita l’usura in proporzioni superiori a quelle, cui si dovrebbe sottostare ricorrendo alla bottega del padrone-coltivatore.
Si sono esagerate di molto le crudeltà del picconiere contro il caruso, che si è voluto dipingere come se fosse assolutamente lo schiavo del primo e su cui avrebbe una specie di diritto di vita e di morte. I rapporti tra picconieri e carusi sono improntati generalmente a quel carattere di durezza, che prevale nelle classi inferiori, specialmente della Sicilia.
Il contadino si crede nel diritto di bastonare la propria moglie e i propri figli; e lo stesso diritto crede di avere il picconiere verso il caruso. Non sono rari i casi, poi, in cui il primo mostra una eccezionale dolcezza verso il secondo; e lo liscia, lo carezza, gli regala qualche sigaro e lo porta a bere un bicchiere di vino nei giorni festivi e di domenica. E ciò fa più per convenienza, che per bontà di animo; lo fa per quell’anticipo che gli ha dato e che è stato erroneamente interpretato e dal Sonnino e dal Rossi e da molti altri, che ne hanno scritto.[47]
Quando un caruso s’impegna a lavorare con un picconiere riceve da questo una somma, che varia dalle 50 alle 150 lire, secondo l’età e la ricerca che c’è di carusi. Questa somma si chiama anticipo morto, che non sempre si sconta gradatamente col lavoro quotidiano, ma si restituisce quando il caruso vuole andare a lavorare con un altro picconiere o vuole cambiare mestiere.
Le famiglie di contadini e anche di operai dei centri urbani hanno una grande risorsa nello anticipo, che intascano per uno o due figli, che mandano a lavorare nelle miniere; ma si sbaglia grossolanamente quando si crede che questo anticipo, che spesso nè il caruso, nè la sua famiglia sono in condizione di restituire, costituisca un legame economico rassomigliante alla servitù. Il vero è che il caruso, se è nullatenente e poco onesto, o se tale è la sua famiglia, un bel giorno lascia con un palmo di naso il picconiere, e va a lavorare con un altro picconiere, intascando un altro anticipo: operazione, che ripete talvolta con parecchi che lascia sul lastrico. Al picconiere non resta che esperimentare l’azione civile, senza utile alcuno; ma qualche volta, esasperato dalla perdita, che per lui è un vero disastro, lo cerca, lo insegue, e se lo trova, lo bastona terribilmente. Non poche volte sorse fiera contesa con brave coltellate tra l’antico picconiere derubato e il nuovo con cui è andato a lavorare il caruso senza restituire al primo l’anticipo; poichè le consuetudini e le leggi dell’omertà esigono che un picconiere, assoldando un caruso, s’incarichi esso stesso di saldare il creditore precedente, cui si sostituisce in tutto e per tutto. Chi vien meno a tali consuetudini[48] e leggi della mafia, si espone alle vendette del danneggiato; e in realtà è meritevole di punizione perchè se esso non ruba, tiene il sacco.
Ma i picconieri intelligenti, se trovano carusi buoni e laboriosi, li trattano bene e li carezzano, e io conosco lavoratori che da anni stanno in relazioni intime e affettuose, come ne conoscono tutti coloro che hanno coltivato miniere di zolfo.
Picconieri e carusi, e tutti i lavoratori delle miniere come quelli della terra in generale in Sicilia soffrono molto per le abitazioni, che sono anguste e luride o mancano del tutto.
A questo la legge deve e può provvedere; come dovrebbe provvedere alla istruzione di tanti ragazzi. Proposi nella penultima discussione del bilancio della pubblica istruzione, l’impianto di scuole elementari nelle miniere di zolfo e ricordai che la Spagna ci ha preceduti. Ma l’on. Martini mi rispose che l’idea era buona... però mancavano i quattrini per attuarla,—quattrini che poi si trovarono per il famoso ispettorato!
E qui mi piace, a titolo d’onore, far menzione della scuola elementare serale che il signor Trewhella a sue spese ha impiantato nella grande miniera di Grottacalda. L’esempio potrebbe essere imitato da altri coltivatori di grandi miniere e servirebbe di aspro rimprovero allo Stato.
Infine mi tocca a far menzione di una grave quistione: quella della degenerazione nel lavoro duro e precoce dei carusi.
Altra volta scrissi che dai resoconti del generale Torre non si poteva assodare se il lavoro delle miniere deformasse i carusi. Non se ne può giudicare[49] dalle esenzioni in blocco dal servizio militare per difetto di statura, perchè la statura è uno dei dati antropometrici più strettamente connesso alla razza. Varî circondarî del continente offrono un contingente di riformati uguale o superiore a quello dei circondarî minerarî della Sicilia, senza che abbiano miniere. A priori, però, si può ammettere che il lavoro delle miniere noccia molto alla salute e allo sviluppo fisico dei carusi; e ciò con indagini dirette ha cercato dimostrare l’egregio dottor Giordano da Lercara. Questi, su 539 carusi ne trovò 170 difettosi. Il Mosso nel suo libro sulla Fatica dice che dal 1881 al 1884 nella provincia di Caltanissetta, sopra 3672 lavoranti delle zolfare che si presentarono allo esame di leva, soltanto 253 furono dichiarati abili, cioè appena il 6,87%! L’errore e l’esagerazione in questi dati sono evidenti; e di ciò convinto volli fare ulteriori ricerche comparative tra contadini e zolfatari. Le intrapresi su queste due sole classi di lavoratori, perchè non si può ammettere che le conseguenze del lavoro duro e precoce nell’una classe vengano compensate dalla migliore nutrizione e dalla più igienica abitazione.
La comparazione era necessaria, poichè, presi in blocco, i risultati della leva non dimostrano affatto che nelle zone zolfifere vi sia una particolare degenerazione prodotta dallo speciale lavoro delle miniere, come si può rilevare da questo quadro dei riformati dalla leva del 1870 in alcune provincie d’Italia:[50]
Per difetto di statura | Per tutti gli altri difetti Compreso il difetto di statura. |
|
---|---|---|
Sondrio | 12,67 % | 36,62 % |
Foggia | 9,45 % | 18,75 % |
Potenza | 12,06 % | 19,27 % |
Catanzaro | 13,07 % | 22,35 % |
Reggio-Calabria | 12,45 % | 22,26 % |
Caltanissetta | 14,55 % | 21,24 % |
Girgenti | 10,24 % | 18,08 % |
Cagliari | 14,92 % | 25,74 % |
Sassari | 13,48 % | 24,36 % |
Si può dire che Girgenti e Caltanissetta danno la immensa maggioranza dei coscritti-carusi: pure la degenerazione è minore che in altre provincie nelle quali non vi sono miniere.
Questo risultato indusse anche me in errore pel passato; ma mi sono corretto dinanzi alla eloquenza di queste altre cifre relative al circondario di Piazza Armerina, che si presta benissimo allo studio appartenendo la grande maggioranza dei suoi lavoratori alla classe dei contadini e degli zolfatari.
Infatti la classe dei contadini dette riformati nella leva
del 1872: | e del 1873: | |
---|---|---|
riformati per difetto di statura il | 14.45 % | 14.41 % |
e per altre imperfezioni fisiche | 6,88 % | 6,79 % |
mentre nelle stesse leve e per gli stessi motivi nella classe dei zolfatari si ebbero rispettivamente nel 1872: 32, 72 e 7,72% e nel 1873: 38, 28 e 6,25% di riformati. Sicchè per gli altri difetti fisici la proporzione dei riformati è quasi uguale tra contadini e zolfatari; tra gli ultimi è invece più che doppia per difetto di statura. Qui è evidente l’azione[51] esercitata dal trasporto sulle spalle di un peso che varia dai 30 agli 80 chilogrammi, sempre superiore alle forze del caruso, che a quel lavoro viene sottoposto in tenera età, sin dagli anni 8 e talvolta—ma ora assai più raramente—sin dai 6 anni. Questo stato di cose se perdurasse ridurrebbe le due Provincie di Caltanissetta e di Girgenti ad un vero semenzaio di nani e di gobbi. Ho richiamato l’attenzione del ministro e agricoltura e commercio su di ciò e ne ho avuto formale promessa, che nella discussione del nuovo disegno di legge sul lavoro dei fanciulli accetterà qualche emendamento sul lavoro dei carusi nelle zolfare di Sicilia.
Sarebbe un rimedio efficace la generalizzazione degli apparecchi meccanici per la estrazione dello zolfo? In molte miniere questa applicazione delle macchine è assolutamente impossibile e lo riconosce la stessa illustre Jessie White Mario, che pur tanto s’interessa alla sorte dei miseri fanciulli delle zolfare (Le miniere di zolfo in Sicilia. Roma 1894); dove è avvenuta spesso sono peggiorati i salari dei lavoratori. Ciò che prova sempre più come coll’attuale organizzazione capitalistica i progressi della scienza, che diminuirebbero le sofferenze fisiche dei lavoratori non si possono applicare per ragioni economiche. Si sa: la macchina è la nemica del lavoratore, dato il regime economico attuale,—perchè dovunque avviene l’impianto meccanico aumenta la produzione e diminuisce il salario, conseguenza fatale della sostituzione dell’uomo di ferro all’uomo di carne.
L’applicazione rigorosa della legge sul lavoro dei fanciulli può e deve riuscire utile dal punto di vista[52] igienico ed antropologico; ma è giocoforza riconoscere che le limitazioni imposte dalla legge incontrano opposizioni gravi nelle stesse famiglie dei lavoratori. E a parere mio, lo Stato fa bene intervenendo per impedire che degeneri e si abbrutisca la razza umana: ma intervenendo ha il dovere di assicurare se non altro un minimum di alimentazione a quei carusi, ai quali impedisce di guadagnarsi il pane col proprio lavoro; deve assicurarlo a loro almeno, se non alle famiglie, altrimenti per quanto le sue intenzioni siano filantropiche, umane, esse verranno giudicate sempre crudeli.
Ma oltre le sofferenze fisiche dei carusi c’è da considerare la condizione economica dei picconieri divenuta oramai intollerabile. Essi nella maggior parte delle contrade zolfifere vivono col vero salario della fame, relativamente a quello goduto una volta; poichè pel duro lavoro, ordinariamente a cottimo, di sei ad otto ore per cinque giorni della settimana, essi ricevono ora un salario che oscilla, secondo i luoghi, da L. 1 a L. 2 mentre pel passato guadagnavano da L. 3 a L. 6 al giorno.
Questo salario deve considerarsi insufficiente non solo nel senso assoluto: ma perchè è il corrispettivo d’un mestiere, che espone continuamente a pericolo di vita per lo sviluppo di gas irrespirabili, per incendî, per franamenti, ecc. Se il lavoro dei picconieri delle miniere di zolfo è pericoloso, non è, però, tanto duro per quanto lo si dice, e non è poi affatto lungo, come dissi.
Non è affatto esagerato, invece, quanto si è scritto—ed io da molti anni prima nella stampa e poi nella Camera ho denunziato il male—sull’usura[53] enorme, dal 25 al 100 per cento, che assottiglia il salario nominale dei lavoratori delle miniere di zolfo; usura esercitata col truck-system, colla somministrazione dei generi nelle così dette botteghe delle miniere; alle quali botteghe sono costretti a ricorrere perchè la paga in danaro viene ritardata di molto.
Disgraziatamente, date le attuali condizioni dell’industria zolfifera, quelli che possono sperare meno sono i lavoratori delle miniere di zolfo. La loro agitazione potrebbe riuscire proficua soltanto nel caso in cui essi ottenessero che scomparisse il coltivatore della miniera e rimanessero di fronte al proprietario, che oggi prende dal 20 al 30% del prodotto lordo senza nemmeno darsi la pena di pagare la imposta fondiaria, che per condizione espressa nell’atto di fitto rimane a carico dei coltivatori! Quest’ultimi dal ribasso continuo dei prezzi dello zolfo, che si deplora da circa quindici anni, con piccole oscillazioni al rialzo, sono ridotti in condizioni tristissime. Molti sono falliti e coloro che resistono considerano lo sciopero come un alleviamento, perchè li dispensa dall’obbligo di dare lavoro. E se lo sciopero dei zolfatari potesse prolungarsi per alcuni mesi, come durò in Inghilterra quello dei minatori, sarebbe per qualche tempo efficacissimo rimedio, perchè colla diminuzione della produzione sicuramente rialzerebbero i prezzi dello zolfo, non essendo da temere la concorrenza estera. Uno sciopero siffatto intanto è impossibile, poichè la massa dei zolfatari si trova nella miseria, non è organizzata, non ha fondi e non può resistere neppure per una settimana.
Dato questo stato di cose si comprende che i Fasci hanno dovuto attecchire nelle zone zolfifere: provincie[54] di Girgenti e di Caltanissetta in massima parte ed in una assai minore in quelle di Catania e di Palermo, ma non sono i meglio organizzati e i più compatti. Però anche dove Fasci non sono esistiti il malcontento serpeggia minaccioso ed esplode per ogni minimo pretesto in forma selvaggia, anarchica, come avvenne a Valguarnera. E questa esplosione in un luogo dove l’azione dei cosidetti sobillatori non può invocarsi a spiegarla, dovrebbe rendere meglio avvisati coloro cui sfugge la genesi esatta dei fenomeni sociali.
A Grotte, a Racalmuto, a Favara, a Riesi ecc.—paesi zolfiferi per eccellenza,—dov’erano Fasci discretamente organizzati non si ebbe a deplorare il menomo disordine; ma la crisi che attraversa la industria zolfifera sta mettendo a durissima prova la pazienza dei coraggiosissimi lavoratori delle miniere. Guai se essi, spintivi dalla disperazione, vorranno imitare i contadini! Meglio disciplinati, più compatti, più arditi, più coscienti dei propri diritti e della propria forza che non siano le classi rurali, essi potrebbero rinnovare gli orrori delle guerre servili... E la ragione starebbe dalla loro parte, poichè governo e classi dirigenti di fronte alle loro miserie mostrano tanta cinica indifferenza da giustificare qualunque eccesso! Perchè si comprenda tutta la gravità dal pericolo, che denunzio, farò un breve schizzo del carattere morale e intellettuale degli operai addetti alla coltivazione delle miniere.
Picconieri, carusi, calcheronai, ecc. sono quasi tutti analfabeti; la mafia recluta tra loro i più coraggiosi campioni e sin dalla più tenera età essi ostentano la più scrupolosa osservanza delle leggi, che costituiscono[55] il codice dell’omertà. Data la loro vita e la loro condizione intellettuale si spiega l’altissimo contingente che i zolfatai danno ai reati di sangue od a quelli contro il buon costume.
La responsabilità maggiore di questi loro difetti ricade sull’ambiente, sul governo e sulle classi dirigenti, che mai pensarono ad elevarli, ad educarli; ma quegli operai hanno pregi reali e non pochi, che preferisco riferire colle parole di un chiarissimo scienziato, l’ing. R. Travaglia, che li conosce appieno e che non è affatto sentimentale o socialista.
«Dedito ad una vita di sacrificio e di fatica,—scrive l’antico Direttore della scuola mineraria di Caltanissetta—isolato per intere settimane dal mondo, separato per più giorni dalla sua famiglia, l’operajo delle miniere in Sicilia vuole ad ogni costo i suoi giorni di riposo e le sue feste; talora in queste è troppo spendereccio e cerca di compensare le durezze della vita di operajo, nella settimana, con un certo benessere e coi piaceri, che più ama nei giorni ch’è al paese.... Noncurante dei pericoli, ai quali è continuamente esposta la sua vita, conta poco questa per sè e per gli altri, anche quando è fuori della miniera, e malauguratamente spesso si lascia trascinare dagli impeti dell’animo a sacrificarla. Ma è per sua natura generoso, mai vile; affronta a viso alto dieci avversarî, non soverchia col numero i deboli. Trattato bene si affeziona a chi lo rispetta, a chi lo stima, ed è capace di ogni atto di coraggio; trattato con sprezzo e con durezza, si ribella e si vendica. Riconosce la superiorità di chi vale più di lui, e pur coi suoi difetti, che l’istruzione mitiga, è un operaio di cui si può fare quello che si vuole,[56] sapendolo trattare. Chi ne dice male, non lo conosce.» (I giacimenti di zolfo in Sicilia. Padova 1889).
Ed io che li conosco da vicino, e che in mezzo a loro e in continuo contatto con loro ho vissuto per oltre dieci anni, mi associo pienamente al giudizio che dà il Travaglia sulle buone qualità dei lavoratori delle miniere di zolfo della Sicilia.
[14] Si avrà una idea delle condizioni dei piccoli proprietarî da questo dato. In Chiaramonte Gulfi, cittadina di 10 mila abitanti nella provincia di Siracusa pel giorno 26 Dicembre 1893 era fissata la vendita d’immobili di centoventinove individui, che non avevano potuto pagare le imposte. La quota d’imposta non pagata raramente sorpassava le L. 20; moltissime non arrivavano a L. 10 e sette erano al disotto di L. 5.
[15] In questi ultimi tempi picconieri e carusi hanno cominciato a lavorare di più per rimediare al diminuito prezzo dello zolfo: così il rinvilio crescente e veramente spaventevole nel prezzo del minerale anzichè ridurne la produzione in certe miniere l’ha aumentata poichè picconieri e carusi, che—prima della crisi—vivevano umanamente estraendo due casse di minerale zolfifero, ora per ricevere un salario, del resto sempre molto inferiore all’antico, sono costretti ad estirparne almeno tre. Con ciò la produzione aumenta e i prezzi continuano a ribassare per opera fatale degli stessi lavoratori, che sono le prime vittime di questo tristissimo circolo vizioso! L’industria zolfifera in Sicilia presenta alcuni paradossi economici, che raccomando all’attenzione degli economisti liberali, che con incredibile cecità si ostinano ad aspettare il rimedio alla crisi dal funzionamento delle cosidette Leggi naturali. Dell’industria zolfifera mi sono occupato lungamente in due articoli pubblicati nel 4º e nel 7º-8º numero della Riforma sociale del Nitti. Ne pubblicherò un terzo ed ultimo e dopo li raccoglierò in un opuscolo a parte.
La crisi zolfifera, che produce miserie e sofferenze inaudite, travaglia le due provincie di Caltanissetta e di Girgenti ed alcune zone di quelle di Catania e di Palermo, la crisi agraria invece colpisce tutta l’isola, e siccome non c’è un solo dei suoi prodotti—dal vino ai sommacchi, dai cereali alle mandorle all’olio, ai pistacchi ecc.—che non abbia subito da qualche anno un forte ribasso, si può dire ch’essa non risparmia un sol palmo di terreno, nè un solo individuo che lo calpesti. In una regione dedita con grandissima prevalenza, se non esclusivamente all’agricoltura e alla pastorizia si può immaginare agevolmente quali tristi conseguenze arrechi una tale crisi.
Però tra i lavoratori addetti all’agricoltura non è uguale dappertutto il malessere, perchè normalmente diverse sono le loro condizioni.
Infatti sono svariatissime le condizioni dei lavoratori della terra in Sicilia: variano da provincia a provincia; da circondario a circondario, da comune[58] a comune. Errano, quindi, coloro che generalizzano con leggerezza dai casi singoli; ed errerebbe chiunque credesse che quel campione di pane inviatomi da Campofelice (provincia di Palermo), e di cui si occupò la Tribuna, sia mangiato dappertutto. Miserie, e grandi, non mancano tra i contadini, ma in generale essi mangiano del buon pane di frumento, che potrebbe essere invidiato dai lavoratori della Calabria e di alcune contrade del Veneto e della Lombardia.
La varietà delle condizioni non sfuggì al Sonnino, che la descrisse nel suo libro, ancora eccellente, sui Contadini della Sicilia e venne constatata pure dall’on. Damiani nel volume della Inchiesta agraria consacrato all’isola.
C’è una zona litorale, che da Marsala per Palermo, Termini, Milazzo, Messina scende a Catania e da Catania gira attorno all’Etna, e poi forma alcune oasi nell’interno dell’isola e delle provincie di Caltanissetta, di Girgenti e di Siracusa, in cui prevale l’agricoltura intensiva, la piccola proprietà, la mezzadria; nel resto domina la grande proprietà, la coltura estensiva a cereali e la pastorizia.
Nella prima zona, che disgraziatamente è la meno estesa, quale che sia la forma di contratto agrario in uso, le classi rurali stanno molto meglio, o meno peggio che nella seconda; ma per apprezzare al giusto questa varietà di condizioni bisogna dire partitamente dei lavoratori che vivono nelle diverse zone e sotto le diverse forme di coltura e di contratto.
La coltura a mezzadria è diffusa principalmente nella provincia di Messina e siccome si dividono anche i prodotti degli uliveti e dei vigneti, i lavoratori[59] vi godono di una certa agiatezza. In questa zona contemporaneamente al minore sviluppo dei Fasci si osserva minore analfabetismo e minore delinquenza. La coesistenza di questi fenomeni sociali non somministra indizî preziosi sulla genesi loro e sui possibili ed efficaci rimedî per alleviare certi mali?
Ha ragione il Salvioli, quando osserva che la mezzadria non presenta la soluzione definitiva del problema sociale (Rivista popolare, 1º Dicembre 1893). Ma non deve negarsi che essa sia un temperamento opportuno per migliorare la sorte dei lavoratori della terra; e lo prova ciò che si osserva nella provincia di Messina, a Castrogiovanni e altrove in Sicilia, oltre l’esperimento benefico che se n’è fatto in Toscana e in altri punti del continente.
Del resto bisogna distinguere tra mezzadria e mezzadria. Talvolta questa è parziale, non si estende alla coltura delle vigne e degli uliveti; e si comprende che il contadino in questo caso ha minori risorse, quantunque sia per lui un grande vantaggio avere contigua alla terra da lui coltivata a cereali ed a mezzadria, delle vigne, che coltiva a fattura cioè a forfait e dove per lo meno trova, lavoro quando non ne ha per conto proprio nella coltivazione dei cereali.
La mezzadria limitata alla coltivazione di cereali ch’è la più comune nell’isola, anche dove non è resa iniqua da numerosi e angarici prelevamenti, può riuscire irrisoria e dare solo un magrissimo compenso alle fatiche di un anno del contadino, se la terra produce poco perchè esaurita o di cattiva qualità.[60]
Dissi che la mezzadria è iniqua dove esistono prelevamenti a vantaggio del proprietario o dei suoi rappresentanti. Vero è che i prodotti si dividono a metà tra proprietario e coltivatore; ma la divisione si pratica dopo che dalla massa si è prelevata la semente; e poi la così detta strazzatura, il tumolo per la lampada, il tumolo pel campiere e talora anche il tumolo per la madonna, per San Francesco di Paola o per qualche altro patrono del luogo.
Questi prelevamenti non sono dappertutto uguali per la quantità e per il numero; ma dove c’è la mezzadria è quasi dapertutto esistente l’usura sulla semente e sui soccorsi anticipati dal proprietario durante l’anno. In qualche punto il proprietario dà il frumento per la semente e pei soccorsi col tumolo da 13 litri e se lo fa restituire con uno da 17; in altri punti dà la semente bagnata colla soluzione di solfato di rame (per evitare certe malattie del grano) e se la fa restituire asciutta; sulla semente e sul soccorso, infine, i più onesti prendono per lo meno un interesse del 20% a ragione d’anno![16]
Si può immaginare quello che resta al povero mezzadro all’epoca del raccolto, specialmente dove[61] padroni inumani non lasciano più a loro il così detto solame—cioè—il po’ di grano commisto a paglia e a terra che nella trebbiatura rimane sull’aia—e negano loro la facoltà di spigolare! E di questa mezzadria, infine, scrive l’Alongi: «Che cosa sia questo contratto si sa oramai fino alla nausea; il nome di mezzadria, se non è una crudele ironia, è certo una insigne menzogna, un nome legale per far passare di contrabbando le più flagranti violazioni delle leggi morali e giuridiche (loc. cit. p. 9)».
La mezzadria talvolta si riduce a terzeria, forma di contratto agrario, nella quale il proprietario prende due terzi del prodotto ed il contadino uno. Ma in questo caso il proprietario dà la terra preparata a maggese coi suoi bovi, e sulla quale non ha esatto nulla per un anno.
La mezzadria in tutte le sue forme, prevale dove c’è la piccola ed anche la media proprietà; ed allora può anche alternarsi o coesistere col contratto a terratico, il quale varia pure da contrada a contrada e che nei paesi da me conosciuti non corrisponde a quello descritto dall’egregio Prof. Salvioli nel citato articolo della Rivista popolare. Il terratico, da me conosciuto e che so prevalere in molti luoghi, è un puro e semplice fitto pagato in prodotti, anzichè in danaro contante. Secondo la qualità delle terre il coltivatore dà al proprietario o al gabellotto da tre a sei ettolitri di frumento all’anno per ogni ettaro di terra. Il terratico è forma di contratto preferito da molti contadini perchè assicura loro una certa indipendenza, pagata però molto cara negli anni di cattivo raccolto.[62]
Meritano una particolare menzione i lavoratori della terra che stabiliscono coi proprietari l’inquilinaggio per le vigne, forma particolare di colonia parziaria, che dura dai 15 ai 29 anni. Il contadino in questo caso pianta la vite e la coltiva e ne divide il prodotto, in varia misura, col proprietario della terra. Trascorso il termine del contratto la vigna rimane intera proprietà del secondo. I contadini, che prendevano la terra ad inquilinaggio ebbero un periodo di prosperità, ch’è stata distrutta dalla filossera nella provincia di Siracusa e minaccia di distruggerla in quella di Catania. Nella zona Etnea della seconda, molti contadini si può dire che vedono distrutte le loro speranze prima di avere avuto un qualsiasi prodotto dal lavoro e dal capitaluccio impiegato. Per loro è una vera rovina.
I lavoratori della terra che vivono sotto il regime della mezzadria e del terratico, e nelle contrade a piccola e media proprietà, si possono considerare come fortunati rispetto a quelli che lavorano a giornata, e nelle regioni disgraziate del latifondo di cui dirò in appresso.
Orbene, quella frazione—che rappresenterebbe in Sicilia una specie di aristocrazia delle classi rurali,—secondo i calcoli stabiliti da un agronomo competentissimo, il Prof. Caruso (Industria dei cereali in Sicilia), nel 1870, tempo in cui non c’era traccia nell’isola di alcuna agitazione socialista e vi si godeva di una relativa prosperità—non poteva passarsela allegra se si tiene conto del lavoro proprio e degli interessi dovuti al piccolo capitale impiegato nella mezzadria, nel terratico ecc. Il bilancio del mezzadro, del terratichiere ecc.—calcolando che il grano[63] sia stato venduto a L. 51 per salma[17], con una produzione di 11 volte la semente—si chiudeva con un deficit.
Questi calcoli rifatti, dopo oltre venti anni, da Rao per Canicattì, dal Dr. Barbato per Piana di Greci, da Verro per Corleone, concordano perfettamente con quelli del Caruso; e la circostanza, con senso di opportunità, la rileva oggi il Cavalieri, ch’è un avversario del socialismo.
Comunque, mezzadri, piccoli fittajuoli, che prendono a terratico o in altre forme di fitto un pezzo di terra dai tre ai quindici ettari, e che sinora vivevano in condizione relativamente buona, si risentono del contraccolpo della crisi generale e sono i più risoluti a non soccombere senza fare sentire la loro voce ed all’occorrenza senza ricorrere alla doppietta o al vecchio fucile della guardia nazionale, che conservano gelosamente.
Quando visitai l’ameno villaggio di Milocca, rimasi colpito dalla pulitezza e dall’aspetto lieto delle case a due piani—rarissime tra i nostri contadini—e dai numerosi muli, che cavalcavano i contadini venutimi incontro.
Seppi che bestie e case appartenevano a loro: dunque, chiesi, voi altri non state tanto male al paragone degli altri lavoratori del resto della Sicilia!
È vero, mi risposero; ma pur troppo ciò che ora possediamo non è nostro che in apparenza. La casa è gravata d’ipoteca e i debitucci diversi non possono essere soddisfatti neppure colla vendita del mulo![64]
M’informai ed ebbi a constatare che quei gagliardi lavoratori non mentivano.
Essi al ricordo del benessere antico non si sapevano acconciare alla miseria presente e invocavano provvedimenti e modificazioni dei vigenti contratti agrari. Questa circostanza mi confermò sempre più in una idea, che ho sostenuto altrove e cioè: che la miseria vera prostra e non prepara le necessarie reazioni, mentre il passaggio rapido dal benessere alla miseria è il più efficace elemento in prò delle insurrezioni. Questa osservazione si può applicare ai casi di Partinico, di Monreale e di altri paesi della provincia di Trapani.
[16] Il Sonnino dice che in diversi luoghi, e specialmente nel Siracusano, i gabellotti e i proprietari mettono spesso come condizione espressa nei patti di metateria e di terratico che il contadino non debba rivolgersi ad altri che a loro per ottenere soccorsi (I contadini in Sicilia, p. 179). Ad onore del vero si deve dire che questa preveggenza usuraia è quasi scomparsa. L’angheria dei prelevamenti viene constatata con singolare unanimità da tutti gli scrittori dell’isola e del continente ed anche da stranieri; dal Sonnino al Baer, al Cavalieri, al Caruso, al Basile, al Combes de Lestrade, ecc. ecc.
[17] La salma di frumento nella provincia di Caltanissetta corrisponde in peso da 260 sino a 270 chilogrammi, secondo la qualità.
Quando dalla classe dei mezzadri e dei contadini-proprietarî—rarissimi in Sicilia—si passa all’esame delle condizioni degli altri lavoratori, in questa terra tanto decantata per la sua fertilità e per ogni sorta di ricchezze, si riscontrano i veri paria.
I proletarî dediti ai lavori agricoli ed alla pastorizia non sono dappertutto ugualmente infelici, e si suddividono ancora. Ci sono quelli che lavorano ad anno o a mese; e ci sono quelli che vengono adibiti alla giornata.
Tra i primi è veramente dura la sorte di coloro che custodiscono gli armenti e le greggi. I bovari, come si chiamano quelli addetti alla custodia dei bovi, raramente dormono al coperto. D’inverno, ricoperti da pelli di montone che danno loro sembianze di uomini primitivi, stanno esposti alle pioggie e alle tempeste; d’estate, durante le lunghe ed afose giornate, sono fortunati quando trovano un[66] albero, od una disuguaglianza di terreno, che procuri loro un poco di ombra per sonnecchiare o per mangiare un tozzo di pane asciutto ed un poco di ricotta. Fanno uso più di frequente di latte e qualche volta, se muore un animale, si cibano di carne.
Si può dire che non conoscono la pasta, mentre spessissimo mangiano erbe cotte e senza condimento di olio.
Uomini di ogni età fanno da bovari e se l’armento è poco numeroso più spesso sono sotto i venti anni.
I pecorari, coloro che custodiscono le pecore, su per giù si trovano nelle identiche condizioni dei primi; hanno il vantaggio di dormire al coperto; quasi sempre alla sera mangiano le lasagne e la ricotta e bevono latte; ma ricevono un minore salario.
Il pane che mangiano bovari e pecorari è il più nero, il meno cotto e il più cattivo, che si mangi in Sicilia; è sempre fatto, però, con farina di frumento.
Tutti questi uomini addetti alla pastorizia vanno alle rispettive case una volta il mese ed anche ogni tre mesi, certamente con grave detrimento dei rapporti di famiglia e della morale.
Gli stipendî, oltre l’alimentazione nella misura suaccennata, variano da lire 75 a lire 200 all’anno. Pecorari e bovari, però, in mezzo agli animali del padrone hanno diritto di mantenerne gratuitamente qualcuno per loro conto. Ciò che aumenta il salario annuo in media di una trentina di lire.
Si comprende che con questi salarî irrisorî una famiglia nè onestamente, nè tollerabilmente può[67] andare innanzi; ma di sovente gl’incerti vengono in aiuto. E pur troppo gl’incerti lucri vengono guadagnati dalle mogli e dalle figlie e dagli uomini sopratutto coll’abigeato e col manutengolismo.
I pastori sono quasi sempre amici o complici dei ladri di animali e dei briganti. C’è da sorprendersene?
Oltre i pastori lavorano ad anno o a mese i cosidetti garzoni e dietro a questi ultimi viene la grande massa dei giornalieri, la cui esistenza è assai più precaria e che sono degni di commiserazione profonda.
Secondo le colture e le stagioni essi guadagnano da centesimi quaranta a una lira al giorno; e i contadini che ricevono una lira sono i fortunati, e per qualche mese soltanto: durante la semina e durante il raccolto. In generale sono più elevati di questi i salarî indicati da Enrico La Loggia nel suo diligente studio sui Moti di Sicilia (Giornale degli Economisti, marzo 1894) e dal Prof. Salvioli; ma la differenza deriva dall’avere essi calcolato in denaro la parte che ricevono in generi. Comunque, entrambi convengono che fatto il bilancio della entrata di un contadino se ne deduce che il suo tenore di vita (standard of life) non può essere che bassissimo e che alla miseria più squallida è condannata la sua famiglia se sopraggiunge qualche caso di malattia o uno sciopero forzato per piogge continuate o per altre ragioni, poichè il risparmio di qualsiasi somma è impossibile durante l’anno.
In generale i salarî sono più elevati dove la coltura è intensiva. Per la mietitura i salarî si elevavano pel passato a L. 2,50 oltre una buona e copiosa[68] alimentazione ed un litro e mezzo di vino al giorno. Ma da due anni in qua i salarî ribassano terribilmente e c’è una triste concorrenza nel lavoro che i mietitori di una contrada vanno a fare a quelli di un’altra; concorrenza, che ha determinato non poche sanguinose risse e delle caccie, che nulla hanno da invidiare alla caccia che si fa all’italiano in Francia, in America, in Australia e dovunque esso va a fare concorrenza al lavoratore indigeno.
La concorrenza, il ribasso nei prezzi dei cereali, la elevatezza dei fitti delle terre hanno ridotto al minimum il salario anche dei mietitori, che in altri tempi si poteva considerare come abbastanza alto.
Essi oramai lavorano per lunghe sedici ore, sotto la sferza cocente del sole, quasi africano, della Sicilia per un franco ed anche per 75 centesimi al giorno! Quando ritornano alle lontane loro case, dopo venti o trenta giorni di assenza, si reputano fortunati se portano un gruzzolo di lire 20!
Il salario è insufficiente, è un vero salario della fame come lo chiamerebbero in Inghilterra; ma il guaio maggiore è questo: il contadino non è sicuro di averlo per tutto l’anno. È fortuna, se in media esso lavora per 200 giorni all’anno; la lira, quindi, o i sessanta centesimi al giorno devono essere ridotti alla metà circa, considerati come mezzi di sostentamento della disgraziata famiglia del contadino giornaliero, le cui donne guadagnano pochi altri centesimi al giorno, filando, cucendo, lavando, vendendo le uova che fa la loro gallina, la quale ha tutte le loro cure.
Per talune di queste donne è una grande risorsa[69] l’allevamento di un porchetto, che viene alimentato coi brodetti, colle buccie, e colle frutta guaste ricevute in elemosina dai vicini agiati. E bisogna vedere con quale tenerezza—che suscita l’indegnazione e lo scherno di chi non sa valutare la ragione del fatto—la buona moglie del contadino guarda a quell’animale immondo, che dorme sotto il suo misero lettuccio, e che sinanco gratta colle proprie mani e quasi accarezza a preferenza dei figli!
Egli è che il giorno in cui quel fido compagno della contadina viene ammazzato, nella sua casa c’è gran festa: se ne mangia la testa, se ne mangia il fegato, se ne mangiano i piedi bolliti e il sangue coagulato e se ne regala anche ai vicini; e ciò non capita che una volta all’anno. Di più colla vendita del resto la buona donna vede ricompensate le cure e le fatiche sue di un anno ricevendo dal macellaio, le trenta, le quaranta lire, che costituiscono la grande risorsa della famiglia, e colle quali provvede quasi sempre ai vestiti.
Ma la scienza, la civiltà, l’igiene cominciano già a privare molte di queste povere famiglie di contadini della risorsa, per loro grande, dello allevamento del maiale! Gli agenti del municipio danno la caccia a questi compagni di Sant’Antonio, che altra volta passeggiavano liberamente per tanti paeselli della Sicilia. L’igiene e la decenza vi guadagnano di sicuro; ma nel bilancio del disgraziato contadino spunta il deficit. Così la civiltà gli si affaccia come una sventura e le guardie municipali, che adempiono al proprio dovere, gli divengono invise[70] e gli riescono addirittura odiose se sono costrette a multarlo.[18]
Nelle zone zolfifere, il proletariato agricolo aveva una grande risorsa nei figli: un paio, gli procuravano circa due lire al giorno lavorando da carusi nella miniera, oltre lo anticipo da 50 a 150 lire, che ricevevano per una volta sola come si sa. Ora questa risorsa viene meno per la depressione dell’industria zolfifera.
La misera condizione dei lavoratori della terra non è una constatazione da sentimentalisti; ma venne riconosciuta da persone insospettabili di esagerazione pel partito in cui militano, per le cariche che occupano, per la loro condizione sociale e per l’antagonismo in cui taluni si trovano coi capi del movimento socialista. Tale misera condizione non venne attenuata in alcun modo al Rossi della Tribuna dal Cav. Masi, consigliere provinciale di Piana dei Greci, dal Baronello Bartoccelli e dal Cav. V. Falcone, sindaco di Canicattì—entrambi ricchissimi proprietarî—e da altri ricchi proprietarî a Casteltermini e altrove. È importante il giudizio del Masi e del Falcone perchè entrambi sono al potere e non sono mossi da una qualsiasi ambizione da soddisfare. La condizione dei lavoratori della terra venne riconosciuta tristissima, qual’è, da quanti visitarono la Sicilia negli ultimi tempi e fu efficacemente descritta dagli onorevoli Comandini, Farina, Plebano e dal Borelli del Popolo Romano, che pur militano in partiti[71] politici diversi e non sono mossi nè da passioni, nè da interessi locali. L’on. Plebano, in ispecie, rimase impressionatissimo dalla miseria di Piana di Greci e per miracolo non incoraggiò i fieri contadini alla rivolta. Non pochi ufficiali dell’esercito al Rossi, della Tribuna, a me stesso e ad altri dichiararono, che si sentivano assai a disagio trovandosi distaccati in certi paesi per prestare manoforte ai prepotenti iniqui contro i poveri oppressi! Tanta ineffabile miseria dei lavoratori della terra, infine, in occasione degli ultimi moti, oltre che dai cennati uomini politici e pubblicisti, che poi, per qualche ragione potrebbero anche essere giudicati sospetti, venne riconfermata da scrittori, che vivono al di fuori della politica e dalle tendenze diverse; tra i quali mi piace ricordare il più volte citato Cavalieri e Monsignor Isidoro Carini, l’illustre Bibliotecario del Vaticano che tanto ama la sua isola natìa e ch’è legato da particolare amicizia coll’on. Crispi. E adesso qualche parola sulle abitudini e sul carattere morale dei contadini.
Ai contadini della Sicilia si può applicare benissimo ciò che scienziati e romanzieri hanno scritto di quelli degli altri paesi. L’abate Roux dice: «il campagnuolo è troppo fanciullo per non essere mentitore; vive ancora sotto la legge del timore e la legge di amore è per lui lettera morta; non ama le cose e le persone che per l’uso, che può farne.» (Pensèes. Parigi 1885). Il Prof. Lacassagne paragonando la criminalità delle città e delle campagne aggiunge: «il contadino è egoista, diffidente, vendicativo, perchè egli ha poche relazioni sociali; le sue occupazioni monotone e ripetute gli[72] creano un certo stato di automatismo; d’onde il suo spirito lento e stretto.» E le passioni, i difetti, i pregi del contadino descritto da Zola nella Terre si potrebbero attribuire a quello di Sicilia.
Ciò che caratterizza maggiormente il lavoratore della terra nell’isola è la sobrietà. «Il Siciliano—dice il generale Corsi—è molto sobrio nel mangiare e nel bere; lo sono allo estremo i contadini che si nutrono di vegetali e bevono acqua» (Sicilia, pag. 266). Infatti, di raro assai mangiano carne; il pane e le verdure cotte sono i loro cibi ordinarî, non frequentano caffè o bettole, non bevono vino se non quando lo ricevono lavorando come parte del salario (almeno dove prevale il latifondo); vestono dimessi e con abiti dal taglio speciale, molto vario da contrada a contrada, caratteristico; amano moltissimo le feste religiose, nelle quali le scene di superstizione e di fanatismo dipinte nel Voto del Michetti si alternano con veri baccanali. Il contadino, casalingo, ospitale, geloso della sua donna, che spesso gli prepara i tessuti, che servono per i suoi vestiti (specialmente la tela di lino o di cotone e il tessuto di lana nera, chiamato abbracia—albagio—un poco più grossolano di quello che si fabbrica in Sardegna) si rassegna facilmente alle sofferenze materiali e la miseria sola, come bene osserva il La Loggia, non avrebbe potuto farlo muovere! L’analfabetismo domina nelle campagne della Sicilia, i cui abitatori—meno quelli della Conca d’oro—non commettono in generale frequenti reati di sangue e sono dediti invece ai furti campestri ed all’abigeato. La mafia trova numerosi e pericolosi affiliati nelle campagne dei dintorni di Palermo; ben rari altrove. Quelli, però, tra i contadini, che si[73] elevano al grado di campiere o di soprastante e che hanno l’ufficio di garantire gl’interessi del grande proprietario nel latifondo divengono di ordinario la quintessenza dei mafiosi pel loro coraggio, per la rigorosa osservanza del codice dell’omertà, per l’assenza completa di scrupoli nel prestar mano a briganti e malandrini, nel farla da manutengoli, nel tirare una schiopettata ad un nemico, ad un disgraziato, che ne ha offesa la suscettibilità morbosa. Insomma campieri e soprastanti spesso sono una edizione riveduta e peggiorata degli antichi bravi. Non fecero mai parte dei Fasci anzi rimasero sempre ai servizî dei loro più accaniti nemici, i quali scandalizzati, denunziavano i Fasci, come covi di malfattori perchè avevano accettato come socio qualche ammonito, più vittima dell’ambiente sociale, che vero delinquente come la massima parte dei più pregiati tra i loro fidi![19].
[18] La importanza dello allevamento del majale nelle misere famiglie dei contadini non isfugge al Sonnino. (I contadini in Sicilia, p. 187).
[19] «Il Signore ha i suoi campieri, ma non può tenerne una grossa squadra, e molte volte, perchè siano uomini di stocco, da servirlo come vuol lui, è costretto a chiudere un occhio, e magari anche tutti e due nello sceglierli, e prenderli della stessa pasta di cui si fanno i briganti». Così scrive il generale Corsi. (Sicilia p. 303).
Mi piace qui rilevare che il Generale Corsi ha segnalato come meritevolissime di attenzione tre opere recenti sulla Sicilia: quelle di Schneegans, di Bazine e di Gustavo Chiesi riconoscendo che la migliore è La Sicilia Illustrata dell’ultimo. Godo moltissimo di questo giudizio perchè mi conferma in quello dato da me due anni or sono nell’Isola e che temevo fosse troppo benevolo per la grande amicizia, che mi lega allo scrittore milanese. Nel Chiesi lo stato morale, intellettuale e sociale dei Siciliani è meglio descritto che in qualunque altro autore. Lo Schneegans ci dà la Sicilia di 50 anni fa.
La condizione economica dei lavoratori della terra in Sicilia, come dappertutto, è intimamente connessa colla divisione della proprietà rurale e col genere di coltura. Nota la prima, s’intuisce—e del resto vi si accennò—che debba prevalere la grande proprietà e la coltura estensiva; e questa coltura persistente è, poi, la conseguenza della grande proprietà, del latifondo, esistente un po’ per ogni dove in Italia, assolutamente prevalente e caratteristico nell’isola. Merita menzione speciale, ma breve perchè l’argomento è già stato trattato da tutti gli scrittori, che si sono occupati delle cose siciliane dal punto di vista economico e sociale.
L’on. Sonnino sulle orme di altri osservatori locali e sulla base di dati statistici—incompleti ed inesatti—sin dal 1876 riconobbe che la proprietà è pochissimo divisa, specialmente nella parte interna e meridionale dell’Isola dove «manca una vera classe di proprietarî piccoli o medi e si salta invece d’un tratto, dal grande proprietario che possiede[75] migliaia di ettari, al piccolo censuario di poche are di terra. La censuazione dell’asse ecclesiastico ha modificato pochissimo queste condizioni della proprietà giacchè la immensa maggioranza di quelle terre è passata tale e quale nelle mani dei grossi proprietari.» (I contadini ecc., pagine 174 e 175).
Il Prof. Basile molti anni or sono constatò che dal 1852 al 1871 il numero dei proprietarî era disceso da 608,601 a 549,957; c’era dunque diminuzione, nonostante il censimento dei beni dell’asse ecclesiastico, da cui si sperava un aumento notevole; e lo stesso Basile riconfermò il fatto doloroso nel 1894.
Il sacerdote Genovese la osservazione generica volle dettagliare per un sito da lui esattamente conosciuto. Egli scrive: «Il comune di Contessa Entellina, in provincia di Palermo, ha un agro di circa 9000 salme di terra (la salma di Contessa corrisponde ad ettari 2,67). Ebbene, quante ne possiede la generalità dei suoi tremila abitanti? Appena 300 salme: precisamente il 3 % di tutto il vasto territorio! E le altre 8700 salme? Non è d’uopo dirlo: eccetto una minimissima porzione spettante a pochi altri piccoli proprietarî, sono tutte possedute da non più che venti benestanti, tra principi, conti, baroni e cavalieri!» (La quistione agraria in Sicilia, Milano 1894).
Il caso di Entella è quello di cento altri comuni; e in qualcuno—ad esempio Terranova, Siculiana, ecc., ecc.—la concentrazione della proprietà in poche mani è maggiore.
Si avverta altresì che la qualifica di proprietario[76] in Sicilia come in Sardegna spesse volte non è che una ironia. Si tratta di proprietà polverizzate o si limita alla proprietà di un lurido tugurio, che serve di abitazione e che non ajuta a vivere. I più di questi proprietarii, osservò l’on. Damiani nel volume dell’Inchiesta agraria dedicato alla Sicilia, sono da considerarsi piuttosto come proletarî.
Sono invero una realtà indiscutibile tutte le tristi conseguenze della esistenza della grande proprietà, del latifondo; conseguenze varie e complesse politiche, economiche, morali, e intellettuali.
«Il latifondo, osserva il Baer, mantiene e conserva una deplorabile dissonanza fra le istituzioni politiche ed amministrative e fra la legislazione civile, che la Sicilia ha comuni al resto d’Italia e le condizioni reali di quella società e della proprietà territoriale. Ed è risaputo che quando siavi tale dissonanza gli effetti delle istituzioni e delle leggi sono alcuna volta nulli, il più soventi perniciosi.» (Il latifondo in Sicilia nella Nuova Antologia, 15 aprile 1883). E la dissonanza nasce dalla mancanza di un numero sufficiente di piccoli e medii proprietarî.
La esistenza della grande proprietà presuppone la correlativa preponderanza numerica di proletariato agricolo: il quale è più infelice dove l’ex feudo, il latifondo è coltivato dal fittabile; peggio ancora se quest’ultimo lo suddivide ad altri gabellotti minori. Allora il salariato è in condizioni peggiori dello schiavo: ed esso mangia quel pane, di cui dalla provincia di Palermo mi si mandarono due campioni, che suscitarono la indignazione di quanti lo videro nella Camera dei deputati e fuori. La sua non è più vita, che oggi possa considerarsi come umana.[77] Non deve sorprendere se insorge e cerca ripetere le Jacqueries; ma deve soltanto far meraviglia che tanto tempo abbia aspettato per ribellarsi!
Il latifondo favorisce il sistema del fitto e genera il gabellotto la cui funzione è tanto esiziale quanto lo è in Irlanda il middleman, che sta tra il landlord e il contadino coltivatore. Intanto dalla scomparsa del gabelloto, acutamente osserva il Salvioli, se il grande proprietario dovesse dare direttamente le terre in fitto ai contadini poco giovamento questi ne trarrebbero per l’aspra concorrenza, che tra loro si farebbero per ottenere gli spezzoni di migliore qualità e più vicini all’abitato.
Se il sistema del fitto riesce di grave nocumento ai lavoratori e produsse pel passato l’agiatezza ed anche la ricchezza dei gabellotti, che finirono col costituire la parte più forte della borghesia isolana, adesso rovina questa classe di sfruttatori.
Checchè ne dicano e ne pensino alcuni, nella divisione dei prodotti oggi non sono più i fittabili coloro che se la passano più allegramente, poichè in generale il fitto delle terre in Sicilia dal 1860 aumentò del 40 % mentre diminuì sensibilmente il prezzo del frumento, ch’è il prodotto principale. I fittabili, dunque, stanno male.[20]
Non possono che stare peggio i sub-fittabili, ma coloro che conducono vita veramente inumana sono i contadini o mezzadri, che ricevono la terra di terza mano.
Il gabellotto alla sua volta suddivide il latifondo, ch’è spesso un ex feudo, ad altri; e i sub-gabellotti finalmente danno la terra a mezzadria o la fanno coltivare in economia dai cosidetti jurnatara,—lavoratori alla giornata. Ora la terra, generalmente, non può produrre tanto da mantenere, oltre il fisco che attualmente la fa da leone, il proprietario, il gabellotto, il sub-gabellotto e il contadino; produce ancora meno in Sicilia dove nel latifondo vige la coltura primitiva, estensiva: dove l’aratura è superficiale e la concimazione o manca o è deficientissima per la qualità e per la quantità: dove d’irrigazione non è a discorrere e gli avvicendamenti vi sono irrazionali e il suolo viene sfruttato colla vera agricoltura ladra, come la chiamò il Liebig: dove mancano stalle, case coloniche e financo l’acqua potabile. Molti dunque si devono risentire della deficienza della produzione, rilevata testè dal Combes de Lestrade nel Journal des Economistes, che deve essere ripartita tra tanti consumatori—taluni dei quali prendono più di quanto dovrebbero nello stesso presente regime economico; e più di tutti se ne risentono i contadini ai quali non rimangono, che le briciole.
La coltura si mantiene estensiva e la terra produce poco, perchè il grande proprietario non è stimolato dal bisogno a fare miglioramenti e trasformazioni e per un lungo periodo ha visto anche aumentare fortemente le sue rendite per la concorrenza[79] tra gabellotti, che ha elevato i fitti; nè i miglioramenti di qualsiasi genere potevano e possono farli i gabellotti, che coltivano il latifondo per un brevissimo tempo—la durata dei fitti è al massimo di nove anni, ma più di frequente di quattro o di sei; e molto meno i contadini che vi lavorano a giornata o l’hanno a mezzadria o a terratico solamente per uno o due anni.[21]
Il latifondo che per mancanza di caseggiati tiene lontani i contadini dalla terra e mantiene questa deserta e priva del tutto di alberi, costringe i primi a vivere in grandi centri producendo queste altre non meno esiziali risultanze: 1. il contadino perde molto tempo nel recarsi ogni giorno dalle città nella campagna e quando vi pernotta, nei pagliai o all’aperto, di estate, vi prende le febbri intermittenti, 2. la solitudine delle campagne e la grande distanza tra i centri abitati favorisce il furto campestre, l’abigeato, il malandrinaggio e il brigantaggio; 3. la coabitazione di contadini e di elementi industriali e commerciali nelle città fa gravare sui primi dei pesi che non dovrebbero sentire—specialmente il dazio di consumo—e mantiene le città o i grossi centri abitati in condizioni igieniche deplorevoli.[80]
L’organizzazione sociale, che fa capo al latifondo dal Baer viene riassunta, infine, così: «un’aristocrazia lontana dalle terre, che possiede e che non conosce, una classe media costituita da pochi esercenti le professioni liberali e da potenti fittajuoli in grande e da coloro, che vivono speculando sulla miseria altrui, ed un numeroso stuolo di poveri coloni e braccianti, è questa l’organizzazione sociale delle regioni dove prevale il latifondo; e non è dessa quella in cui le istituzioni politiche e amministrative della società odierna possano funzionare a pubblico vantaggio, in cui possa trovarsi cooperazione assidua, indipendente, giusta ed efficace agli ufficî del governo nell’amministrazione dei comuni, delle provincie, delle opere pie e fino della giustizia.»
Se il latifondo è in Sicilia ora com’è stato sempre e in ogni luogo pernicioso sorge spontanea la domanda: perchè esso dura da secoli e non scompare mentre è condannato dalla scienza, dal sentimento di giustizia, dall’umanità?
Fu notato che il latifondo dura in Sicilia da moltissimi secoli e preesisteva alla nascita del feudalismo sotto i Normanni. Il barone Benevantano lo fa rimontare ai tempi di Verre nel territorio di Lentini; e il Genovese sull’autorità di Diego Orlando, di Ludovico Bianchini, di Birri, di Palmieri, di Monsignor Lancia di Brolo, di Amari lo riporta non solo ai Romani, ma anche ai Cartaginesi.
Dal fatto di questa lunga durata se n’è voluto argomentare, che il latifondo in Sicilia è qualche cosa di fatale, che si connette alle condizioni fisiche e climatologiche dell’isola. Se ciò fosse vero le[81] disgraziate popolazioni agricole della Sicilia sarebbero condannate eternamente al dolore. Ma vero non è, e lo ha dimostrato il Baer con poche acute osservazioni di fatto.
«Quando si dice che le terre dei latifondi non sono atte ad altra produzione che a quella dei cereali e che al loro spossamento per le replicate colture non possa altrimenti rimediarsi che col lasciarle a pascolo naturale per più anni, si dimenticano tutti i prodigi della coltura intensiva mediante gli avvicendamenti e gl’ingrassi. Le terre sabbiose e pantanose della Prussia orientale sotto un cielo inclemente, sono senza dubbio più sterili di ogni peggior angolo della Sicilia, eppure se ne cava grande profitto. L’agricoltura fiamminga, una delle più perfette del mondo si esercita su terre, che sono il peggior suolo dell’Europa. Il clima ed il terreno presso le città e borgate nelle provincie siciliane ove sono i latifondi non sono per certo diversi da quelli delle terre circostanti, ed intanto le terre prossime alle città sono coltivate con altri sistemi e con eccellenti risultati. Di più in alcuni latifondi, che appartenevano alle corporazioni religiose col censimento si spezzarono e si trasformarono in meglio come attorno a Mazzara e in gran parte della provincia di Trapani: l’osservazione è del Prof. Corleo. Viceversa secondo le diligenti ricerche dell’Amari ventidue grosse città ch’esistevano a’ tempi dei Mussulmani nelle provincie di Girgenti, di Trapani e di Palermo sono sparite così che di moltissimi nomi di castelli e ville ricordati negli scrittori di quell’epoca non si ha più traccia; e l’antico territorio di Giato,[82] ora diviso in tre comuni con circa 18 mila abitanti conteneva ai tempi di Guglielmo il Buono una popolazione di 60 mila abitanti con 40 e più villaggi.»
Ecco come negli stessi siti, nonostante la permanenza delle cause fisiche, compare e scompare il deserto rattristante del latifondo coll’alternarsi delle cause sociali.
Gli esempî relativi alla Sicilia sono tassativi e sufficienti a provare il predominio delle cause sociali sulle cause fisiche e climatologiche; ma se occorresse, molti altri di altrove se ne potrebbero trovare, ed altrettanto convincenti, nei libri del compianto De Laveleye e nella grande opera del Reclus sulla geografia.
Se questa fosse una trattazione storica mi dilungherei nello esporre quali furono le cause sociali, che in Sicilia determinarono la creazione e il mantenimento del latifondo; chi vuol conoscerle ricorra al Palmieri e allo stesso Baer bastando al mio assunto l’avere dimostrato l’inesistenza delle cause fisiche, che furono invocate anche da recente da interessati difensori del latifondo. E questa dimostrazione impone al governo l’obbligo di studiare i mezzi per rompere il giogo del latifondo e per avviarlo a benefica trasformazione, e deve infondere altresì nei lavoratori l’energia e la costanza di chiederla colla coscienza che può venire dalla conosciuta possibilità di conseguire il fine che si propongono.
[20] Credo che sia caduto in errore il prof. Salvioli, quando sulla scorta del Caruso ha affermato che dalle L. 450 di prodotto di una salma di terra si devono dedurre L. 288 come spese. Il calcolo è sbagliato per questo: il raccolto del frumento non si ha in ogni anno ma in ogni tre anni o almeno in un anno sì e in un altro no. Perciò delle L. 162 di residuo netto si devono almeno dedurre L. 76,50 somma equivalente al fitto dell’anno in cui la terra si prepara a maggese.
[21] I grandi proprietarî siciliani, che non conoscono i loro latifondi e ne godono le rendite ben lontani dal luogo di produzione sono nemici giurati di fare qualunque spesa. So di un ricco gabellotto di Castrogiovanni, il sig. Gaetano Restivo, che propose ad un signore di Palermo, di cui aveva preso le terre in gabella, che avrebbe anticipato lui L. 5000 per costruire uno stallone e se ne sarebbe rimborsato nell’ultimo anno di fitto. Ebbe un reciso rifiuto. Così si potrebbe dire di molti altri.
Fatta la descrizione delle condizioni economiche della Sicilia si presenta spontanea una domanda: sono esse peggiori, uguali o migliori di quelle del resto d’Italia?
Chi ha studiato le altre regioni della penisola o la Sardegna ha il dovere di riconoscere, che nel beato italo regno in molti punti si sta peggio che in Sicilia—per quanto ciò possa sembrare impossibile.
Taccio della disgraziatissima Sardegna, dove soltanto i privilegiati azionisti delle sue ferrovie se la godono allegramente, e ch’è stata ricompensata della lunga fedeltà a Casa Savoia con una dimenticanza veramente fenomenale. In molte altre provincie del mezzogiorno continentale perdurano quelle condizioni tristissime, che da Giuseppe Ferrari furono riconosciute come le cause efficienti del brigantaggio. Le lettere meridionali del senatore Villari, gli scritti del Pani Rossi, di Renato Fucini, della Jessie White Mario, ecc.—che sono illustrazioni monografiche della miseria delle classi lavoratrici di Napoli e di[84] altre contrade del napoletano—datano da molti anni, ma sono ancora di attualità. La Inchiesta agraria per queste regioni in generale è stata parzialissima in favore dei proprietarî e delle classi dirigenti, poichè è innegabile che le sofferenze dei lavoratori, la loro abbiezione intellettuale, pari soltanto alla miseria economica—e le due danno come necessario risultato l’altissima delinquenza—in Calabria e in Basilicata sono grandissime.[22] I rapporti sociali non sono dissimili a quelli descritti per altri tempi da Nicola Santamaria nel suo pregiato studio sui Feudi nelle provincie meridionali.
Risalendo verso le Alpi s’incontra l’agro Romano, che non rimane indietro alla Sicilia in quanto a malessere dei suoi abitatori; ma verso l’estremo lembo d’Italia c’è ancora qualche angolo di terra dove gli uomini stanno peggio che nell’isola che attualmente richiama su di sè l’attenzione dell’Europa. Il volume dell’Inchiesta agraria consacrato dal compianto Morpurgo ai Contadini del Veneto attesta che nel mio giudizio non c’è alcuna esagerazione. Del Mantovano e di qualche altra zona della bassa Lombardia si potrebbe dire altrettanto.
Perchè, dunque, soltanto in Sicilia c’è stata la esplosione del malessere; vi sono stati i tumulti, gl’incendî, le distruzioni, che preludono alle rivoluzioni e che tanta analogia presentano con quelli[85] descritti dal Tocqueville e dal Taine in Francia sotto l’Ancien Regime?
Le cause di questa diversità di risultanze sono parecchie e meritano tutte di essere ricordate. Rimanendo per ora sul terreno economico si deve osservare che in Sicilia dopo il 1860 ci fu un rapido sviluppo di ricchezza; tale da indurre il Prof. Maffeo Pantaleoni in un suo pregiato studio pubblicato nel Giornale degli Economisti a giudicare, che l’unificazione d’Italia, aveva contribuito in Sicilia più che altrove a determinare un notevole incremento della ricchezza.
Venne la depressione; venne altrettanto intensa e rapida, anzi fulminea, e venne ad un tempo per colpa di governanti e di eventi, che si sottraggono all’azione della volontà umana.
Ecco alcuni dati eloquenti di questa depressione. La produzione del grano da Ettolitri 7,744,981 nel 1891 discese a 4,363,696 nel 1892, a 4,365,300 nel 1893, e il prezzo contemporaneamente è disceso a L. 19,48 per ettolitro nel 1891, a L. 18,91 nel 1893.
La produzione dell’orzo è discesa da ettolitri 1,511,699 nel 1891 a 1,169,061 nel 1893 mentre il prezzo è rimasto stazionario.
La filossera, in breve tempo, ha distrutto numerosi vigneti occupanti un’estensione complessiva di ettari 53,977; perciò la produzione del vino da ettolitri 6,855,555 nel 1891 è discesa a 4,111,331 nel 1893; la discesa dei prezzi dal 1887 in poi—ultimo anno in cui fu aperto il mercato francese—è semplicemente spaventevole: dalle 40 e 50 lire l’ettolitro si arrivò alle 10 ed alle 20 del 1890 al 1893, e solo in questo primo semestre del 1894, si accenna[86] a risalire alquanto. Notevole la diminuizione nella produzione degli agrumi e spaventevole il ribasso dei prezzi. In quanto all’agricoltura l’on. Di San Giuliano osservò che, complessivamente, il 1892 è l’anno della massima depressione, perchè si ebbe una produzione di L. 206,071,012 in meno del 1891 e di L. 137,888,808 meno della media quinquennale.
Più sconsolanti sono i dati per l’industria zolfifera: poichè il prezzo di quel minerale da L. 112,57 per tonnellata nel 1891 discese a L. 65 nel 1893 e a L. 55 circa nel primo semestre del 1894.
Questi dati vengono illustrati e completati dalla sensibile diminuzione dei depositi presso i diversi Istituti di credito, cominciata nel 1891 e non ancora arrestatasi.
La situazione economica si fece tale negli ultimi anni che il visconte Combes De Lestrade esaminandola dal punto di vista dei proprietarî—ed è proprietario anche lui in Sicilia, quantunque francese, e vive al di là delle Alpi—ne argomenta che oggi sia peggio che nel 1860. «In quell’epoca, egli osserva, le sue rendite e le sue spese, un po’ più un po’ meno, si equilibravano. Se la tradizionale parsimonia siciliana riusciva a mettere da parte qualche cosa, il risparmio non alterava gran fatto l’equilibrio poc’anzi accennato. Istantaneamente i pesi aumentano e ognuno sa con quale rapidità. Il confronto tra il bilancio dell’antico regno delle due Sicilie e quello del regno d’Italia basta per dimostrarlo. Per converso i prezzi delle cose che egli deve comprare sono accresciuti e quelli di cui deve farne la vendita sono diminuiti. I perturbamenti[87] economici che il governo non ha mai saputo evitare uccidono la coltivazione del cotone e del tabacco; e così i risparmi, dato che ve ne fossero, spariscono ben presto. Di capitale mobile non è il caso di parlare, imperciocchè all’epoca in cui furono messi in vendita i beni del clero tutti si affrettarono di accrescere la proprietà impiegandovi ciascuno la rispettiva disponibilità. Frattanto perdura l’aumento delle tasse e il ribasso dei prodotti...»
E qui è bene aggiungere, che nel determinare tale stato di cose la responsabilità del governo è grande per la politica doganale seguita: politica tutta a beneficio dell’industrie e degli industriali dell’alta Italia e a danno dell’agricoltura del mezzogiorno e delle isole. Ciò dissi rudemente nel 1891 alla Camera dei Deputati e le mie parole furono accolte da vivi rumori e da proteste dei deputati del settentrione; ma le mie parole furono poco dopo luminosamente giustificate dalla confessione onesta e leale dell’on. Ellena fatta prima in un articolo della Nuova Antologia e dopo nella stessa Camera in occasione della discussione dei trattati di Commercio coll’Austria-Ungheria e colla Germania.
Il peggioramento nelle condizioni economiche dei proprietarî naturalmente si ripercosse nei salarî dei lavoratori, ai quali con ogni studio si cercò di far sentire maggiormente la gravità della crisi; sicchè tali salarî, anche nominali, sono ritornati quali erano nel 1860, come osservò il Salvioli.
Il disagio, adunque, fu generale, intenso e rapido. Esso, se nel paragone con altri tempi può dirsi che non fu assoluto, certamente fu immenso relativamente ai bisogni cresciuti, alle nuove abitudini contratte,[88] e agli obblighi imposti dalle leggi dello Stato ai comuni e agli individui—prescrizioni igieniche, istruzione obbligatoria, ecc. ecc.
Su questo riguardo mi pare che non sia stato abbastanza avvertito il perturbamento apportato nelle abitudini e nelle famiglie dei contadini dal ritorno dei congedati. Si è detto che la leva è stato un cemento unificatore quantunque io creda pochissimo alla efficacia di tale mezzo ed alla utilità del preteso risultato; pur concedendo che quest’ultimo si sia ottenuto, si è dimenticato che si è fatto sorgere nelle classi lavoratrici il desiderio ardente di soddisfare certi bisogni per lo passato sconosciuti e di adottare uno standard of life superiore e inadeguato allo sviluppo economico ed intellettuale. Ciò ha agito ed agisce come un vero lievito che fa fermentare delle masse, inerti precedentemente, che non si scuoterebbero sotto la influenza di altri moventi e di elevate idealità. Intanto rimane assodato, per chiunque abbia studiato da vicino i Fasci, che i reduci dall’esercito, mentre in Sicilia hanno scosso la rigida disciplina patriarcale delle famiglie, hanno portato invece la disciplina in molte delle associazioni dei lavoratori sorte da recente.
Il risultato, certamente, è inatteso e spiacevole pei sostenitori dell’esercito permanente. La parte democratica e socialista non può che rallegrarsene.
[22] Della Basilicata me ne parlò più volte con parole di fuoco e con intendimenti onestissimi l’amico carissimo Giustino Fortunato. I suoi giudizi sono insospettabili per la lealtà somma e per la condizione sociale di chi li ha emessi.
Questo malessere e questo rapido e profondo perturbamento economico—i quali da soli sarebbero stati capaci di determinare sommosse e rivolte ancora più gravi di quelle che si ebbero a deplorare in Sicilia—spiegavano la loro influenza in un ambiente anormale e anacronistico in cui i conflitti potevano sorgere per altre cause occasionali.
Sin dal 1885, nella Delinquenza della Sicilia e le sue cause, riassunsi i concordi pareri emessi da pensatori di ogni parte politica sulla organizzazione sociale di fatto esistente in Sicilia. Il feudalismo, abolito spontaneamente dai rappresentanti dell’aristocrazia nel 1812, in realtà rimase in pieno vigore nei rapporti politico-sociali tra le varie classi. Si può anche, senza temerità, asserire che quell’abdicazione di diritti, che forse fu il prodotto di un nobile sentimento, giovò soltanto a coloro che avevano creduto di fare un atto di abnegazione.
Invero colla organizzazione feudale di diritto, la proprietà feudale—dice il Baer—aveva tutto il[90] carattere di un ente morale; il diritto di proprietà era impersonale e il proprietario pro tempore era un usufruttuario, un amministratore.
Di più: su quella proprietà feudale c’erano degli oneri a benefizio delle collettività. L’abolizione legale del feudalismo tolse gli oneri e lasciò ai proprietarî i soli vantaggi: la storia dei varî proscioglimenti dei diritti promiscui e le liti relative—alcune delle quali durano ancora—non potrebbero che raffermare tale modo di vedere.
Questo perdurare di un regime feudale, di fatto persistente sino al 1860, si spiegò colla mancanza del soffio della rivoluzione francese, che non arrivò in Sicilia aggiogata al dominio borbonico dalle armi inglesi, anche quando le armate della repubblica, dell’impero e di Murat erano pervenute sino allo stretto di Messina nel continente. Più esattamente dovrebbe dirsi che a spiegare il fenomeno bisogna rimontare ancora più in alto: la maggiore durata del dominio feudale nei rapporti sociali informati alle istituzioni feudali non fu esclusiva della Sicilia, ma più o meno si constatò anche nel continente meridionale, dove la reazione contro lo spirito della rivoluzione francese fu cosa davvero spontanea e popolare. I fasti delle orde del Cardinale Ruffo e la resistenza vigorosa delle Calabrie sono noti. Il vero è che il soffio della rivoluzione in Italia fu vivificatore dove il terreno era preparato; e lo era in tutto il settentrione e nel centro e non nel mezzogiorno e in Sicilia ch’erano rimasti sotto il giogo monarchico e feudale, mentre il resto della penisola aveva avuto la splendida efflorescenza repubblicana del medio-evo.[91]
Dopo il 1860 la situazione non venne mutata gran fatto e se ne hanno testimonianze numerose di osservatori spassionati e autorevoli, tra le quali credo bastevole ricordare quella dell’on. Sonnino, e pel merito intrinseco del libro in cui venne registrata e per l’autorità che viene allo scrittore dal posto che occupa attualmente.
L’attuale ministro del Tesoro riferendosi ai rapporti tra contadini e proprietarî (che si possono intendere anche esistenti tra industriali ed operai, tra coltivatori, picconieri e carusi delle miniere, tra galantuomini—come chiamansi generalmente i membri dell’aristocrazia e della borghesia—e artigiani e lavoratori di ogni sorta) così scriveva nel 1876:
«Nelle relazioni tra il contadino e il proprietario molto è rimasto ancora dei costumi feudali; e non è da sorprendersene ove si pensi che il feudalismo in Sicilia fioriva ancora in tutta la sua pienezza al principio di questo secolo, e che la sua abolizione legale nel 1812, completata colle due leggi del 2 e 3 agosto 1818, non fu nè provocata, nè accompagnata, nè seguita da alcuna rivoluzione, da alcun movimento generale che mutasse d’un tratto le condizioni di fatto della società siciliana. Quella che era stata fino allora potenza legale, rimase come potenza o prepotenza di fatto, e il contadino, dichiarato cittadino dalla legge, rimase servo ed oppresso. Il latifondista restò sempre barone e non soltanto di nome: e nel sentimento generale la posizione del proprietario di fronte al contadino, restò quella di feudatario di fronte a vassallo. (I contadini ecc., p. 175).
Dal 1812 in poi, e sopratutto dal 1860, prese[92] maggiore sviluppo la borghesia, che reclutò i suoi membri più potenti nella classe dei gabellotti; ma in Sicilia generalmente questa borghesia non rappresentò un elemento antagonistico dell’aristocrazia, e invece—priva delle alte idealità e delle benemerenze di quell’altra borghesia che illustrò le rivoluzioni medioevali nel settentrione e nel centro d’Italia, e la grande rivoluzione del 1789—essa pose ogni studio nell’imparentarsi coll’aristocrazia, nel rendersi degna della sua stima e della sua considerazione: in fondo la borghesia terriera siciliana si rivelò una specie di sorella minore dell’aristocrazia, e l’una e l’altra gareggiarono nell’opprimere le classi inferiori.
Quali furono e quali sono intellettualmente e moralmente i rappresentanti dell’aristocrazia e della borghesia, che costituiscono in complesso le classi dirigenti della Sicilia? È presto detto e bisogna dirlo colle parole di chi non può essere sospettato di livore o di odio partigiano contro di esse: perciò ricorro all’autorità dell’on. Marchese Di Sangiuliano—che delle classi dirigenti siciliane può dirsi attualmente uno dei più autorevoli rampolli.—Egli si riferisce a quelle di oggidì, che sono certamente migliori, sotto l’aspetto intellettuale, almeno, di quelle di una volta[23].
Secondo l’on. deputato di Catania, adunque, le classi dirigenti «non si sa se vogliano la guerra[93] risolutiva o la politica di raccoglimento colle economie e col disarmo, se aspirino ad ordini politici reputati a torto più liberi, o ad un più vigoroso intervento d’un alto potere, se invochino una politica doganale più protezionista o più liberista, se desiderino un’azione più inframmettente ed attiva dello Stato o una maggiore autonomia locale e scioltezza d’iniziativa individuale; si sa solo che dello stato odierno delle cose i più non sono contenti, che molti credono o dicono che i beneficî dell’unità italiana, dell’indipendenza e della libertà costino troppo gravi ed insopportabili sagrifizî, che nel cuore di molti il sentimento nazionale, è sensibilmente raffreddato, che la fiamma della patriottica abnegazione è affievolita e il culto dei più nobili ideali politici e civili cede il posto alla cura esclusiva del proprio interesse materiale... E, sopratutto di fronte all’agitazione dei Fasci, privi di fiducia nella libertà, nella politica conciliativa, nei provvedimenti sociali ed economici, non veggono altra ancora di salute che nel rigore della repressione, nel potere arbitrario del governo o de’ suoi funzionari, nella limitazione, non solo temporanea, ma duratura, delle garanzie che tutelano la libertà personale dei cittadini, e quella non meno preziosa e benefica, della stampa periodica.... Queste classi infine diconsi dirigenti sovente come.... lucus a non lucendo!»
Queste parole in bocca di un altro potrebbero sembrare calunniose; ma non in quella di colui, che scriveva le Condizioni presenti della Sicilia. Al qual libro, dopo alcuni mesi della sua pubblicazione, non si deve fare che una modificazione, poichè dopo[94] la riunione dei grandi proprietarî nella Sala Ragona di Palermo si sa bene che cosa vogliono le classi dirigenti: la difesa della grande proprietà e la reazione.
La severità dell’on. Di San Giuliano, che vive nella politica ed è un avversario, in pratica, dei socialisti, non viene uguagliata che da quella di un altro conservatore, che vive appartato dalle lotte della politica e dedito all’insegnamento e agli studî agronomici: alludo al Prof. Basile di Messina. Egli nel libro: I catasti d’Italia (Messina 1880) mostrò il più grande disprezzo per «i signori che sono ricchi perchè esigono affitti dal territorio di mezza provincia; che stimano una villania pensare a coltivare le terre: che non intendono impazzare a far conteggi con zotici castaldi; che neppure conoscono la forma e la estensione dei loro latifondi affidati ai capricci dei procuratori; che sciupano tutte le loro entrate negli alberghi di Parigi, di Londra, della Svizzera, ai giuochi di azzardo di Wiesbaden.»
Siccome quest’ultimo giudizio particolarmente potrebbe applicarsi alla classe aristocratica, il quadro può completarsi collo schizzo assai sintetico che il Sonnino fece della borghesia «non numerosa, e in Sicilia, come da per tutto, avida di guadagno e imitatrice della classe aristocratica soltanto nelle sue stolte vanità e nella sua smania di prepotenza!»
Come trattino le classi inferiori queste classi dirigenti si può immaginarlo: «L’operaio e il contadino—dice l’Alongi—sono secondo il gabellotto e poteva dire secondo il borghese e l’aristocratico, una specie di animale inferiore spesso trattato[95] peggio del suo cavallo da coscia. Egli non può capire, per esempio, perchè i funzionarî di oggi debbano occuparsi delle violenze gravi, che un galantuomo fa ad un servo.... Tanto meno poi riesce a comprendere che anche un miserabile ha diritto a giustizia, a godere del porto d’armi, e ad altri privilegi, un tempo riservati solo ai galantuomini. Quel che più li urta è poi la insistenza con cui giudici e funzionarî vogliono sapere da loro certe cose intorno ai reati di fresco successi, quasicchè un galantuomo debba essere citato a dir quel che sa come qualunque altro;—e ve n’è poi di semi-ingenui, che strabiliano nel vedere che un governo debba andar cercando prove e far formalità e spese per mandare un miserabile in galera—Ma che! fatelo sparire senza tanti complimenti!»
Tali i sentimenti che un egregio funzionario di Pubblica Sicurezza, siciliano, che ha occupato ed occupa posti di fiducia, ha attribuito alle classi dirigenti verso le classi inferiori! E pur troppo egli non ha esagerato le tinte; il quadro anzi verrà completato aggiungendo che le dirigenti sono anche dotate di alterigia, di albagia, eredità spagnuola, che spesso le fa cadere nel ridicolo, perchè scompagnata da una qualsiasi delle condizioni che possono incutere rispetto. E lo spagnolismo grottesco, in generale arriva al punto che un galantuomo crederebbe di degradarsi andando a bere un bicchiere di vino in una osteria—perchè è frequentata dalle classi inferiori—o anche solo stringendo la mano ad un lavoratore!
Quanta cura le classi dirigenti della Sicilia si siano[96] presa delle misere condizioni dei lavoratori, in questi momenti in cui dappertutto altrove o per filantropia per calcolo si fanno inchieste e si votano leggi a loro favore, ci vuol poco a comprenderlo una volta che si conoscono le belle doti del loro intelletto e del loro cuore....
Il Taine dipingeva la non curanza degli aristocratici francesi per i contadini nel secolo scorso con questi pochi tratti: «Non facendo niente per la terra, come sarebbero capaci di fare qualche cosa per gli uomini? D’altronde sanno essi cos’è la fame? Quale fra di loro ha esperienza delle cose campestri? E come potrebbero rappresentarsi la miseria del povero? Per poter far questo essi sono troppo lontani da lui, troppo estranei alla sua vita. Il ritratto che essi si fanno di lui è immaginario; mai è stato più falsamente rappresentato il contadino.» (L’Ancien régime p. 65).
Altrettanto e peggio si deve affermare del modo di giudicare delle classi dirigenti siciliane rispetto ai bisogni dei lavoratori e a’ rimedi contro le ingiustizie alle quali soggiacciono.
La Inchiesta agraria ne fa fede: essa somministra il documento autentico del loro egoismo e della loro cecità. Tra i Comuni e i privati interrogati, pochissimi si preoccuparono della triste condizione dei lavoratori e la maggior parte invocarono invece provvedimenti favorevoli ai proprietarî, inutili e superflui al proletariato agricolo. E la prova di egoismo hanno ripetuto ora nella riunione ricordata dei grandi proprietarî della Sala Ragona nella quale non seppero occuparsi che dei propri esclusivi interessi: all’indomani dei tumulti e degli incendi del Dicembre 1893 e del Gennaio 1894!
[23] Il Senatore Zini chiamò la Baronia siciliana superba ed ignava, non ultima cagione del pervertimento morale onde volentieri si getta il carico sul mal governo dei Borboni. (Dei Criterî e dei modi di governo nel regno d’Italia. Bologna 1876).
Le classi dirigenti in Sicilia non sono ancora feudali soltanto pel disprezzo che ostentano verso gl’inferiori, e per le ingiustizie che fanno loro subire; ma esse si conservano tuttavia medioevali pure nelle loro divisioni in partiti, pel modo come intendono e praticano le lotte, e come amministrano comuni e provincie che cadono sotto le loro unghie.
Anche su questo doloroso argomento nulla si può dire di nuovo; ma ciò che è stato detto e scritto molti anni or sono è stretto dovere riprodurre, perchè meglio che ogni altro dato giova a spiegare la genesi degli ultimi fatti luttuosi.
Il Bonfadini nel 1876 constatò «la sopravvivenza, in molti paesi, di quelle lotte e di quegli odî di famiglia che funestarono la società del medio-evo; chè non è giusto, come taluni fanno per preconcetti politici o contro la evidenza storica, l’asserire che le guerre civili furono un malanno peculiare dei nostri comuni medio-evali...»[98]
Ed è altrettanto esplicito il Generale Corsi che osserva «essere tradizionale, ab antico, vivissimo in questo corpo sociale così composto, o per dir meglio, così mal composto, il parteggiare... E può darsi benissimo, che i partiti siano della stessa fede politica gli uni e gli altri o indifferenti del pari. Nel fondo però di quelle gare vi son talvolta antichi rancori di famiglia e allora tanto più facilmente le elezioni amministrative e politiche diventano un caso di Sciacca.» Così a pag. 280, mentre a pag. 332, dopo avere descritto l’intervento dei Fasci in queste gare, giustamente afferma che in molti paesi si fece un vero imbroglio tra Municipio, partiti e Fasci.
Chi non sa adesso che questi odî e queste lotte tra le famiglie più potenti di un comune hanno sopratutto contribuito alla organizzazione di Fasci che non avevano neppur l’ombra dell’idealità socialista, ma che dovevano servire agli interessi e alle passioni di un capo parte, e che aizzarono i contadini ed eccitarono ai tumulti?
In qual modo, poi, e con che mezzi questi partiti a base di odî e di lotte tra famiglie, esercitano il potere e l’influenza è anche noto.
L’on. Franchetti scrisse: «nella capitale dell’Isola e nei suoi contorni domina maggiore prepotenza privata, per effetto del maggiore concorso colà di membri delle clientele dominanti (Le condizioni politiche e amministrative della Sicilia nel 1876); clientele, soggiunse il Turiello, usate a riconoscere più spesso dov’è più folta la popolazione, nel prepotere privato, un diritto che non è poi impedito da alcuna[99] autorità sociale più forte della loro volontà. (Governo e governati. Vol. 1. p. 79.)»
E l’Alongi rincalzò:
«Ne’ piccoli e medî comuni, ci sono gruppi di preti, professionisti, operai, dati a questo e a quel signore. E i partiti non sono formati che da questi nuclei aderenti a un paio di signorotti sempre nemici per antichi odî, o per spirito di supremazia, o per libidine di potere e di prepotere su tutti, e specialmente sul bilancio comunale.
«Le oligarchie organizzate, sono, è vero, meno violenti e feroci di quelle da cui direttamente promanano (le feudali) ma sin dove possono giungere, ne hanno l’audacia e le pretese.
«E per sostenersi ricorrono a tutti i mezzi.
«Della legge e della legalità hanno un concetto esclusivamente unilaterale; le riconoscono e vi ricorrono solo in quanto sanzionano il loro potere; per tutto il resto, o non esistono, o si possono violare impunemente.»
I maggiorenti, divisi ed organizzati in partiti che non hanno ragione politica, ma bensì di astî e rancori personali, sono pienamente d’accordo;—presso a poco come Carlo V. e Francesco I. che volevano entrambi la stessa cosa: il ducato di Milano—onde alternandosi al potere, si imitano, si ripetono e nei procedimenti, e nei criteri amministrativi e nelle vendette sui vinti avversarî, e nell’imporre sempre le spese ad essi ed ai lavoratori in generale.
Le amministrazioni comunali e provinciali d’Italia e particolarmente della Sicilia somministrano le prove più evidenti della sopraffazione di una classe a danno di un’altra, dei favoritismi, delle camorre,[100] delle opere irrisoriamente dette pubbliche, ma che servono a benefizio di pochi, delle imposte fatte pagare di preferenza ai contribuenti appartenenti al partito vinto, delle imposte che gravano maggiormente sui consumi necessarî e sulle classi meno agiate e il cui prodotto serve per il teatro, per i ginnasî, per le passeggiate, per i giardini pubblici, per tutto ciò che diverte o giova ai ricchi o ai meno disagiati.
Di queste spese e di queste imposte mi sono lungamente occupato in un libro pubblicato nel 1882[24] alla vigilia delle elezioni politiche generali; e pur troppo le critiche aspre enunziate allora a carico delle amministrazioni municipali si dovrebbero oggi inasprire di più; e pur troppo le riforme invocate allora sono tuttavia un desiderio!
Allora deplorai che Palermo e Messina discutessero invano per provvedersi dell’elemento più indispensabile alla vita, l’acqua; deplorai che si spendessero milioni e milioni per un Teatro Massimo, che difficilmente,—se si riuscirà a compirlo—si potrà riempire di spettatori; deplorai, che si spendesse poco e male per la istruzione popolare; deplorai che si spendesse poco e male per tutti gli istituti pii, che servono pei poveri e per gli inabili al lavoro; deplorai che si rubasse nello spendere e che si qualificassero come opere pubbliche quelle che sono di semplice interesse privato; deplorai infine che il dazio di consumo, il focatico e la tassa sugli animali costituissero la principale risorsa economica dei Comuni; e deplorai che la tutela esercitata dal governo[101] riuscisse impotente ad impedire il male ed efficace, invece, per aggravarlo, pur di servire al capriccio, al comodo dei beniamini, dei protetti, dei grandi elettori, dei deputati.
Dopo pochi anni si levò la voce dell’Alongi che la vita locale conosce anche perchè è stato più volte Regio Commissario straordinario presso diversi municipî:
«Si profondono favori,—egli dice—impieghi, esenzioni di tasse e protezioni d’ogni portata agli aderenti e si fa l’opposto con gli avversarî, contro ai quali: persecuzione continua, evidente, spesso sfacciata e feroce, fino al delitto, fino all’omicidio. E si pretende che i funzionarî del governo seguano questo indirizzo.
«Tranne poche e lodevoli eccezioni, nei comuni dominano la incompetenza e la prepotenza più goffe e sfrenate che per contraccolpo vi producono la paura, la sofferenza, i rancori sordi delle masse.
«L’ufficio di Sindaco, nei piccoli comuni, è sfuggito dai buoni perchè arduo e pericoloso; è ricercato avidamente dai tristi cui offre risorse illecite ma sfuggenti al Codice Penale, e voluttà di comando e di prepotenze che fanno rivivere Don Rodrigo senza il blasone.
«A che si riducano, con questo sistema i servizi amministrativi è facile immaginarlo...»
Nei municipî la prepotenza di classe dai vampiri borghesi o aristocratici è stata esercitata in modo classico, ripetendo incoscientemente—perchè i più non conoscono la storia di Inghilterra, nè hanno letto Carlo Marx—i procedimenti prevalsi alcuni secoli or sono al di là della Manica diretti a usurpare[102] la cosa pubblica, che in Sicilia particolarmente era la cosa del proletariato agricolo. Qui infatti, i galantuomini con costanza sorprendente, da gabellotti, da limitrofi, da amministratori hanno usurpato i demanî comunali, la proprietà collettiva degli abitanti poveri del Comune.
E le usurpazioni sfacciate e impunite—ciò che stabilisce la responsabilità e la complicità del governo nel reato—hanno, ad esempio, una illustrazione in tribunale col ricorso dei comunisti di Alcari li Fusi, fraudolentemente spogliati dei proprî beni, ed ebbero un epilogo tragico a Caltavuturo dove furono assassinati dei poveri contadini perchè—ingenui!—vollero esercitare un diritto, zappando—niente altro che zappando!—la terra che a loro appartiene.
Oh! Italiani, che vi siete santamente indignati per l’assoluzione di Angoulême, quando v’indignerete per il massacro di Caltavuturo, che costituisce l’episodio più scellerato della vita politica italiana, ch’è rimasto impunito e pel quale non un solo accusato venne trasportato sullo sgabello della Corte di Assise? In Francia almeno ci fu un processo, ci furono degli accusati, ci fu un Pubblico Ministero severo e imparziale che fece di tutto per farli condannare, ci furono dei gendarmi che deposero il vero: ma in Italia?
Però le usurpazioni dei demanî comunali, e la vendita e i censimenti fraudolenti delle terre patrimoniali nè possono essere consumati dappertutto,—perchè in Sicilia non tutti i Comuni posseggono demani comunali e beni patrimoniali—nè possono ripetersi ogni giorno perchè la materia che fornisce occasione al reato, a danno del popolo, si esaurisce.[103] Ci sono, però, altri modi di nuocere al popolo, quotidianamente, perennemente, e che riescono perciò causa più frequente di odî e di risentimenti: questi modi vengono rappresentati dalle imposte e dalle spese.
Si deve premettere, per essere imparziali, che oggi come oggi i municipi di Sicilia sono agli sgoccioli in quanto a spese facoltative, ridotte in molti luoghi a qualche migliaio di lire per la musica o per la Chiesa, e che le imposte servono per le spese obbligatorie. Molte delle spese della prima categoria, però, vennero fatte in altri tempi per mezzo di debiti, che ora pesano sui municipî, e fatte talora per mettersi, almeno nella parte esteriore e che rappresenta la vernice, a livello delle città più colte del continente. Lo spagnolismo impera nei comuni come sugli individui e li ha spinti ad un più elevato tenore di vita sproporzionato alle risorse.
E perchè riguardano il prepotere—veramente feudale in quanto alla natura delle spese—ricorderò questi casi:
Nella provincia di Caltanissetta si costruì a spese della provincia una strada a totale benefizio di un barone che dominava nel Consiglio provinciale.
In Agira, a spese del Comune, si costruì altra strada del costo di oltre 200,000 lire che giovava principalmente ad un ricco signore—nel resto onesto cittadino—che spadroneggiava nel Municipio.[25].
Così altrove. In quanto alla onestà nello spendere e nel costruire me ne rimetto al severo giudizio della relazione Bonfadini sulle strade provinciali di Caltanissetta e di Girgenti. Del resto ci vorrebbe un volume per notare e descrivere tutte queste spese pazze e disoneste, che gli amministratori locali possono tentare di giustificare soltanto coll’esclamare: abbiamo imitato lo Stato.
Purtroppo!
Ciò che il Sonnino e il Franchetti e il Bonfadini—cito di proposito persone non sospettate di radicalismo o di socialismo—osservarono sulle amministrazioni comunali, dovettero constatarlo anche nelle amministrazioni delle opere pie.[26]
Nel giudizio sulle imposte, come mezzo di iniquo sfruttamento di classe, lascio la parola all’on. Sonnino, di me assai più autorevole:
«Quanto al modo in cui la classe dei galantuomini si vale delle amministrazioni comunali a suo[105] profitto, ed a danno della classe dei contadini, basterebbe esaminare Comune per Comune i ruoli delle imposte per averne qualche idea. Così noi troveremo generalmente imposta in modo gravissimo la tassa sulle bestie da tiro e da soma, ossia principalmente sui muli e sui cavalli, che sono la proprietà maggiore dei contadini; e invece raramente e in proporzioni minime la tassa vera sul bestiame, ossia sulle vacche e sui bovi, perchè questi sono posseduti dai proprietarî. Il contadino paga in moltissimi luoghi fino a 8 lire per mulo, o 5 lire per un asino, e il proprietario e il gabellotto non pagano nulla, o relativamente pochissimo, per centinaia di vacche o di bovi.»
Il Cavalieri, che fu compagno di viaggio di Sonnino e di Franchetti nel 1875, si è occupato adesso della quistione siciliana; epperò ha dovuto confermare quanto avevano scritto i primi molti anni or sono e aggiungere fatti nuovi e opportune considerazioni, che meritano di essere riportati.
«Le tasse sugli animali da tiro, da sella e da soma e quelle pel bestiame danno luogo a sfruttamenti del contadino: e in generale si aggrava la prima, la quale colpisce gli animali, che gli rendono un servizio e si attenua la seconda, che colpisce il bestiame come capitale.[27]
«È più che verosimile, che sindaci e consiglieri nel compilare i ruoli delle varie tasse favoriscono i[106] loro amici e gravano la mano sugli avversarî e sui poveri.»
«Osservazioni simili si devono fare per la tassa fuocatico....»
«Ma a far più completa la dimostrazione dello stato delle cose, ecco un altro documento meno conosciuto, ma altrettanto grave. Il Fascio di Campobello di Licata ricorse di recente al Consiglio provinciale di Girgenti perchè quel Consiglio comunale, per creare un corpo di 21 guardie campestri, istituì una tassa sui proprietarî sulla base di lire 8 per ogni salma di terra, ma colla clausola che sarebbero tassati solo i proprietari, che possedono sino a sei salme.
«S’intende che nessuno dei consiglieri comunali è in questa categoria....
«Il ricorso avrà certo buon esito, ma la cosa è tanto enorme che si stenta a comprendere come ci sia stato il bisogno di produrlo: però non da chi, già nel 1876, in Santa Margherita—nella stessa provincia di Girgenti—ebbe a constatare che da anni si riscuoteva colla tolleranza degli ufficiali del governo una seconda imposta a benefizio del Comune: l’imposta governativa si riscuoteva col contatore meccanico e quella comunale si riscuoteva col sistema borbonico e cioè con altrettante bollette che un apposito ufficio rilasciava a chi voleva macinare, senza delle quali il mugnaio non avrebbe potuto prestarsi sotto pena di una contravvenzione!» (I fasci dei lavoratori, p. 29 a 32).
In quanto al Dazio di consumo quasi tutti i Comuni chiusi, almeno i principali (compresi quelli amministrati dai democratici) hanno sorpassato i limiti[107] legali del sovrimporre. E perchè su questo vitale argomento le sentimentalità non prendano il sopravvento,—o meglio non si abbia il sospetto che lo prendano,—giova riprodurre alcune cifre comparative per i bilanci del 1889, sulla proporzione della sovrimposta fondiaria e del dazio di consumo comunale in poche regioni d’Italia, che hanno presso a poco la stessa popolazione della Sicilia.
POPOLAZIONE | DAZIO CONSUMO COMUNALE |
QUOTA PER ABITANTE |
SOVRIMPOSTA FONDIARIA |
QUOTA PER ABITANTE |
|
---|---|---|---|---|---|
Piemonte | 3,234,490 | 12,008,218 | 3,71 | 13,043,802 | 4,03 |
Lombardia | 3,906,959 | 12,771,218 | 3,27 | 20,902,919 | 5,35 |
Veneto | 2,985,164 | 7,209,917 | 2,42 | 16,264,792 | 5,45 |
Sicilia | 3,285,474 | 22,218,045 | 6,76 | 5,350,478 | 1,63 |
Io non commenterò queste cifre eloquenti e mi limiterò a riprodurre un’altra breve comparazione fatta dal professore Maffeo Pantaleoni, e lascerò che i commenti li faccia una pregiata rivista che combatte il socialismo con tutte le sue forze.
Le cifre comparative sono queste:
Quota per abitante della | |||
Ricchezza | Dazio di consumo | Sovrimposta fon. | |
Sicilia | 1,471 | 6,76 | 1,63 |
Piemonte | 2,746 | 3,71 | 4,03 |
Lombardia | 2,400 | 3,27 | 5,35 |
Veneto | 1,935 | 2,42 | 5,45 |
Ed ecco i commenti:
«Va notato che i dati della ricchezza per abitante per regione si riferiscono ad un quinquennio (1884-1889) di eccezionale prosperità, sopratutto in Sicilia.—La crisi sopravvenuta dopo, ha certamente[108] arrestato e retrocesso lo sviluppo della sua ricchezza proporzionalmente più che sulle regioni del nord, per effetto della politica economica più specialmente lesiva del Mezzogiorno.—Ma pure restando per larghezza di concessione ai dati del Pantaleoni, il dazio consumo in Sicilia è quasi il doppio che in Piemonte, mentre la ricchezza ne è la metà, ed esercita nell’isola una pressione tributaria almeno quattro volte maggiore. Invece la sovrimposta sta ad un limite poco inferiore a quello che potrebbe ancora raggiungere in vista della ricchezza rispettiva; mentre le altre imposte (valore locativo, tassa famiglia, bestiame, vetture e domestici) sono già in cifra assoluta per abitante più gravose pel contribuente siciliano. Questi dati permettono due considerazioni: 1º che il sistema delle imposte comunali in Sicilia esercita una pressione maggiore che nel continente; 2º che la ripartizione del carico tributario locale è fatta tutta a danno dei contribuenti che pagano imposte indirette» cioè, dei lavoratori! (L’insurrezione Siciliana, nel Giornale degli Economisti, Febbrajo 1894).
Su questo proposito, infine, c’è la testimonianza più decisiva, e più autorevole, più recente: quella del Generale Corsi, che giudica «veramente gravissime le imposte nella massima parte dei Comuni, specialmente sui generi di prima necessità, sulle farine sopratutto, e ripartite in modo così ingiusto, così empio, che pesavano molto più sul povero che sul ricco. E molti comuni sprecavano denaro in ispese di nessuna o problematica utilità pubblica, a vantaggio dei signori, a beneficio dei bene affetti e fautori della fazione predominante... (p. 369).»
La gravità di questi dati e delle accuse che essi[109] autorizzano a muovere contro le classi dirigenti, le quali spadroneggiano nei municipî, preoccupò i grandi proprietarî della sala Ragona; i quali cercarono di difendersi, osservando che «il fenomeno doloroso dell’altissima quota di dazio di consumo comunale che si paga in Sicilia è determinato dal fatto che la classe rurale siciliana risiede nelle città e borgate soggiacenti al dazio di consumo, mentre nelle altre regioni d’Italia vive disseminata nelle campagne.»
La giustificazione in parte è accettabile; e si può dire eziandio, che la legge stessa sui tributi locali favorisce la proprietà fondiaria cogli ostacoli, che mette alla facoltà di sovraimporre; ma rimane sempre,—a spiegare il largo e giusto risentimento dei proletarî,—il fatto stesso della esistente sperequazione tra imposte dirette e indirette, a danno loro, (e che essi ignari di leggi e di demografia non riescono a giustificare), non che la circostanza che colle stesse leggi e cogli stessi ostacoli a sovrimporre sulla imposta fondiaria in Piemonte, in Lombardia e nel Veneto i proprietarî riescono a pagare tre e quattro volte di più che in Sicilia. È innegabilmente maggiore l’equità tributaria nell’Alta Italia, che in Sicilia e in molte altre contrade del mezzogiorno, e specialmente nella Campania.
Questa iniquità nella distribuzione e nella qualità dei tributi ebbe a deplorarsi vivamente sotto l’Ancien régime in Francia, dove produsse gli stessi effetti che in Sicilia. In un vecchio opuscolo intitolato: Abrégé de l’histoire des taxes en France pubblicato nel 1694 sotto il regno di Luigi XIV si parla e dei favori accordati agli amici nella applicazione[110] della taglia, e delle ingiustizie che si commettevano a danno dell’ingegno e del lavoro ed a benefizio della proprietà e del capitale. Nella Decima regale del grande Vauban vengono illustrati gli stessi favori e le stesse ingiustizie che tanto contribuirono più tardi a fare sollevare un popolo, che era stato ritenuto taillable et corveable à la merci dei signori!
I disgraziati difensori del governo e i disonesti giudici dei moti siciliani del 1893 e 1894 hanno osservato: «o perchè le minoranze e i lavoratori non si agitavano, non esercitavano i loro diritti, non reagivano nelle vie legali contro le prepotenze e le iniquità delle amministrazioni locali?»
Non lo potevano: la frode, la corruzione, la violenza nella compilazione delle liste, nelle votazioni, in tutto, assicuravano il trionfo di chi sapeva asservirsi al governo o al deputato, i quali ogni loro opera spendevano a proteggere i vincitori, che spesso erano la minoranza reale. Il voto e la legalità da trent’anni si chiariscono impotenti a ottenere qualcosa, a correggere.
[24] N. Colajanni: Le istituzioni municipali. Un vol. di 334 pag. L. 3—presso Remo Sandron—Palermo.
[25] Valguarnera, dove avvennero incendî e rapine, si rovinò colla costruzione di una strada intercomunale con Raddusa, che costò L. 250,000. Essa paga al solo governo L. 36,000 per abbonamento al dazio consumo e non conta che diecimila abitanti.
[26] Il Sonnino a p. 188 del suo libro, in una nota, parla di una fondazione pia del principe di Castelnuovo pessimamente amministrata. In parte i fatti da lui esposti sono veri; ma è stato tratto in errore sui rimedî adoperati dal governo per riparare ai mali. «Ci volle un vero colpo di mano per portar via dalle casse del Comune,» egli dice, «sei anni addietro, i valori che rimanevano, per cominciare finalmente ad impiegarli al fine voluto dal testatore.» Il fatto è questo: il Prefetto di Caltanissetta, Polidori, nel 1869 fece il colpo di mano, ma fu una vera spogliazione a danno del Comune di Santa Caterina Villarmosa—ch’è il comune dove fu fondato il luogo pio—che indarno sinora ha reclamato. L’on. Sonnino ora ch’è ministro farebbe bene ad informarsi meglio ed a provvedere efficacemente.
[27] Su questa tassa pervennero direttamente a me alcune enormi notizie dalla provincia di Siracusa, che non riproduco dettagliatamente perchè non ebbi modo e tempo di verificarne l’esattezza.
La prepotenza feudale, la iniquità sistematica in ogni momento ed in ogni lato della vita e della amministrazione comunale, che si esplicano sotto l’egida delle autorità governative—prefetti, delegati, carabinieri—spiegano più che sufficientemente come l’odio delle classi lavoratrici contro i galantuomini debba essere profondo e generale, e tanto più pericolosa la sua esplosione violenta inquanto che lungamente represso e non attenuato da alcuno sfogo nelle vie legali, a loro non consentito dalle stesse leggi, che del diritto elettorale hanno fatto un privilegio di alcune classi.
Tutto il passato remoto e tutto il presente non ha fatto che generare e alimentare quest’odio dei lavoratori,—specialmente delle campagne, contro le classi dirigenti,—che un giorno o l’altro doveva esplodere.
Si dirà: «all’indomani delle sommosse e delle rivolte la invocazione della preesistenza dell’odio di[112] classe è un comodo espediente per ispiegare, se non per giustificare, i moti inconsulti o criminosi.»
Epperò giova dimostrare, che quanti si occuparono delle condizioni della Sicilia constatarono in ogni tempo—nei momenti di tranquillità, come in quelli di agitazione e di perturbamento—il doloroso fenomeno.
Uno scrittore più volte citato, l’Alongi, parecchi anni or sono scriveva che per i motivi precedentemente esposti «il contadino diffida e vede nei funzionari tanti alleati dei galantuomini, che lo tengono in una grossolana e ferrea servitù economica, e ignorante, incretinito dalla miseria, dal lavoro improbo, sfugge i contatti, vede ovunque ingiustizie ed oppressioni, e nei provvedimenti più utili tante trappole per immiserirlo di più. Nasce quindi tra i contadini un istinto di riunirsi tra loro contro i nemici comuni (galantuomini e governo; d’onde il proverbio: galantomu e malu passu dinni beni e stanni arrassu), di fare una lega spontanea, inconscia contro di essi, opponendo una inerzia assoluta a tutti i movimenti del nemico personificato nel funzionario e quando la pazienza scappa, farsela da sè, poichè pel povero non c’è giustizia (dice un altro proverbio: la furca è pri li puvureddi)».
Quest’odio di classe venne constatato da Sonnino, da Franchetti, da Bonfadini, da Damiani in varie epoche; ma si vogliono pareri di persone ancora più autorevoli e insospettabili? Eccoli.
L’odio contro i ricchi, accanto alla esistenza del latifondo, viene esplicitamente denunziato dal Procuratore Generale Caruso, nella sua relazione innanzi alla Corte di Appello di Palermo sul movimento[113] della criminalità pel 1880, come la cagione principale dei caratteristici reati dei contadini.
Cinque anni dopo un altro Procuratore generale, il De Meo, in una analoga occasione nella stessa Palermo osservava: «i poveri agricoltori e coloni, mezzadri o fittaiuoli non vedono e spesso non conoscono i padroni dei fondi che coltivano e ne risentono il peso e l’oppressione per quelli agenti intermedî che fattori o campieri si domandano; dai quali non pure sono tribolati con vessazioni, usure e prepotenze di ogni sorta, ma spinti a disamare i proprietarî; onde tra loro si mantiene un abisso e si forma un cumulo di animosità, di rancori, di odî inveterati, che diventano temperamento e abito dell’animo...»
Io credo che ce ne sia abbastanza per una dimostrazione obbiettiva, spassionata di un vero odio di classe in Sicilia preesistente agli ultimi moti; odio di classe generato dalle cause che sono state esposte e che ha costituito un pericolo permanente per l’ordine sociale.
Quest’odio di classe che, per quanto giustificato, in me produsse sempre un senso di sgomento per le sue possibili esplosioni, ispirò ad uno scrittore conservatore uno dei bozzetti suoi più indovinati e caratteristici, che ritraggono la vita e le passioni del popolo in Sicilia. G. Verga infatti tra le sue Novelle rusticane ne ha una intitolata Libertà, che tutta intera dovrebbe essere riprodotta a dimostrazione completa del come senza i Fasci e senza il socialismo, nell’isola potessero verificarsi fatti identici nella natura e più gravi negli episodî di quelli del 1893 e 1894, ma basterà ai lettori l’esordio eloquente.[114]
«Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo e cominciarono a gridare in piazza: «Viva la libertà!»
«Come il mare in tempesta, la folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciola.»
«A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri!—Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie.—A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima!—A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero!—A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente!—A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!»
«E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue!—Ai galantuomini. Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli!»[28]
L’arte non poteva meglio riassumere gli odî generati da secolari ingiustizie esplodenti quando al grido di Viva la libertà! gli oppressi credevano che fosse arrivata l’ora della vendetta e della riparazione.
[28] Il Verga pubblicò questa novella nella Domenica letteraria del Martini, nel Marzo 1882. Fu riprodotta nelle Novelle rusticane edite dal Casanova di Torino nel 1883.
Più volte s’è già accennato al carattere di permanenza delle descritte condizioni della Sicilia. Ma nell’animo di molti potrà esser rimasto qualche avanzo di ottimismo, il quale avrà potuto indurlo a credere che i più dolorosi tra i mali da cui è afflitta l’isola nostra siano eredità del passato—per quanto prossimo—e che qualche miglioramento riparatore si sia ottenuto per opera del governo, o dei maggiorenti meglio avvisati de’ pericoli a’ quali viene esposto l’organismo sociale dal perdurare di condizioni di fatto divenute assolutamente anacronistiche, oggi, in mezzo all’Europa che, più o meno, s’è venuta trasformando.
Ebbene! ogni illusione deve essere bandita, e bisogna confessare con vergogna, che i mutamenti in meglio, in rapporto alle classi lavoratrici sono tale povera cosa, che si possono considerare come non avvenuti. Ma con ciò non s’intende negare che negli strati superiori siano avvenute sensibili modificazioni.[116]
Il Baer con equanimità assegna la parte di responsabilità ch’è dovuta al governo borbonico nel mantenimento di un regime feudale che sarebbe stato suo interesse far scomparire per vederlo sostituito da un forte ceto medio, perchè in fondo le opposizioni più pericolose e più continuate gli vennero dall’aristocrazia che voleva conservare o riprendere interi tutti i suoi privilegi economici e politici. Ma esso pur avendo mostrato la intenzione di abbattere le istituzioni feudali—e glielo suggeriva la propria convenienza—volle seguire metodi proprî, che riuscirono impotenti, essendo frenati e paralizzati tutti i buoni tentativi dal soverchio timore dello innalzamento della parte popolare.
«Perciò la dinastia borbonica si chiarì impotente a fare il bene, debole nel pigliare ogni provvedimento d’interesse generale, solo violenta e perfino crudele ogni qualvolta temeva pel suo potere.» (Baer).
Degli intendimenti lodevoli e dei tentativi del governo borbonico per mutare e migliorare rimangono numerosi documenti ufficiali a farne fede. Colla legge dell’11 ottobre 1817, coi decreti del 2 Agosto 1818, del 20 maggio 1820 col reale rescritto del 18 ottobre 1821, con altri decreti del 30 luglio 1823, del 10 febbraio 1824, coi regolamenti del 24 ottobre e del 22 dicembre 1825, 3 gennajo 1836 e 20 ottobre 1834, 12 novembre 1838, si ordinarono inchieste e s’imposero scioglimenti di diritti promiscui, si cercò di dipanare l’arruffata matassa delle soggiogazioni, si tentò di porre riparo alle dilapidazioni e alle usurpazioni perpetrate a danno delle opere pie, si tentò d’infrenare l’usura; ma tutto riuscì sempre[117] vano, perchè baroni, magistrati e funzionari di ogni genere, stretti in mostruosa lega, resero ognora lettera morta leggi, regolamenti e decreti opportuni e benefici, ed il governo non seppe contrapporre la propria forza attiva alla resistenza dell’inerzia.
Del male intanto si aveva conoscenza esatta; chè in un decreto del 12 ottobre 1838, all’indomani del viaggio di Ferdinando II in Sicilia, si legge: «le vaste contrade nude, deserte, mal coltivate, che s’incontrano in Sicilia, non ostante la loro feracità naturale ed il favore del clima, non potranno essere migliorate finchè durerà l’esistenza di più padroni sullo stesso fondo. Volendo accelerare la esecuzione delle leggi, che da epoche remote hanno proscritta la indicata condizione della proprietà, perniciosa a tutti ecc. ecc.» In un altro decreto dello stesso anno 1838 è detto che «il languire dell’agricoltura e della pastorizia, e la miseria d’intere popolazioni, debbono attribuirsi in gran parte alla esistenza degli abusi feudali, delle promiscuità e delle liti degli ex-baroni coi Comuni, ecc.»
Dopo, nei momenti della peggiore reazione, nel 1849 e nel 1852, il principe di Satriano emanò decreti contro l’usura, e per favorire lo spezzamento dei latifondi; sempre inutilmente.
Se il governo borbonico fu impotente al bene, come si disse, potè colle persecuzioni politiche, coi favoritismi, colle protezioni far scomparire del tutto dagli animi la confidenza nella giustizia e far sorgere la mafia, i campieri e i compagni d’armi, che avevano in appalto la sicurezza pubblica delle campagne, e che, in generale, erano pregiudicati e briganti[118] in ritiro, che conservavano i migliori rapporti coi briganti in attività.
Lo sbarco di Marsala e la successiva liberazione dell’isola dal giogo borbonico avrebbero dovuto iniziare un’êra nuova. Alcuni sapienti decreti di Garibaldi lo fecero sperare; e i propositi manifestati da lui sul censimento dei beni ecclesiastici, se attuati, da soli sarebbero forse bastati a produrre un vero rinnovamento economico-sociale: ma si sa che ai criterî sociali nella distribuzione di quei beni furono sostituiti i criterî esclusivamente fiscali ed un’opera che avrebbe potuto riuscire altamente civile non fu feconda che di mali e di amare delusioni frammiste a qualche poco di utile. Lo stesso dicasi dell’editto del 19 settembre 1861 emanato dal Luogotenente del Re in Sicilia, generale Pettinengo relativo alle obbligazioni dette di semenza e soccorsi e di mercanti a massari per agevolare la semina e la cultura della terra, inteso ad infrenare l’inveterata e perniciosa usura: rimase lettera morta.
E i metodi e i criterî di governo seguiti in Sicilia dopo l’annessione, e l’atteggiamento di molti uomini e giornali del continente, che li inasprirono produssero malintesi, risentimenti, rancori regionali che—accresciuti dalla malefica e affrettata unificazione centralizzatrice—generarono profondo malcontento in tutti e delusioni sconfortanti.
Contro la verità storica, contro il buon senso, contro le esplicite e reiterate dichiarazioni di Garibaldi e dei suoi più intimi, fu offeso l’amor proprio degli isolani col proclamarli conquistati dai Mille e col dichiararli barbari per bocca del generale Govone: insulto a distanza di molti anni stoltamente ripetuto[119] dal generale Corvetto. E da barbari furono trattati, e si tentò d’incivilirli cogli stessi metodi umani adoperati... da Livraghi in Africa.
Aspromonte e Fantina certamente non furono avvenimenti che poterono crescere stima al governo in Sicilia; ma gli animi nelle classi lavoratrici sopratutto si esasperarono colla introduzione della leva militare, «carico nuovissimo—scrive il generale Corsi—odioso oltre ogni dire» e colle misure odiosissime per arrestare i renitenti. Il militarismo allora col martirio del sordo-muto Cappello, coi fatti crudeli di Petralia ad opera del tenente Dupuy mostrò di che cosa poteva esser capace.[29] Tutte le libertà, scrissi altra volta, furono violate replicatamente; ond’era generale il chiedersi: il nuovo governo non vale l’antico?
A questo periodo precisamente si riferisce, e da tali avvenimenti e giudizî insani fu provocato, il celebre discorso pronunziato da Filippo Cordova nella Camera dei Deputati il 9 dicembre 1893. L’illustre statista siciliano allora non solo ricacciò in gola ai calunniatori dell’isola le loro sciocche insolenze, ma a coloro che ne facevano malgoverno indicò tutto un programma da seguire, i mali da rimuovere e il bene da promuovere.
Egli tra le approvazioni insolite della sinistra disse: «Io credo che un governo, allorquando riceve un paese non dalla conquista, ma dalle mani della rivoluzione debba domandare a sè stesso per quali bisogni questa rivoluzione si è fatta, che cosa voleva il popolo che si è sollevato e pensare in tutti i modi a soddisfare questi bisogni. Questo era il solo modo di ristabilire l’ordine, il solo modo di contentare completamente le popolazioni.»
«.... L’azione di un governo può essere promotrice della prosperità futura dei popoli e riparatrice degli abusi che si sono introdotti per il passato;.... e considero azione riparatrice quella che consiste nel rimuovere i tristi effetti delle passate legislazioni, dei monopoli, dei privilegi, nel distruggere gli abusi, che ancora possono esistervi.» E[121] l’opera del governo doveva esplicarsi, secondo l’on. Cordova colla riforma del regime delle acque, colla pubblica istruzione, colle bonifiche, colla abolizione delle decime[30], colle nuove comunicazioni, colla sistemazione dei demanî comunali, colla trasformazione delle opere pie[31]....
«Questo programma era modestissimo, non ledeva i diritti giuritarii di privati, eppure non seppe accennare ad adottarlo il governo, il quale invece, secondo lo stesso on. Cordova, crede di potere reggersi colla violenza, cingendo di cordoni militari le città, privandole dell’acqua, vietando l’uso libero dei diritti dei cittadini, assicurando sempre l’impunità ai carabinieri che commettevano reati: impunità che produceva reazioni.» Queste le testuali parole del Cordova ex ministro e moderato di quattro cotte...
A questo stato di cose non poteva apportare rimedio il cosidetto Piemontismo in forza del quale fra l’altro si mandarono in Sicilia gli scarti della burocrazia, e vi si mandarono in punizione. Ne nacquero antipatie, liti, duelli, scene disgustose, che contribuirono a generare la sanguinosa insurrezione di Palermo nel 1866 che chiuse un primo periodo della dolorosa storia del governo Italiano in Sicilia.
E che c’era da aspettarsi qualche avvenimento doloroso come quello del 1866 lo fece comprendere chiaramente in una celebre discussione parlamentare un altro uomo eminente, che aveva studiato e conosciuto la Sicilia da magistrato. Alludo all’on. Tajani che nella seduta della Camera dei deputati degli 11 giugno 1875 constatava che dal 1860 al 1866 il governo fu ora fiacco, ora violento; che corresse la fiacchezza colla violenza, per ritornare sempre alla violenza; che si offese la Sicilia adoperandovi i modi peggiori e negandole sempre la giustizia;[123] e che ciò che le fu dato, se si guarda a ciò che le fu negato assume le proporzioni dell’ironia.»[32]
Dal 1866 in poi qualche miglioramento ci fu; ma non grande. E grande non poteva essere se si pensa che ai mali esistenti la sapienza governativa, pensò di provvedere, per esempio, colla prefettura militare del Generale Medici, quando alla mafia privata si aggiunse la mafia più potente ai servizî del Prefetto-generale.
E questo nefastissimo periodo dev’essere illustrato perchè lo si è dimenticato con troppa facilità: e dev’essere ricordato perchè facendo conoscere quali tristi conseguenze lasciò il militarismo nel 1866 e negli anni successivi, farà intravedere quali li lascerà nel 1894.
Si osservi anzitutto «che dopo la rivolta del 1866 vi fu un diluvio di disposizioni cozzanti fra loro.... e che vennero i tribunali militari, i quali fecero sterminato numero di processi e quando la posizione era compromessa, e che la giustizia dei tribunali civili doveva riuscire difficilissima, se non impossibile, si annullarono ad un tratto i tribunali militari, ed i tribunali civili rimasero imbarazzati e così ne rimase esautorata la giustizia militare e la giustizia civile.» (Taiani)[33].
Ciò che rese celebre e caratteristico questo periodo furono la organizzazione della polizia, la sua opera e i criterî adottati dal generale Medici e dal suo alter ego il questore Albanese per il ristabilimento dell’ordine e della giustizia.
«Il processo contro Ciotti Sebastiano, graduato delle guardie di Pubblica sicurezza, applicato al gabinetto del Questore e presso il quale si sequestrarono molti oggetti rubati; le gesta di un delegato di pubblica sicurezza che in un mandamento impianta la mafia, si unisce e si lega in relazioni amichevoli con noti ladri e li manda a rubare per suo conto e che si ripete in un altro mandamento guadagnandosi la promozione; le prodezze della guardia nazionale suburbana di Monreale composta tutta di mafiosi, colla complicità o col permesso dei quali si commettevano tutti i misfatti del mandamento, tanto da autorizzare un Magistrato a dire: qui si ruba, si uccide, si grassa in nome del reale governo:[34] l’alternativa posta da un questore di Palermo ad un notissimo facinoroso di entrare nel corpo delle guardie di pubblica sicurezza o di partire pel domicilio coatto—alternativa alla quale il mafioso cercò sottrarsi tentando di pugnalare il questore; il processo contro il questore Albanese e compagni, accusati[125] di omicidii, di falsità, di corruzione, di truffa, di soppressione dolosa di documenti; le pressioni indecenti esercitate dal generale Medici e dal governo di Roma, per ottenere l’assoluzione di questi alti delinquenti, e che determinarono le dimissioni dal Procuratore generale Taiani e raggiunsero il deplorevole intento, dicono di più che molti volumi, sulla stima e sul rispetto e sulla fiducia che potevano ispirare i rappresentanti del governo, che i mali antichi economici lasciava intatti aggravando quelli politici e morali.»
Siffatta polizia e siffatte autorità governative impotenti a reprimere il malandrinaggio e la mafia, della propria inettitudine e malvagità si rifacevano inventando di sana pianta processi politici, che sembrerebbero calunnie e diffamazioni ventilate dai sobillatori—non ancora inventati—se non fossero stati denunziati dal magistrato che li sgonfiò e liquidò, in pubblica seduta della Camera dei Deputati!
Ahimè! Il 1894 non vide più un magistrato che ricordasse i Lelli, i Borgnini, i Tajani....
Con siffatti uomini e con siffatti metodi e criterî di governo si arrivò in Sicilia al 1875 nelle condizioni descritte da questo brano sintetico e chiaro: Noi abbiamo colà: le leggi ordinarie derise, le istituzioni un’ironia, la corruzione dappertutto, il favore la regola, la giustizia l’eccezione, il delitto intronizzato nel luogo della pubblica tutela, i rei fatti giudici, i giudici fatti rei ed una corte di mali interessati fatti arbitri della libertà, dell’onore, della vita dei cittadini. Dio immortale!
«Che cosa è mai questo se non il caos? Che cosa[126] è mai questo se non il peggiore dei mali: la anarchia di governo, innanzi alla quale cento briganti di più, e cento crimini di più sono un nonnulla e si scolorano?» (Tajani. Discorso alla Camera dei deputati del 12 giugno 1875).
Queste condizioni furono il prodotto di quindici anni di malgoverno della destra; e la destra, quantunque ancora non fossero inventati i sobillatori e i Fasci, vedendosi impotente a rimediare collo Statuto che aveva violato, e colle leggi ordinarie che non aveva mai applicate e rispettate, domandò provvedimenti e leggi eccezionali.
Siamo giusti, però; la destra li domandò a chi aveva le apparenze del diritto a concederle: al Parlamento. Inchiniamoci riverenti innanzi a questo partito che sta per cadere, che conserva ancora del pudore e che mantiene un minimum di rispettabilità! Indarno li cercheremo nella sinistra, che sta per arrivare....
La sinistra! Cos’era il gran partito della riparazione? «una confederazione di condottieri stretti al patto di rovesciare comunque la destra e toglierle di mano il reggimento, salvo poi d’intendersi (od anche di non intendersi) non tanto per concordare il da farsi—che questo pareva a tutti ovvio a comporre, facile a praticare; perocchè, ei dicevano, bisognasse fare tutto il contrario di quello che aveva operato la destra!—ma per ripartirsi gli uffici e.... via... anche un poco i benefici» (Zini p. 24).
E per fare il contrario di ciò che la destra aveva fatto, la sinistra inaugurò in Sicilia il proprio regime applicando le leggi e i provvedimenti eccezionali che[127] aveva negato sdegnosamente alla prima in Parlamento. Li applica nel 1876 l’on. Nicotera—suoi strumenti il Prefetto Malusardi e l’ispettore Lucchese, destinato dalla sorte a brillare nell’isola—e se ne vanta alla Camera (tornata del 29 novembre 1876). Eppure all’inizio dell’opera del gran partito siamo ancora ben lontani dalla perfezione nell’applicazione di provvedimenti eccezionali raggiunta da chi crede di essere la quintessenza della democrazia parlamentare: l’on. Crispi!
Fu grande, perciò in Sicilia, la delusione provata coll’arrivo al potere della sinistra, dalla quale si sperava un radicale mutamento d’indirizzo e la riparazione di tante ingiustizie e dalla quale nulla si ottenne. Sotto un certo aspetto, anzi, ci fu un peggioramento, poichè i deputati dell’isola che in maggioranza erano di sinistra, colla cosidetta rivoluzione parlamentare del 18 Marzo 1876 ebbero le grazie e i favori del potere a benefizio delle clientele e delle consorterie locali che dichiaravano di aderire al proprio partito. Il governo così servì a ribadire nei Comuni, nelle Provincie, nelle opere pie la oppressione antica a beneficio dei grandi elettori e delle classi dirigenti; a danno dei vinti e delle classi lavoratrici.
Di che riporta molti esempî lo Zini, uno dei pochi prefetti che insieme al Rasponi, al Gerra e a pochi altri, vennero in Sicilia con rette intenzioni e fa onore al Nicotera l’avervelo mandato, quanto gli fa torto l’averlo costretto a dimettersi per non avere voluto seguire una condotta biecamente partigiana.
I deputati, d’allora in poi più che pel passato, tutto sacrificarono al criterio elettorale, e i ministri[128] al criterio parlamentare; gli uni per avere la maggioranza nel collegio chiesero ciò che spesso era disonesto o dannoso, e gli altri per conservarsela nella Camera concessero. Così furono approvati mutui disastrosi, concessioni e favori scandalosi, strade private costruite col denaro pubblico, approvati i bilanci irragionevoli e rinviati e mutilati quelli che contenevansi entro gli stretti limiti del necessario, sciolti i Consigli dei Comuni meglio amministrati anche quando le ispezioni, ordinate partigianamente e seviziosamente eseguite, tali li dimostravano; e mantenuti in piedi quelli violatori di tutte le leggi, odiati dai comunisti. Concesse le licenze per porto d’armi—specialmente nei momenti di elezioni: informino le campagne di Palermo—ai facinorosi, cui potevano servire solo a malfare e negate ai cittadini onesti che ne avevano bisogno a difesa personale, ma che avevano la disgrazia di militare in un partito opposto.
Così infine prefetti, delegati e pur troppo anche i magistrati furono messi a disposizione dei deputati ministeriali e questi nei rispettivi collegi divennero tanti proconsoli in cinquantesimo!
Questi mali preesistevano al ministero del Giolitti: questi li acuì in modo superlativo raggiungendo, però, un risultato insperato e insperabile per altri titoli: una fedeltà a tutta prova dei rappresentanti dell’isola, che coprivano e legittimavamo ogni loro voto di fiducia in nome della sacrosanta ricostituzione dei partiti e della risurrezione della sinistra, fatta da uomini che erano stati i promotori e i campioni del trasformismo!
L’insieme di questi fatti, proprî della destra e[129] della sinistra sotto la dinastia Sabauda—e le considerazioni che suggeriscono—non mi permettono di consentire col Baer, che all’opera deleteria del regime borbonico contrappose quella «di una dinastia leale e conscia dei proprî doveri, sotto la quale la Sicilia ha veduto raffermate ed estese le franchigie politiche, che tanto le erano a cuore; il che ha dato al governo una forza ed una autorità morale che invano potevano sperare i Borboni. E con questa autorità lo Stato ha potuto senza contrasti crearsi nuove risorse finanziarie, stabilendo le tasse di registro, il monopolio dei tabacchi, cosa che non avrebbe mai osato il governo precedente. E si è fino estesa alla Sicilia la leva pel servizio militare.» Ora in tutta questa apologia smaccata, che si estende, con evidente contraddizione dell’egregio scrittore, al censimento dei beni della manomorta ecclesiastica, non c’è di vero che questo: il governo italiano colla forza brutale e non coll’autorità morale, ha saputo imporre alla Sicilia la leva, i balzelli nuovi e la distruzione di alcune industrie. E precisamente per questo in basso, ed oramai anche in alto, si fanno paragoni tra il governo borbonico e il governo italiano, i quali non riescono sempre lusinghieri pel secondo.
Se il governo italiano mancò alla sua funzione rigeneratrice nella parte vera politica e nella economica, non si mostrò d’altra parte migliore nella amministrativa e nei suoi rapporti coi Comuni, colle Provincie, colle opere pie.
Se si pon mente ai maggiori poteri che la legge comunale e provinciale del 1865 accordava ai Prefetti[130] nello esercizio della tutela si riconoscerà che la responsabilità del governo fu immensa nella cattiva amministrazione dei corpi locali, nello sperpero del pubblico denaro, nello sfacciato favoritismo verso gli amici ed a danno degli avversarî del partito dominante, negli imbrogli elettorali multiformi, nella iniqua ripartizione delle imposte, nella oppressione dei vinti e dei lavoratori. E questa grande responsabilità del governo, specialmente sotto l’aspetto tributario, a proposito di ciò che avvenne nei comuni di Santa Margherita, di Campobello di Licata, venne esplicitamente assodata dal Cavalieri, ch’è uomo di governo, da Sonnino e Franchetti, da Bonfadini per altri casi e per altri luoghi a centinaia. Si deve aggiungere, anzi, che per la tolleranza o connivenza del governo, i gravi inconvenienti e la cattiva amministrazione, come ne’ comuni e nelle provincie, si ripeterono nelle Congregazioni di Carità e in altre opere pie, coi posti gratuiti nei convitti, cogli impieghi dati ai favoriti o addirittura creati per essi, e financo col pagamento camorristico delle donne che allevano i trovatelli e che sono qualche volta le drude degli amici degli amministratori locali.
In quanto ai tributi, ad onore del vero, si dica che talvolta il governo ebbe il pensiero di fare rispettare la legge, ma solo quando la osservanza della medesima era odiosamente farisaica. Così più volte furono minacciati alcuni municipî (Caltagirone, Castrogiovanni, ecc.) della risoluzione del contratto di appalto col governo pel dazio di consumo, perchè non tutte le voci tassabili erano tassate e sopratutto perchè non si esigeva il dazio sulla farina e sul pane! Ed a questi municipî, per tale grave[131] colpa, non si consentì di eccedere sul limite legale della sovrimposta fondiaria.
Quando gl’ingenui domandano: ma le autorità governative non vedevano, non riferivano, non provvedevano? si può rispondere: Sì! esse ci stavano e ci stanno per vedere, per riferire e per provvedere, ma non nel senso della giustizia e dell’interesse del popolo, sebbene nell’interesse del deputato, del candidato, del grande elettore, della persona influente; e in nome di tale interesse si nominano e si destituiscono i sindaci, si sciolgono i Consigli comunali, si manipolano le liste, si mutilano, si respingono o si approvano i bilanci, si traslocano i delegati di P. S., i Prefetti e i magistrati.[35]
È superfluo aggiungere che quella tale incompleta riforma della legge comunale e provinciale fatta votare dall’on. Crispi non riuscì a mutare in meglio le cose; e non lo poteva. Spesso anzi le peggiorò per l’aggravante della scemata responsabilità delle autorità governative, mentre continuò l’esercizio della loro perniciosa influenza; poichè in realtà nella Giunta Amministrativa—che dovrebbe essere la suprema moderatrice delle amministrazioni locali—il Prefetto prepondera sempre, e prepondera poi in particolar modo cospirando e intrigando per fare eleggere a membri delle medesime uomini quasi sempre inetti, e sempre servili, partigiani.
Perciò dal 1889 in poi continuarono le vecchie iniquità nella natura e nella distribuzione delle imposte, continuarono le spese pazze e le cortigianerie degradanti, crebbero le imposte e i debiti, che si risolvono in imposte rimandate coll’aggiunta degli interessi e delle provvigioni ai mediatori; e il governo continuò a non vedere nelle amministrazioni dei corpi locali che agenzie elettorali organizzate, e sempre pronte ai suoi cenni!
Una magra soddisfazione alle vittime di un tale stato di cose rimane: il sapere che ne fu fatta la constatazione da inchieste private ed ufficiali in termini su per giù identici da anni ed anni. La fece Ferdinando II nel 1838, la ripeterono nel 1875 da[133] privati gli on. Sonnino, Franchetti e Cavalieri e in forma ufficiale la Giunta Parlamentare di cui fu relatore l’on. Bonfadini; fu riprodotta dall’onor. Damiani nel volume dell’Inchiesta agraria; fu riassunta da me nel 1885 nello scritto sulla Delinquenza della Sicilia e le sue cause; e tante Inchieste e tanti rapporti sono stati fatti che in dicembre scorso, nel periodo più acuto delle turbolenze il compianto on. Cuccia in nome di un comitato composto dei più fidi amici dell’on. Crispi malinconicamente conchiudeva: «Più inchieste sono state fatte, cento relazioni dai corpi più conservatori sono state mandate, mille rapporti sono stati scritti da tutti i funzionarî che si sono succeduti in Sicilia. E tutti, unanimi, hanno presentito i fatti d’oggi e quelli di domani, e tutti hanno fatto proposte, hanno reclamato provvedimenti, che sono restati lettera morta, come se il governo fosse l’ente più misoneico della società....»
Di tante inchieste, di tante relazioni, di tanti rapporti rimangono giudizî e descrizioni di una esattezza meravigliosa, che sembrano scritti all’indomani dei tumulti per giustificare i tumultuanti; giudizî e descrizioni che costituiscono ad un tempo le pietre miliari della constatazione delle miserie del proletariato siciliano e la condanna più severa della criminosa noncuranza degli uomini di governo di ieri e di oggi. Di tali giudizî e di tali descrizioni bisogna riprodurne alcuni, che datano da momenti diversi e vengono da persone avverse ad ogni idea di socialismo, le quali hanno la missione ufficiale d’interpreti della pubblica opinione e di tutelatori dell’ordine pubblico.
L’on. Sonnino venti anni or sono scriveva:[134]
«Quel che trovammo nel 1860, dura tuttora. La Sicilia lasciata a sè troverebbe il rimedio: stanno a dimostrarlo molti fatti particolari e ce ne assicurano l’intelligenza e l’energia della sua popolazione, e l’immensa ricchezza delle sue risorse. Una trasformazione sociale accadrebbe necessariamente, sia col prudente concorso della classe agiata, sia per effetto di una violenta rivoluzione. Ma noi, italiani delle altre provincie, impediamo che tutto ciò avvenga, abbiamo legalizzato l’oppressione esistente; ed assicuriamo l’impunità all’oppressore.»
«Nelle società moderne ogni tirannia della legalità è contenuta dal timore di una reazione all’infuori delle vie legali. Orbene, in Sicilia, colle nostre istituzioni, modellate spesso sopra un formalismo liberale anzichè informate ad un vero spirito di libertà, noi abbiamo fornito un mezzo alla classe opprimente per meglio rivestire di forme legali l’oppressione di fatto che già prima esisteva, coll’accaparrarsi tutti i poteri mediante l’uso e l’abuso della forza, che tutta era ed è in mano sua; ed ora le prestiamo mano forte per assicurarla che, a qualunque eccesso spinga la sua oppressione, noi non permetteremo alcuna specie di reazione illegale, mentre di reazione legale non ve ne può essere, poichè la legalità l’ha in mano la classe che domina.»
Queste parole dell’attuale ministro del tesoro gli devono essere continuamente ricordate, perchè riassumono in modo mirabile l’azione sociale esercitata dal governo italiano in Sicilia; azione veramente perniciosa! Tenterà egli di cancellarla ora che è al potere?
Ciò che fu scritto nel 1875 da chi ora è ministro[135] del Regno d’Italia è perfettamente adatto a dare una idea delle condizioni odierne dell’isola coll’aggravamento delle varie crisi—enologica, agrumaria, mineraria ecc.
E per chi sa leggere e comprendere troverà la conferma del serio giudizio nella inchiesta fatta da Adolfo Rossi per conto del giornale La Tribuna[36].
Proprio alla vigilia dei tumulti nel novembre scorso, da Palermo in un rapporto ufficiale si scriveva al governo di Roma che aveva occhi per non vedere e orecchie per non sentire: «Qui i nostri frugali lavoratori soffrono la fame, non hanno desiderî disordinati, non bramano la fortuna altrui, non sentono l’odio di classe[37], ma vogliono lavoro e pane, solamente per vivere; chè d’altro ad essi non cale.»
«Chi voglia far credere che questi operai abbiano degli ideali politici non dice la verità e s’inganna. Ma questi ideali potranno entrare nella loro mente, avvivati dagli effetti morbosi del digiuno; ed allora, guai se fuori l’ordine vedranno gli ultimi segni della loro speranza, chè in quel caso neppure le repressioni sanguinose varranno ad arrestare la china del loro incosciente furore».
«Il Governo che vuole sempre il suo dai dazi di[136] consumo, non ha avuto mai cura di temperare le esigenze dei Comuni, i quali imitando altri esempî di spreco, anche per sollecitudini non necessarie, nè proprie, i loro mezzi domandano al consumo delle più umili ed universali derrate e tanto ne traggono, da renderle o difficili o impossibili a quelli che unicamente se ne sostentano con una frugalità, che fa ammirazione e paura.»
«In alcuni Comuni di questa circoscrizione, dal pane che la rivoluzione aveva redento dalla grave ed odiata tassa del macinato, si traggono quasi dieci centesimi il chilogramma, e questa tassa, che dà milioni, neppur provvede ai bisogni della popolare igiene, ma si distrae in godimenti voluttuarî ai quali le classi lavoratrici non prendono parte.»
È questo forse un brano dell’auto-difesa dell’on. De Felice? No: è il brano di un rapporto, che, richiesto da Roma, mandò il Presidente della Camera di Commercio di Palermo, on. Amato-Pojero, senatore del Regno, milionario e grande proprietario di Sicilia!
Se questo si scriveva alla vigilia dei tumulti, quando essi scoppiarono e n’erano meglio note le cause, altri aggiungeva:
«Tolte le grandi città, ove la moralità e la capacità degli amministratori sono men basse, e dove il maggiore sviluppo psichico della popolazione e la stampa sono freni alle oligarchie locali e favoriscono la permeabilità degli strati sociali, il 90% dei Comuni è amministrato con criteri e forme tali, che fanno desiderare il tipo dell’antico governo paterno, perchè allora si aveva almeno il diritto d’inchiodar sulla gogna i tirannelli locali,[137] il conforto e la speranza di un avvenire migliore e, di tanto in tanto, l’intervento violento, ma pur sempre riparatore, del governo centrale»..... I tirannelli locali ora «sentono e sanno che i funzionari del governo non hanno nè convenienza nè interesse a secondarli, ed allora con la logica spiccia e primitiva di cui si servono, concludono: Chi non è con noi, è contro di noi; e attaccano con sotterfugi, ricorsi, cospirazioni e anonimi tutti i funzionari governativi, dalla guardia di pubblica sicurezza al Prefetto. Della legge e della legalità hanno un concetto esclusivamente unilaterale; le riconoscono e vi fanno ricorso solo in quanto sanzionano il loro potere; per tutto il resto o non esistono o le si possono violare impunemente. Per sostenersi e per combattere gli avversarî si profondono favori, impieghi, esenzioni da tasse e protezioni d’ogni specie e d’ogni portata agli aderenti, e si fa l’opposto con gli avversari. Si transige con facinorosi e con violenti, ai quali è serbato sempre un impiego sul bilancio comunale, protezione illimitata fino al Tribunale; e però appena un partito sale al palazzo comunale fa tabula rasa di tutti gli stipendiati e li sostituisce coi propri fidi. Per gli avversari invece s’imprende una persecuzione continua, evidente, spesso sfacciata e feroce, fino al delitto, fino all’omicidio. E si pretende che i funzionari del governo seguano questo indirizzo. Per gli amici il permesso d’armi, il proscioglimento dall’ammonizione, l’impunità nel delitto: pei nemici il rifiuto costante di tutto quanto è devoluto alla Autorità amministrativa, la denunzia per l’ammonizione e perfino l’accusa dei reati[138] che invece sono stati commessi dagli aderenti degli stessi denunzianti. Il delegato, il pretore, il sottoprefetto non seguono questo indirizzo? Ed allora spuntano le testimonianze ad usum delphini a discolpa del reo amico, a carico per l’avversario innocente; pullulano ricorsi anonimi che dipingono il funzionario coi più foschi colori: secondo il bisogno e l’opportunità egli è stupido o maligno, ignorante o corrotto, prepotente o partigiano, venale o servile, e chi più ne ha, più ne metta...»
«Nei comuni certo è che vi dominano l’incompetenza più goffa e la prepotenza più sfacciata, che per contraccolpo vi producono la paura, la sofferenza, i rancori sordi delle masse, il disgusto e l’astensione dei buoni: fatto quest’ultimo che rende più sicura e sfrenata la prepotenza delle cricche imperanti.»
Si crederà forse che questa filippica faccia parte di una concitata concione di Garibaldi Bosco? Niente affatto: fu scritta dall’Alongi, capo di gabinetto del famigerato questore Lucchese, per combattere i Fasci nel Manuale della Pubblica sicurezza del chiarissimo consigliere di Stato Commendatore Astengo.
Certo era facile ingannarsi o esagerare; era facile manifestare simpatia pei sofferenti prima e durante i tumulti; ma dopo? Ebbene, dopo, si constata:
1) Che le condizioni dell’oggi non sono la conseguenza di fenomeni del tutto recenti; ma hanno la loro origine in un complesso di fatti e di tradizioni e di avvenimenti che rimontano ad epoche non vicine.
2) Che sono ormai la bellezza di diciotto anni che[139] un’inchiesta parlamentare constatò inutilmente lo stato vero dei contadini in Sicilia.
3) Che il contadino siciliano, è perseverante, sobrio, laborioso, ma nello stesso tempo lo si è tenuto in un stato di semibarbarie.
4) Che il contadino siciliano anche dopo conquistata la libertà e la redenzione, rimase nella condizione di servo ed oppresso e la posizione sua verso il padrone è quella di vassallo a feudatario.
5) Che gli enormi latifondi, l’accentramento di vastissimi terreni in mano di pochi e le oligarchie comunali che non sempre s’inspirano a giustizia, e sovra tutto i contratti agricoli aggravano questo stato di cose.
6) Che è opera altamente meritoria cercare in tutti i modi di mettere le classi agricole in condizione di resistere alle prepotenze dei padroni.
Queste si crederebbero opinioni calunniose dell’anarchico Gulì e invece sono le convinzioni del Comm. Sighele, Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo, manifestate nella inaugurazione dell’anno giuridico 1894.
Un’ultima testimonianza: Il 4 gennaio 1894 contemporaneamente alla proclamazione dello stato di assedio, e quasi a severa condanna dell’insana misura, vi fu chi disse in Palermo sotto gli occhi del Generale Morra di Lavriano e della Montà: «In questo nostro paese eminentemente agricolo, la classe dei contadini in particolare, difetta dei mezzi più necessarî alla vita; è la classe più bistrattata, la meno compassionata, la più misera, la più ignorante e la più degna quindi di speciale considerazione da parte degli uomini di cuore!»
Oh no! Non è Nicola Barbato, l’uomo dalla logica[140] spietata, che così parla; ma è il procuratore Generale presso la Corte di Cassazione di Palermo, Giuseppe Malato Fardella, che col primo non ha di comune che la sua qualità di Siciliano, e che dà ragione dello insorgere dei contadini, e somministra l’ultima prova di questa dolorosa verità: in Sicilia dal 1812 in poi nulla è mutato in quanto alle condizioni economico-sociali della classe dei lavoratori!
E allora?....
[29] Alcuni, non hanno bene compreso l’accenno fatto nella 1ª edizione al sordo-muto Cappello e al tenente Dupuy. Sono due dolorosi episodi della introduzione della leva in Sicilia, la quale suscitava la più viva antipatia. Le autorità governative vedevano inganni e finzioni in tutti e dappertutto; perciò quando in Palermo si presentò all’esame di leva un certo Cappello non si prestò fede al suo reale sordo-mutismo e lo si voleva costringere a parlare applicandogli i bottoni di fuoco sulle carni. Il suo corpo fu reso una vasta piaga e quando finalmente fu mandato via venne fotografato ignudo ad iniziativa di parecchi—tra i quali era l’avv. Morvillo—che vollero stigmatizzare i metodi civilizzatori del governo italiano.
Per arrestare i numerosi renitenti della leva il governo organizzò delle colonne volanti che percorrevano le campagne. Le gesta militaresche di quell’epoca susciterebbero anche ora, a tanta distanza, la indignazione dei più calmi; e molte ne compì la colonna comandata da un rinnegato, dall’ungherese colonnello Eberhardt, che venne la prima volta in Sicilia con Garibaldi e che fu tra i suoi fucilatori ad Aspromonte. Un tenente Dupuy, Savojardo, comandando una colonna nel territorio delle Petralie si presentò di notte coi suoi uomini in una casina i cui abitatori temendo dei briganti non vollero aprire. Allora il prode militare la circondò di fascine, vi appiccò fuoco e fece morire soffocati i disgraziati, che legittimamente resistettero ai suoi ordini. Con modi uguali i Francesi civilizzarono quelli della Kabilia!
[30] A proposito delle decime suscitando l’ilarità della Camera l’oratore osservò: «Nella provincia di Girgenti, a cui si attribuiscono tanti reati, le terre sono in gran parte soggette ancora alle decime e in virtù di queste decime vi sono dei canonici, dei semplici canonici i quali percepiscono dei redditi da 10 a 12 mila lire; e sapete voi da che questi ecclesiastici fanno scaturire i loro titoli di possesso?
«Da un passo di Cicerone il quale dice nelle Verrine: Omnis ager siculus decumanus est! Perchè adunque per l’addietro queste terre pagavano le decime a Roma, i canonici si credono eredi dei Cesari e si costituiscono proprietari di quelle prestazioni.» Or bene chi lo crederebbe? La quistione delle decime, che è grave anche in altri punti della Sicilia, nell’anno 1894 non è ancora risoluta e invano si sforza l’on. Gallo per farla risolvere equamente!»
[31] L’on. Cordova ricordò che in un Comune delle provincie meridionali la locale Congregazione di Carità impiegò le rendite di cinque opere pie destinate a messe, processioni ecc. nella fondazione di ospedali, ecc. In Sicilia non ostante la vantata legge Crispi sulle opere pie moltissimi comuni hanno molte messe e molte processioni e mancano di ospedali, e di ricoveri, di asili, ecc. In tale disgraziata condizione si trova Castrogiovanni, ad esempio. Ivi Municipio e Congregazione di carità sono di accordo per la fondazione di un ospedale invertendo le rendite di alcune opere pie, che servono a pochi individui; ma indarno lottano da alcuni anni, perchè la pedante e farisaica burocrazia la dà vinta agli interessi di pochi contro gli interessi di tutti e contro l’umanità. La burocrazia ha stabilito questo circolo vizioso edificante: non si può elevare ad ente morale l’ospedale perchè non ha rendite; non si possono assegnare all’ospedale le rendite delle opere pie perchè non è elevato ad ente morale!
Ciò mentre governa Crispi.....
[32] Nelle discussioni sulla Sicilia del 1863 e del 1875 i suoi deputati di sinistra parlarono come parlò tutta la estrema sinistra nel 1894. Ma la verità sulle condizioni dell’isola sino al 1866 risulta alla evidenza, quando il giudizio di un ex ministro di destra, il Cordova, collima perfettamente con quello di un ex ministro di sinistra, il Taiani.
[33] Ho consultato su questo periodo le discussioni parlamentari, la requisitoria del procuratore generale presso la Corte di Palermo (Taiani) contro il questore Albanese e Compagni (10 ottobre 1871) nonchè diversi opuscoli, compresi alcuni in difesa dell’Albanese.
[34] Lo Biundo comandante di questa eccellente guardia nazionale disse un giorno al pretore Barraco:
Pretore, quando sentite che si tira qualche schioppettata non dovete allarmarvi, chè ciò avviene pel pubblico servizio!....
[35] In quanto a scioglimenti di Consigli voglio citare, fra tante centinaia a mia disposizione, un casetto tipico: il municipio di Riesi venuto in mano dei radicali colle elezioni generali del 1889 fu sempre inviso ai Prefetti di Caltanissetta (uno dei quali mi confessò che il municipio gli era inviso solo perchè in mano di radicali) che mandarono ispettori, che nulla mai trovarono d’irregolare. Il ministro Giolitti finalmente sciolse arbitrariamente il consiglio. Si vuol sapere chi vi mandò come Regio Commissario? Un ricco signore della stessa città, ch’era uno dei capi del partito avverso ai radicali!
In quanto al pretesto dello scioglimento fu presto trovato: s’imbastì contro il sindaco un processo per un reato comune. Il sindaco ad evitare lo scioglimento si dimise; ma non giovò. Raggiunto l’intento il processo sfumò per inesistenza di reato.
In quanto ai capricciosi mutamenti delle autorità governative per compiacenza verso i deputati o per interessi elettorali del governo ricorderò la provincia di Caltanissetta dove c’è stata una vera ridda di Prefetti: dal 1886 in poi ce ne sono stati una decina tra titolari e reggenti. Molti vi sono mandati in esperimento, come se quella provincia si potesse prestare a farla da corpus vile.
Non riferisco le osservazioni del Comandini nel Corriere della Sera e del Giornale di Sicilia che erano riportate nella 1ª edizione, perchè gl’inconvenienti deplorati oramai sono ammessi da tutti: anche da coloro che ne sono gli autori!
[36] Nella prima edizione riprodussi varî brani delle corrispondenze del Rossi, che nonostante le inesattezze e le esagerazioni, rimangono tra le più belle e le più veritiere. Non le riproduco in questa 2ª Ed. perchè i lettori, che volessero conoscere i Fasci in azione, devono leggerle tutte nel volume pubblicato or ora del Max Kantorowix: L’agitazione in Sicilia di A. Rossi. Milano 1894. Presso Remo Sandron L. 1,50.
[37] È evidente che qui lo scrittore s’inganna.
Ciò che doveva avvenire in Sicilia un giorno o l’altro era facile prevederlo a chi ne conosceva le condizioni, a chi viveva in mezzo al proletariato, a chi specialmente non giudicava dagli orpelli e dagli artifici delle grandi città, ma dalla vita che si vive nei piccoli centri, nelle campagne, nelle miniere. Chi poteva prevedere aveva il dovere di avvertire; e molti, come si è visto, tra gli studiosi di cose sociali, tra gli uomini politici e tra i magistrati, ottemperarono a tale dovere.
Sin dal 1863 il Cordova nel citato discorso a proposito della trascuranza criminosa del governo nelle quistioni demaniali, narrò questo episodio che vale a spiegare Caltavuturo: «Due onorevoli persone venute in Torino per sollecitare uno di questi affari, non avendo trovato quelle facilità con cui (bisogna rendere questa giustizia all’amministrazione napoletana) erano accolti in questo genere i reclami delle popolazioni, queste due onorevoli persone scoraggiate, presentatesi a me mi dissero: e adunque, signore, bisogna aspettare l’altra[142]? L’altra, diss’io, che cosa è?» Risposero: «L’altra rivoluzione!»
E Cordova che non conosceva Fasci e sobillatori, nel 1863 soggiunse: «Signori, quando le popolazioni non si trovano soddisfatte di un ordine di cose, resta sempre un germe di movimenti, che possono produrre gravi pericoli!»
Uno storico eminente ed uomo politico a un tempo, il generale Marselli, risguardando l’insieme delle condizioni del continente meridionale e dell’isola, formulò il presagio in questi termini precisi: «se la sordida noncuranza di certi proprietari lascerà in pari tempo aumentarsi l’odio già condensato e feroce dei contadini, trattati come bestie, non è improbabile che un furioso uragano si scateni dalla bassa Italia sul resto della penisola e che l’insurrezione delle classi inferiori, schiave dell’avarizia e della prepotenza baronale, ritrovi un più astuto Masaniello od uno Spartaco più fortunato.»
Qui l’avvertimento per quanto tassativo è generico. Per la Sicilia in ispecie, e in vista dei possibili eventi che poscia si verificarono, si affermò ripetutamente—senza che chi doveva abbia smentito—che l’illustre generale Corsi, comandante il 12º corpo di armata, abbia mandato un preciso e allarmante rapporto al governo nello scorso anno sulle condizioni dell’isola denunziando gli imminenti pericoli[38].
Certo è che l’on. Crispi, nella relazione al Re, la quale precede il decreto sullo stato di assedio, volge la grave accusa al suo predecessore on. Giolitti, di avere saputo dalle competenti autorità dei gravi avvenimenti che si preparavano in Sicilia e di non aver provveduto. Dell’accusa l’ex Presidente del Consiglio non si giustificò mai e lasciò passare tutta la lunga discussione parlamentare sulle cose di Sicilia in un mutismo inesplicabile.
Chi scrive, come siciliano, come pubblicista e come deputato, aveva più che altri il dovere di avvertire che dolorosi avvenimenti si preparavano nel suo paese natio; ed a tale dovere non venne meno.[39]
Nel 1892 nell’Isola (N. 144) avvertii genericamente la gravità delle condizioni dei municipii e le possibili dolorose conseguenze, come si può rilevare da questo brano: «I governanti e i politicanti italiani preoccupati sinora quasi esclusivamente delle Finanze dello Stato hanno troppo trascurato la misera condizione economica delle amministrazioni comunali e provinciali; dimentichi che il dissesto dei comuni e delle provincie e il carico tributario imposto dai corpi locali gravita maggiormente sui contribuenti, perchè più direttamente e palpabilmente sentito; perchè rappresenta la goccia che fa traboccare il liquido dal vaso[144]!
«Che sia così, se altro non ci fosse, lo proverebbe il fatto, che le maggiori odiosità le raccolgono i municipî, che meno dovrebbero raccoglierne, poichè le spese e le tasse, che fan capo ad essi, alla fine, mirano alla soddisfazione dei bisogni locali più urgenti e sono sorgente di benefizî incalcolabili. Gl’incendi dei registri, delle case comunali pur troppo sono frequenti in Italia; e i casi dolorosissimi—per citare i più noti—di Calatabiano e di San Luri sono il prodotto del malcontento profondo e generale contro i municipî.»
Fui più preciso, quasi matematico, il giorno 30 Gennaio 1893 nello svolgimento della interpellanza sull’eccidio di Caltavuturo. Allora un doloroso presagio di ciò che fatalmente si maturava mi fece esclamare: «Io non so se la Sicilia potrà ripresentare il fenomeno di una guerra servile; so però che l’odio dei contadini contro i cosidetti galantuomini è vivissimo; dovunque esiste il latifondo quest’odio è profondo. In Sicilia il pericolo delle ribellioni agrarie è permanente e, se non provvederemo, dovremo assistere a qualche risveglio veramente doloroso!» (Atti parlamentari. Tornata del 30 Gennajo 1893 p. 992).
Non basta. In giugno dello stesso anno mi pervennero notizie allarmantissime e quando tutti coloro, che dovevano conoscere la situazione tacevano, io—spintovi anche da due cari amici socialisti—scrissi una lettera al direttore della Tribuna, ch’era un vero grido di allarme e che venne reso più significante dai commenti dell’on. A. Luzzatto. In quella lettera, tra le altre, scrissi queste parole che gli ultimi fatti hanno sinistramente illustrato:[145]
«In Sicilia i segni precursori di qualche esplosione di carattere sociale non sono rari. Vi sono scioperi di contadini e di zolfatari; vi sono sommosse, vi sono lamenti generali e proteste contro uno stato di cose, che si giudica intollerabile; vi sono reati caratteristici e simili a quelli agrarî d’Irlanda; vi è, infine, un sordo rumore, che si leva, da per tutto rinforzato dalla voce irata o lamentevole dei fanciulli e delle donne, che fa mestamente pensare quanti hanno orecchie per sentirlo e cuore per comprenderlo. E in verità alle cause, per così dire naturali e molteplici del disagio—che tanto più si avverte in quanto che segue ad un periodo a rapido svolgimento di prosperità—si aggiunge la soma insopportabile dei balzelli governativi, provinciali e comunali.»
È bene notare, che i due socialisti, che mi consigliarono a dire una parola di calma ai lavoratori e a dare un avvertimento al governo, messosi sulla via della più dissennata provocazione, furono l’avvocato Gaetano Rao di Canicattì—arrestato appena venne proclamato lo stato di assedio come promotore di disordini, rilasciato dopo alcuni mesi di prigionia, poscia ricercato di nuovo ed ora latitante—e Garibaldi Bosco. E non è inutile aggiungere che l’onor. De Felice quando conobbe il contenuto di quella lettera, voleva firmarla, associandosi a me.
Ebbene: dopo tanti avvertimenti precisi sulle cause di probabili dolorosi avvenimenti, e sulla possibilità di vederli svolgere a breve scadenza, che cosa fece il governo? Nulla.
Quali opportuni e savi provvedimenti preventivi escogitò?[146]
Questo solo: l’invio della flotta dinanzi a Palermo, che mai aveva dato segni di volere tumultuare. L’on. Giolitti poi non fu superato, che dall’on. Crispi, il quale come provvedimento curativo non seppe proporre ed attuare che lo Stato di assedio.
La significazione e la gravità degli avvertimenti non furono tenute in conto a tempo debito, onde accadde quello che è a tutti noto e di cui dovrò continuare ad occuparmi.
Questi stessi avvenimenti di Sicilia costituiscono pel resto d’Italia un ammonimento grande, e su di essi così scrive un onesto ed avveduto senatore del regno:
«Il grido venuto sul continente da qualche luogo della Sicilia, se grido del popolo che insorge contro le ingiustizie, io l’amo, come scrive il Burcke, perchè segnale d’incendio, che ci salva dalle fiamme, ed io voglio per l’immensa maggioranza, ravvisarlo tale; ed in questo caso sarà da dire della Sicilia, che dopo di essere stato un primo fattore della unità della Patria ne abbia col grido di allarme forse scongiurato lo sfasciamento.»[40]
Andrà dispersa al vento anche questa savia parola ammonitrice?....
[38] Nel libro Sicilia scrisse:
«Ma i Prefetti, e più specialmente quelli di Palermo, Girgenti, Catania, continuavano a chiamare l’attenzione del Governo su quel minaccioso e sempre crescente sconvolgimento delle plebi campagnuole; e lo stesso è da credere che facesse dal canto suo il Comandante generale militare dell’Isola.»
[39] Non per vanità, ma in risposta a chi in difesa dell’on. Giolitti stoltamente mi accusò di non avere parlato in tempo; e per la parte modesta presa da me negli ultimi avvenimenti; e per giustificare la severità dei miei giudizî contro il governo, ho creduto mio diritto e mio dovere d’insistere su ciò che ho detto intorno alle cose di Sicilia.
[40] C. Faraldo, senatore, già prefetto: Alcuni riflessi ecc., Torino 1894 p. 17.
La storia ed una lunga serie di avvenimenti avevano creato in Sicilia la situazione scabrosa, che mi sono sforzato di descrivere senza passione e senza partito preso, affidandomi sempre all’autorità altrui non sospetta, nei punti dove facilmente avrei potuto vedere e giudicare male per ragioni di parte. Il rapido peggioramento economico, il malcontento generale per cause complesse e il moto dei Fasci,—che da queste cause aveva ricevuto impulso e che alla sua volta lo dava alle masse—fecero arrivare le cose al momento critico, in cui gli uomini avrebbero dovuto mostrarsi pari alle circostanze.
Caltavuturo avrebbe dovuto agire come un vero segnale di allarme di un osservatorio sociale, più utilmente e tanto sicuramente quanto un osservatorio che avverta una città dell’imminente pericolo della inondazione. Il succedersi delle agitazioni e delle dimostrazioni, che dopo Caltavuturo, divenivano più frequenti, più unanimi e più imponenti, con un prodigioso crescendo, avrebbe dovuto scuotere[148] gl’inerti, risvegliare i dormienti: era il tempo di agire e pel governo e per le classi dirigenti.
Due vie, due metodi, si presentavano all’uno e alle altre; ed al governo maggiormente correva l’obbligo di scegliere la via da battere, il metodo da seguire nella soluzione del poderoso problema, perchè sua era la responsabilità immediata e diretta di ciò che si andava maturando.
Il governo poteva mostrarsi energico, e ricorrere alla prevenzione nel senso strettamente poliziesco e che confina o si confonde sempre colla reazione; poteva, invece, mostrarsi forte nel fare rispettare le leggi, ma rispettando esso stesso tutte le pubbliche libertà; affidandosi in pari tempo all’alta prevenzione sociale; mostrando almeno! la decisa intenzione di affidarvisi. Questa specie di dilemma, sebbene nella forma non così strettamente antinomico, lo pose pure il generale Corsi, che al governo lasciava la scelta tra queste due soluzioni: «o decretare senza indugio lo scioglimento dei Fasci, come società pericolose per l’ordine pubblico; oppure, se ciò non pareva legale o conveniente, per motivi d’alta o bassa politica, infrenarli, segnar bene l’orbita al loro moto, i limiti entro cui potevano dibattersi, procurare, se possibile, di mettervi le mani dentro, farsene istrumento ed arme, cattivarsi la plebe, prendendo a sostenerne la causa. Un campo immenso tra quei due estremi.» (Sicilia p. 335).
La scelta tra i due metodi non poteva esser dubbia per quanti vogliono che dalla storia si traggano ammaestramenti; e dalla storia si sa, che un secolo di reazione e di violenza non ha risolto il problema irlandese; ma colla forza però, come lo ha mostrato[149] l’on. Crispi, si può ottenere il ristabilimento dell’ordine materiale lasciando immutato il problema stesso, allontanandone la soluzione, e perciò stesso aggravandolo.
Or bene, pare impossibile, ma è pur vero che il ministero dell’on. Giolitti—col quale nacque o si accentuò il moto dei Fasci e si fece strada il sentimento di riscossa delle classi agricole—«o non seppe o non volle veder chiaro nel buio, insomma non vide o non curò; e il Parlamento, nonostante che la Sicilia vi fosse rappresentata alla stregua delle altre parti d’Italia, il Parlamento credette bene di occuparsi d’altro.» (Corsi)
L’inazione era pericolosa e dannosa; ma il governo dell’on. Giolitti seppe scegliere un metodo peggiore della inazione; e senza saper essere energicamente reazionario, senza mostrarsi socialmente provvido, seppe soltanto assicurare all’opera sua tutti i danni che venivano dalla reazione, ma con una fiacchezza che incoraggiava tutti ad osare e con tanto poco rispetto delle leggi e delle pubbliche libertà, con tanta fiducia in una polizia inetta, arrogante e guidata da criteri borbonici, che riuscì a provocare, ad eccitare, a stimolare le masse, a cementare così organismi fiacchi, che abbandonati a loro stessi, si sarebbero squagliati, disciolti, colla stessa rapidità colla quale erano venuti su.
Chiarisco questo giudizio. La storia dei sodalizî operai di tutti i paesi insegna che ad essi sono necessarie la solidarietà tra i soci e la perseveranza nel perseguire i fini propostisi, illuminate entrambe se non interamente derivate, da una certa coltura. Mancando l’una prevalgono le utilità individuali[150] immediate, promosse spesso da coloro che sono interessati a farle penetrare come un cuneo nella compagine delle minacciose associazioni; mancando l’altra ai primi passi dati con entusiasmo segue lo scoraggiamento e la sfiducia per la mancanza di sensibili risultati immediati. Perciò alla iscrizione a migliaia dei soci e alle prime numerosissime riunioni succede il fenomeno non bello dei morosi, che si rifiutano a pagare le quote di contributo, lasciando grandi quadri sulla carta senza un reale corrispondente numero di soci attivi.
In Sicilia nelle masse mancavano lo spirito di solidarietà—scarso in tutta Italia per ragioni storiche, bene svolte in parecchie pubblicazioni dall’ex-deputato Cagnola—la perseveranza e la coltura, anche rudimentale che l’una e l’altra sostiene e svolge.[41]
Dato questo ambiente tra i lavoratori era prevedibile a breve scadenza la morte per anemia dei Fasci; e i prodromi in quelli delle città erano evidenti ed incalzanti. Invece mantenevansi sani e vigorosi quelli delle campagne, non solo per virtù dei promotori (e specialmente di Barbato e di Verro), ma perchè i loro primi sforzi quasi dappertutto erano stati coronati dal successo: agli scioperi e ad una specie di boicotaggio verso i proprietarî delle terre erano seguiti miglioramenti nei salarî e nei contratti agrari.[151]
L’opera dell’on. Giolitti contribuì sopratutto a mantenere uniti i Fasci, perchè li sovraeccitò, e il sovraeccitamento, aiutato anche da un certo sentimento regionale, che rendeva antipatico chi ha tutti i difetti del forte Piemonte, senza possederne i pregi numerosi, fece le veci della solidarietà e della perseveranza; ma era evidente che se questo eccitamento anormale, la cui azione rassomigliava a quell’improvviso vigore e senso di benessere che viene da una iniezione di etere o di caffeina, fosse venuto a cessare, quelli sarebbero morti di marasmo e se fosse continuato e si fosse inasprito sarebbe stata possibile una violenta levata di scudi.
Conscio di questi due pericoli, a Messina prima, in una visita al Fascio—dove ebbi consenzienti Petrina e Noè—e poscia a Marsala in un pubblico discorso col plauso consenziente dei convenuti e di molti che sono stati poscia condannati iniquamente come promotori di disordini (tra i quali il Montalto) avvertii i pericoli, che minacciavano il moto dei Fasci, il quale paragonai ad un pendolo che, oscillando corresse pericolo di infrangersi, ad un estremo, in uno scoglio su cui stesse scritto: rivolta e all’altro, in un altro su cui stesse scritto: dissoluzione, e caldamente raccomandai a coloro che guidavano il moto di sapere scongiurare tali due opposti pericoli. E nel senso su esposto dissi che l’on. Giolitti erasi reso benemerito colla sua azione delle nascenti associazioni dei lavoratori; la qual cosa a un suo paladino—l’on. Nasi—parve un paradosso o una contraddizione mia, perchè già avevo accusato il Giolitti quale loro persecutore e provocatore.
Dopo Caltavuturo sarebbe stato sapienza vera di[152] governo provvedere ai bisogni delle classi agricole siciliane; dopo il mese di giugno e più ancora dopo il mese di settembre, quando nell’aria si sentiva qualche cosa di minaccioso, la più elementare prudenza imponeva con urgenza l’adozione di opportuni provvedimenti. Che cosa fece l’on. Giolitti? Si abbandonò con vece alterna ad una mussulmana inazione e alla provocazione; e nell’una e nell’altra si sentiva sempre «che per natura, per abitudine e per necessità derivanti dal parlamentarismo, il governo propendeva per l’una più che per l’altra delle due potenze in lotta, per quella cioè che ha maggior peso in Parlamento ch’è quella dei galantuomini.» (Corsi.)
La stessa propensione, anzi più accentuata, ha sinora mostrato l’on. Crispi.
La provocazione, denunziata ripetutamente, ha bisogno di essere dimostrata: l’accusa è grave e la dimostrazione è facile.
Non rifarò la cronaca dettagliata della provocazione come si trova nella prima edizione di questo libro: riassumerò i suoi fasti di un anno e mi fermerò su pochi fatti che ebbero particolare importanza e suscitarono maggiore rumore eccitando gli animi degli uni, destando la paura, la diffidenza e l’ardente desiderio della rivincita in altri.
Diamo una data certa allo inizio della provocazione, sebbene si potrebbe risalire più in alto: cominciamo il triste periodo dalla strage di Caltavuturo.
A Caltavuturo, piccolo paese agricolo della provincia di Palermo, la miseria era ed è grande. Vi sono nel paese beni patrimoniali del Comune[153] ed un demanio comunale, che gli amministratori danno in affitto.
Il popolo pensava e diceva che in questi affitti avvengono disoneste partigianerie; pensava e diceva che gli amministratori della cosa pubblica e i maggiorenti usurpavano impunemente le terre del popolo; onde non men grande della miseria era il malumore contro l’amministrazione comunale e i maggiorenti.
Ci furono inchieste e processi e se le accuse risultarono esagerate, non furono però dimostrate infondate. Ne convenne l’on. Giolitti rispondendo il 30 gennaio alla mia interpellanza.
Il popolo esasperato decise di rendersi da sè quella giustizia invano chiesta e da tempo attesa, e il 20 Gennaio va nelle terre demaniali, come a festa, per prenderne possesso e zapparle. E zappano la terra, senza sapere se potranno seminarla e molto meno se potranno raccogliere il prodotto dopo averla bagnata coi propri sudori, e tornano sereni e contenti al paese colla intenzione di andare a zappare altra tenuta del Comune all’estremo opposto; ma giunti nella piazza vicino al Municipio trovano la via sbarrata da soldati, carabinieri e guardie campestri: in tutto una ventina di uomini di fronte ad oltre mille contadini armati di zappe. Non intimazioni, non squilli di tromba, nulla che possa dar parvenza di legalità alla condotta della forza pubblica, la quale, chiamata a fare le vendette degli usurpatori, minacciati dal popolo che voleva rivendicare i propri diritti,—i diritti della collettività—fece una scarica micidiale lasciando sul terreno contadini morti e feriti, mentre non un solo tra gl’iniqui aggressori[154] venne ferito o contuso; ed erano 20 gli aggressori contro 1000 aggrediti! Ciò stia a prova delle intenzioni dei poveri contadini...
L’on. Giolitti, Ministro dell’interno e Presidente del Consiglio, da me e da altri interpellato, riconobbe la gravità del fatto del 20 Gennaio; promise che i colpevoli sarebbero stati puniti, disse che un processo era stato iniziato, che giustizia sarebbe stata fatta!
Giammai ministro dinanzi ad un Parlamento pronunziò tante menzogne e con tanto cinismo. Se ne giudichi: Non fu sottoposto a processo, nè destituito chi ordinò il fuoco senza alcun bisogno; chi l’ordinò senza farlo precedere dagli squilli di tromba; non fu iniziato processo contro chi vilmente tirò un colpo di revolver al contadino Moscarella, che, già ferito! erasi rannicchiato dietro una porta; non si processarono gli usurpatori del demanio comunale. No! Si arrestarono e si processarono, invece, alcuni disgraziati lavoratori della terra, che ebbero la fortuna di sfuggire al massacro. E meno male che furono assolti.
A Caltavuturo non c’era Fascio, ma una semplice cooperativa di consumo invisa ai galantuomini perchè utile ai contadini: nè c’era mai stata l’ombra della propaganda socialista. Sorse il Fascio all’indomani della strage come reazione contro il governo e contro i suoi complici locali.
L’anno 1893 cominciò colla strage di Caltavuturo—auspicii tristissimi!—e la eco di tanta iniquità si ripercosse in tutte le valli della Sicilia, destando il risentimento e il desiderio della vendetta tra gli oppressi contadini. Il sangue versato forse feconderà[155] la terra meglio che non l’abbia fecondato sinora il sudore dei suoi lavoratori!
Pareva che non potesse darsi maggiore provocazione di questa da parte del governo italiano contro le popolazioni dell’isola; e tuttavia Caltavuturo non fu che il principio di una serie di provocazioni, ora piccole, ora grandi; ora sanguinose, ora incruente; le quali continuarono con un crescendo spaventevole.
A Caltavuturo dopo breve tempo segue Serradifalco, dove la causa dei fatti dolorosi è diversa, ma riesce ugualmente a mettere in evidenza il disprezzo delle leggi nel governo e nelle classi dirigenti. I popolani—come sempre—ci vanno di mezzo.
In Marzo—giorno 6—ha luogo la votazione di ballottaggio a Serradifalco, preceduta da brogli, da pressioni, da vergogne inaudite da parte dei funzionarii del governo, che volevano imporre, e riuscirono ad imporre, un candidato prediletto all’on. Giolitti, il Riolo. Il popolo protesta contro le sfacciate adulterazioni della volontà elettorale e chiede che venga rispettata la legge. Grande reato in verità! I rappresentanti della legge puniscono questi curiosi delinquenti ferendoli o uccidendoli. E gli uccisori rimangono in libertà, ad assicurare una elezione che disonora la Giunta che la convalidò, mentre i popolani vengono arrestati e processati in numero di ventitrè. Meno male che il Tribunale di Caltanissetta dopo tre mesi fece una parziale giustizia rimandandone assolti una ventina. Lo stesso Tribunale, con altre sentenze, che ricordo a suo onore, bollò per quello che erano alcuni delegati di Pubblica Sicurezza per abusi relativi alla stessa elezione[156] commessi in altre sezioni del collegio. Serradifalco rimase ad ammonire in Sicilia gl’ingenui i quali credono ancora che nelle elezioni possa passare liberamente e onestamente la volontà del paese.
A Catenanuova la miseria è più spaventevole che altrove nella provincia di Catania: gli abitanti sono quasi tutti proletarî agricoli, che si dibattono tra le strette del latifondo privato (del principe di Satriano) e del latifondo pubblico (l’ex feudo Buzzone di proprietà del demanio). La fame sinistra si fa sentire ed i poveri contadini si riuniscono in Fascio colla fiducia di ottenere qualche cosa colle vie legali. Rispettosi della proprietà privata nulla chiedono al Principe di Satriano; qualchecosa, cui credono di avere diritto, domandano al governo e per mezzo dell’on. De Felice e mio, esprimono l’onesto desiderio di vedere censito a piccoli lotti l’ex feudo Buzzone. De Felice ed io ci rivolgiamo ripetutamente all’on. Rosano e al ministro di agricoltura e commercio, che promettono di studiare la proposta. Trasmettiamo la poco incoraggiante risposta, ma che non cancella le speranze, e nell’attesa i lavoratori credono lecito di commemorare G. Garibaldi. La forza se ne immischia e spara e ferisce, arresta e maltratta i popolani.
Ad Alcamo in agosto la popolazione protesta con una pacifica dimostrazione contro i dazî comunali. C’era un Fascio, ma diretto da persona intelligente—il farmacista Fazio. Il Fascio prevede che su di esso, malvisto com’era dalle autorità, si sarebbe riversata la responsabilità di quanto poteva avvenire; protesta anticipatamente con una pubblica dichiarazione, che alla dimostrazione non avrebbe partecipato. E non vi partecipa; ma non per questo l’esito[157] è meno tragico, perchè interviene la forza, spara ed ammazza.
Ad Alcamo, come a Catenanuova, come a Serradifalco, come a Caltavuturo chi spara ferisce ed uccide non viene punito. Quale maggiore provocazione? Potevasi più efficacemente agire per togliere ogni fiducia nel governo e nei suoi rappresentanti?
A Casale Floresta (prov. di Messina) non c’è Fascio; ma le condizioni generali sono orribili; non c’è medico, non farmacista, non levatrice, non mezzi di viabilità. Pure da quattro anni si paga il focatico perchè si sopperisca a tanti bisogni e non si riesce che a costruire una strada interna nel quartiere dei galantuomini e a pagare L. 500 all’anno ad un medico di un vicino paese, che dovrebbe visitare il paese due volte la settimana, e che adempie al suo dovere assai più raramente. Il 22 ottobre, a causa di nuove tasse comunali, i contadini si ribellano chiedendo la revisione dei conti passati e lo sgravio di una nuova tassa. Disarmano alcuni dei carabinieri sopraggiunti e li costringono a rinchiudersi nella caserma perchè il loro furore non ha limiti dopo il ferimento—forse accidentale—di un popolano. Nominano sul campo un nuovo sindaco. L’indomani arrivano soldati e si fanno oltre trenta arresti, seguiti da relativo processo e da lunga detenzione dei poveri contadini.
Milocca e Racalmuto nella cronaca della provocazione occupano un posto assai importante per l’indole dei fatti che vi si svolsero, in parte alla mia presenza, e pel suggello che ebbero dalla magistratura: suggello che elimina il sospetto di partigiana ed interessata esagerazione. A Milocca, a[158] Sutera, ad Acquaviva, a Campofranco, zona esclusivamente agricola della provincia di Caltanissetta, i contadini si erano riuniti in Fasci. Le autorità e i maggiorenti fecero di tutto per farli sciogliere: più volte ne violarono il domicilio, ne minacciarono i membri, ne arrestarono i capi coi pretesti più futili; li processarono e nei processi furon assolti o per inesistenza di reato o per mancanza di prove.
I contadini tennero duro, specialmente a Milocca dove colla loro unione costrinsero quasi tutti i proprietarî a concedere più equi contratti agrarî. I proprietarî toccati nell’interesse se la legarono al dito e si proposero di riprendere con mezzi scellerati ciò ch’erano stati costretti a concedere colle vie legali—coll’applicazione più schietta della famosa libertà del contratto.
Un brutto giorno dell’ottobre si va a denunziare al brigadiere dei carabinieri un curioso reato: un mucchio di concime, il cui valore non arrivava alle L. 20, di proprietà di un certo Cipolla, era stato sparso nelle sue stesse terre. Si premetta che il Cipolla era stato tra i pochi proprietarî di terre a Milocca—viveva altrove—che non era venuto a patti coi contadini del Fascio; chi poteva, dunque, commettere quel grave reato per vendicarsi del proprietario renitente?
Il Fascio! In forza di questa strana logica le autorità procedono all’arresto del Cannella, Presidente e di tutto il Consiglio direttivo del sodalizio e li sottomettono a processo per associazione a delinquere... E si parla misteriosamente di liste di proscrizione rinvenute presso i socî del Fascio, di[159] pugnali, di formule terribili di giuramento, di preparate spartizioni di terre....
Le donne di quell’ameno villaggio, le quali non sono meno gagliarde degli uomini, indignate di quella che a loro sembrava infame prepotenza, insorgono in numero di 500, assaltano la caserma dei carabinieri, ne sfondano le porte e liberano i cinque arrestati della vigilia. Non un solo uomo si unì alle donne; e di fronte a questo esercito infuriato, ma inerme, i carabinieri non ebbero cuore di far fuoco e perciò non si deplorarono morti o feriti. Delle intenzioni delle donne, che non si seppero rassegnare a vedere arrestati ingiustamente i mariti e i figli se ne ha la prova in questa circostanza: ebbre di gioia per la liberazione dei prigionieri, s’impadronirono delle armi dei carabinieri, non per adoperarle, ma per condurle in trionfo; e in trionfo condussero sulle loro braccia, baciandolo in volto, un carabiniere che si era mostrato più umano e pietoso verso di loro.
Quando il De Rosa, degno strumento di qualsiasi governo ferocemente reazionario, seppe in Caltanissetta della terribile rivolta femminile, mandò sul luogo truppa, carabinieri, delegati e giudici. Si sparge in un baleno la notizia della imminente repressione: gli uomini a cavallo e armati di fucili prendono il largo decisi a vendere cara la loro libertà. Le autorità arrestano a casaccio sette uomini e trentadue donne, che traducono ammanettate—alcune gestanti, altre coi loro bimbi lattanti sulle braccia!—nelle carceri di Mussomeli.
Il Cannella, Presidente del Fascio, intelligente ed energico quanto mai, vide tutta la desolazione dello[160] abbandono delle case e tutto il pericolo di tanti uomini armati e risoluti, che avevano preso la campagna e conscio com’era della loro innocenza li consigliò a ridursi nel villaggio. Non fu ascoltato, perchè gli altri contadini volevano la promessa di qualcuno il quale avesse potuto difenderli all’occorrenza, che non sarebbero stati arrestati rientrando pacificamente nelle rispettive abitazioni. Pensarono che quella persona potevo essere io onde il Cannella accompagnato da altri tre venne in Castrogiovanni ad invitarmi perchè andassi a Milocca. Accettai e insieme al sig. E. Fontanazza, al signor Castiglione e al sig. Garofalo, Presidenti dei Fasci di Castrogiovanni, di Grotte e di Siculiana, riuscii ad indurre i contadini, che a schiere si presentarono a me lungo la via da Grotte al villaggio, a rientrare nelle loro case e persuasi anche i liberati del giorno innanzi a costituirsi alle carceri. L’opera mia e dei miei amici e del Presidente del Fascio di Milocca fu da veri uomini di ordine, che mostravano fede nella magistratura; e ad onor del vero devo confessare, che in questa occasione essa meritò la fiducia.
Eravamo al 1º Novembre, giorno dei Morti, che si rispetta dai contadini e dagli zolfatari coll’astensione dal lavoro e ripartimmo nel meriggio da Milocca per Grotte per riprendere il treno, che doveva restituirci alle nostre case. I contadini di Milocca in massa, con l’avv. Vella presidente del Fascio di Racalmuto, ci accompagnano sino a mezza strada; dove per fare più presto ed arrivare in tempo a non mancare il treno si mutò itinerario ed invece che a Grotte c’indirizzammo a Racalmuto. Qualcuno[161] per iscorciatoie scabrose, ci precorse ed avvisò la cittadinanza del nostro imminente arrivo; una imponente dimostrazione fu improvvisata che ci venne incontro preceduta del rosso gonfalone e dalla fanfara del Fascio, e, percorso tranquillamente il paese per lungo e per largo, ci accompagnò alla stazione. Non un grido sovversivo fu emesso, non il menomo disordine fu deplorato, come poscia unanimemente deposero innanzi al Tribunale di Girgenti gl’impiegati ferroviarî e parecchi altri cittadini nè radicali nè socialisti; eppure nel momento in cui arriva il treno e ci scambiavamo affettuose strette di mano, senza intimazione, senza avvisi, senza il benchè menomo pretesto, un carabiniere ed un maresciallo si scagliano all’improvviso sul portabandiera e gli strappano il gonfalone. Il popolo sbalordito e indeciso per un istante, reagisce, riprende lo stendardo ch’è fatto in mille pezzi, mentre i carabinieri impugnano le rivoltelle e sono trattenuti dal tirare da molte braccia di nerboruti lavoratori.
Il maresciallo mira su di me replicatamente e mi costringe a gettarmi nella mischia per legittima difesa e per contribuire a disarmare quei due forsennati. Riusciamo nell’intento e si restituiscono le rivoltelle al carabiniere e al maresciallo entro la stanza del capo stazione dopo avere ottenuto promessa formale che non le avrebbero più adoperate; raccomando calorosamente ai lavoratori di sciogliersi e di evitare ogni possibile pretesto a nuovi abusi della forza, e ripartiamo.
Perchè si comprenda quanta sia stata la capricciosa brutalità dei due carabinieri che mostrarono[162] un coraggio grandissimo, malamente speso, devo aggiungere che il gonfalone rosso non solo era stato portato liberamente per le strade in quella occasione e in cento altre in tutta la provincia, ma che poche ore dopo un’altra dimostrazione ci venne incontro a Canicattì, preceduta dal gonfalone rosso del Fascio alla presenza dei carabinieri e del delegato di pubblica sicurezza, senza che le autorità avessero fatto la benchè menoma osservazione.
Ciò che avvenne in Racalmuto la notte successiva—proprio durante la notte!—per opera del delegato—che si era vilmente ecclissato durante il tafferuglio—e dei carabinieri, ricorda i fasti peggiori della polizia austriaca e borbonica. Ma non è mio intendimento narrarli quali elementi comprovanti la provocazione; questa in tutta la sua brutalità risulta dal seguente dato: per un mucchio di concime non rubato, ma sparso nelle terre del padrone si arrestano cinque cittadini sotto l’accusa di associazione a delinquere; questo arresto determina la sollevazione delle donne di Milocca seguita dall’arresto di altri 39 individui, tra i quali 32 donne, coi loro bambini; e quest’altro fatto alla sua volta genera il tafferuglio di Racalmuto che dette luogo ad un’altra quarantina di arresti. Si vuol sapere ciò che c’era di vero nel reato primitivo, che costò la prigione da quattro ad otto mesi ad ottanta cittadini del regno? Il tribunale di Caltanissetta—che va lodato per parecchie oneste sentenze emesse anche durante lo stato di assedio, tra le quali quella cui mi riferisco qui—mandò assolti i malfattori perchè il Pubblico ministero all’udienza e in seguito alle risultanze del processo orale ritirò l’accusa per inesistenza[163] di reato. E lo stesso brigadiere dei carabinieri confessò che lo spargimento del concime fu denunziato dai proprietarî, senza che fosse avvenuto, nello intendimento di nuocere ai capi del Fascio e di sbarazzarsene facendoli arrestare! Non si ha ragione, dunque, di esclamare che questa prodezza degli agenti del Prefetto De Rosa costituisce la più enorme e imprudente provocazione?
Io che a Milocca mi ero informato della verità con una rapida inchiesta, interrogando il delegato del sindaco di Sutera—cui è aggregato Milocca—il brigadiere dei carabinieri e il luogotenente che comandava il distaccamento di fanteria, indignato scrissi e telegrafai in quella occasione alla Tribuna, che l’on. Giolitti in Sicilia faceva più male della banda maurina.
A Gibellina pigliando pretesto da una pacifica dimostrazione, il delegato entrò violentemente nella società agricola, e ne scacciò i soci, arrestandone alcuni; furono strappate violentemente le bandiere e furono sparati diversi colpi in aria dai carabinieri. L’intromissione di alcuni influenti cittadini del luogo e dell’avv. Scaminaci di Santa Margherita evitò scene di sangue, che, date le provocazioni e le violenze della forza pubblica, sembravano imminenti; il delegato ebbe salva la vita per uno stratagemma dello Scaminaci, il quale—sempre in punizione dell’opera pacificatrice—dopo qualche giorno, allo arrivo della forza, venne arrestato, ammanettato, tradotto nelle carceri di Trapani, processato e condannato. Si noti: oltre lo Scaminaci, ben quarantotto persone furono arrestate e processate dietro una calunniosa denunzia del funzionante da Sindaco; ma vennero[164] tutte assolte dal Tribunale e la condotta del denunziatore venne severamente stigmatizzata dal Regio Procuratore. A Gibellina non c’era Fascio dei Lavoratori: ma si costituì subito come reazione contro la condotta dell’autorità di pubblica sicurezza e vi s’inscrissero tutti gli uomini validi. Ivi erano vivissime le gare amministrative. I fatti di novembre lasciarono una profonda agitazione ch’ebbe più tardi un sanguinoso epilogo.
Le provocazioni e i fatti analoghi furono a centinaia ed ebbero sempre risultati identici. Dal gennaio 1893 al gennajo 1894 le dimostrazioni pacifiche, gli scioperi legali si seguono e si ripetono in ogni angolo dell’isola e si alternano e provocano violenze e abusi della polizia; e non di rado queste violenze e questi abusi precedono e provocano le dimostrazioni, che in molti punti si ripetono e si alternano con quelle provocate dall’esorbitare dei dazî comunali. L’esercizio dei diritti consentiti dallo Statuto parve tramutato in un tranello teso alla buona fede dei cittadini che finiva sempre colla violazione di tutte le leggi da parte delle autorità. Gli arbitrî e le violenze sono di ogni genere e vengono perpetrati nei momenti acuti e in quelli di calma col proposito deliberato di scompaginare e dissolvere quelle forze popolari che per la prima volta si erano seriamente organizzate in Sicilia, col fine di conseguire il proprio miglioramento economico.
E la polizia strappa le bandiere, abbatte porte e finestre per violare il domicilio dei Fasci e dei singoli soci, li arresta, li processa, li ammonisce, li manda a domicilio coatto. Questa stessa polizia—forte delle sue pessime tradizioni, della impunità[165] ed anche degli incoraggiamenti dei poteri superiori—sin dal primo accenno al moto sociale dei Fasci mostrò aperta la intenzione di avversarlo in tutti i modi. Esplicazione generale di questa intenzione furono innumerevoli ed arbitrarie perquisizioni domiciliari, inviti altrettanto arbitrarî a cittadini egregi di portarsi in questura o negli uffici della pubblica sicurezza per sentire consigli non richiesti e intemerate villane; contravvenzioni continuate, legali forse, perchè la reazionaria legge di pubblica sicurezza somministra il pretesto per renderle sempre angariche ed odiose; ritiri capricciosi di licenze di minuta vendita; partigiane denegazioni del permesso di portare armi, anche a chi per proprio ufficio non può farne a meno; richieste insistenti e tentativi per avere gli elenchi dei soci dei Fasci, per intraprendere il minuto lavorio di disgregamento mercè le lusinghe, le promesse, le minacce, tra le quali quella efficacissima e terribile dell’ammonizione.[42]
I risultati di questi procedimenti sono dappertutto uguali e di doppio ordine: da un lato la gagliarda fibra isolana, reagisce, come sempre, e rende simpatici i Fasci anche a coloro che primitivamente li avversavano, li fa moltiplicare e consolidare; dall’altro le notizie di tante prodezze poliziesche si sparge dappertutto e distrugge l’ultimo avanzo di fiducia che si aveva nelle autorità, infondendo in tutti la convinzione che era vano sperare giustizia da coloro ch’erano preposti a renderla[43].
E quando la magistratura rendeva i suoi verdetti questi non servivano che a rinforzare l’abborrimento contro il governo, le cui male arti erano state bollate dalle autorità competenti. Furono infatti numerose le assoluzioni in particolare presso i tribunali penali di Caltanissetta, di Girgenti, di Trapani, di Palermo ecc., nei tanti processi capricciosamente promossi dalla polizia (Milocca, Acquaviva, Gibellina,[167] Siculiana, Piana dei Greci ecc. ecc.), tanto che il Generale Corsi malinconicamente osserva:
«Col Codice penale alla mano (?), le autorità politiche facevano arrestare gl’istigatori allo sciopero o i colpevoli delle violenze che avvenivano; ma in base allo stesso Codice ed a criterî, come dicono, o ragioni di giustizia od altre, che non istarò ad esaminare, i Tribunali ne mandavano la maggior parte colla piena assoluzione o colla dichiarazione del non farsi luogo a procedere. E questi se ne tornavano al loro paese a ridere in faccia a chi si era preso l’incomodo di arrestarli.» (Sicilia, p. 334).
Chiunque conosce un po’ da vicino la nostra magistratura sa che se una colpa grave le si può rimproverare è la soverchia deferenza, se non voglia chiamarsi abbietto servilismo, verso le autorità politiche; se essa assolveva, adunque, è segno certo che il diritto era palesamente dal lato dei cittadini e che non era possibile salvare i rappresentanti del governo dal biasimo, che su loro ricadeva da quelle sentenze assolutorie.
L’opera nefasta del governo centrale e dei suoi rappresentanti locali venne compiuta ed aggravata dalle classi dirigenti. «I possidenti—dice il generale Corsi—stettero duri al loro interesse e lo vollero intatto nella loro pienezza, come lo intendono loro, cioè col maggiore possibile profitto per essi, conservando ciò che è, respingendo le novazioni... I possidenti e gli affittatori avevano visto avvicinarsi la procella, ne avevano presentito gli effetti. In quelle situazioni in cui si trovavano per consuetudine antica di fronte ai lavoratori, più[168] che sorpresi o stupiti, n’erano stati impauriti o irritati...» Un accordo avrebbe potuto e dovuto tentarsi; «ma le difficoltà da una parte e dall’altra avevano troppo profonde radici: lo stacco era troppo grande e durava da tempi immemorabili; e da un lato vi era odio, dall’altro paura. I signori dunque credettero del loro interesse e della loro dignità di non dipartirsi dallo antico costume, divenuto connaturale in loro: stettero fermi o si ritrassero o fecero appena un piccolo passo avanti secondo i luoghi, secondo gli umori, e, direttamente o per mezzo dei loro accoliti, accesero la stampa, assediarono i Prefetti, gridando minacciato gravissimamente l’ordine pubblico, peggiorate enormemente le condizioni della pubblica sicurezza, dando per flagrante tutto il male possibile, e chiedendo, come l’affamato il pane, carabinieri e soldati. A conto fatto, non sarebbe bastato tutto l’esercito italiano—nel periodo della forza minima—per rassicurarli tutti. Molti municipî erano a capo di questa che dobbiamo dire reazione, quelli, s’intende, nei quali prevalevano i proprietarî.» (Sicilia, p. 328, 331, 332).
In qualche punto questi accordi desiderati e invocati sono tentati e specialmente per opera dei comandanti dei distaccamenti di truppa; e se si vuol sapere con quanta sincerità ed onestà erano condotte le trattative si può apprenderlo dallo stesso generale Corsi, a cui un Comandante fa una lunga narrazione di tali accordi tentati e condotti a buon punto in un paese e conchiude così: «La situazione lasciava quindi sperare la tranquillità la più assoluta ed il ristabilimento della calma negli animi[169] di tutti, quando ieri sera... alle 11 giunge al Vice ispettore un espresso da... coll’ingiunzione di procedere all’arresto di cinque fra i capi del Fascio, compreso il Presidente.» (p. 340).
Non continuo nella riproduzione delle relazioni di quel Comandante ch’è un osservatore diligente, nè commento il fatto, perchè esso è di una eloquenza irresistibile; avverto solo che i fatti consimili sono innumerevoli; le trattative quasi sempre non hanno che uno scopo: scongiurare una dimostrazione in attesa di rinforzi e arrivati questi si procede all’arresto di coloro ai quali si strinse la mano con effusione e si promisero concessioni eque, ragionevoli.
Questo non è tutto. È grande la colpa delle classi dirigenti per la loro fanatica resistenza alle riforme e alle concessioni, per l’ostinata persistenza nell’antica usura, pel disprezzo verso i lavoratori e verso le idee nuove, per lo stolto proponimento di farsi arma in certi luoghi degli uni e delle altre—che presero a favoreggiare inopinatamente e more Rabagas—onde sfogarsi contro i nemici ch’erano al potere; e per tutto questo non esito a dire che la responsabilità loro non è minore di quella del governo.
Esse, in generale—che non mancarono le nobili e lodevoli eccezioni—furono fortunate dell’indirizzo preso dal governo; ed angariarono, denunziarono, derisero i Fasci e i loro socî. In qualche punto si organizzò un vero boicotaggio alla rovescia; non si dette lavoro o lo si retribuì di meno, ai soci de’ Fasci. Fecero di peggio: misero in circolazione, specialmente nella provincia di Girgenti, delle petizioni al Sensales ed al Presidente della Camera,—redatte[170] in termini calunniosi, infami contro i sodalizî e le classi popolari,—colle quali s’invocavano leggi eccezionali, repressione energica e pronta per ispegnere quello che essi chiamavano il moto sovversivo!
Si può immaginare piuttosto che descrivere la irritazione e il risentimento che si destò negli animi dei lavoratori per l’attitudine del governo e delle classi dirigenti. I lavoratori intuirono che essi erano le vittime designate di una imminente repressione, stata annunziata e minacciata tutti i giorni e in tutti i luoghi e che doveva essere iniziata col generale scioglimento dei Fasci, onde l’odio di classe ch’era vivo ingigantì; e ad ingigantirlo contribuivano le notizie trasmesse oralmente o per mezzo dei giornali da paese a paese, talora false, tal’altra esagerate, inesatte sempre; ed ingigantì sopratutto pel fatto non mai abbastanza deplorato che giammai si vide un prepotente ed un violatore della legge punito; sicchè negli animi dei popolani si ribadì incrollabilmente la credenza, che non si poteva e non si doveva sperare giustizia dal governo.
E in questo stato di animi, che costituiva una vera anarchia politica e morale, si pervenne al mese di dicembre, quando tutto ciò che si era seminato dette i suoi frutti; quando la passione prese il sopravvento; quando la paura del peggio, la speranza di miglioramenti, la sicurezza di ottenerli mostrando i denti fecero confondere tutti i criteri, fecero adoperare i mezzi leciti e quelli illegali. Ma tutto questo avveniva con tanta incoscienza, con tanto insensibile passaggio dal giusto all’ingiusto, con tanto fatale concatenamento di episodî, di provocazioni e di reazioni, che poca colpa vera si può dare alla[171] parte popolare anche là dove trascese, a Partinico, a Monreale, a Castelvetrano, a Mazzara del Vallo, a Valguarnera, ecc. ecc.
E mi fermo alle scene di Valguarnera, perchè furono caratteristiche. Ivi non c’era Fascio; chi si era adoperato a farlo sorgere aveva dovuto rinunziarvi per mancanza assoluta di elementi adatti, per il lealismo monarchico ed anche conservatore di cui facevano mostra a gara i partiti amministrativi in aspro antagonismo tra loro.
Il malessere economico, però, per la crisi zolfifera ed agraria vi era profondo e generale; il fermento nel popolo e la indignazione contro le autorità raggiunsero le proporzioni più alte per la inettitudine, per la imprudenza e per la prepotenza mostrata dal locale delegato di Pubblica sicurezza il giorno 4 dicembre nella miniera di Grottacalda, in occasione della festa di Santa Barbara organizzata dalla amministrazione—composta da persone temperatissime—e alla quale avevano preso parte parecchie migliaia di pacifici lavoratori di Piazza Armerina, di Castrogiovanni e di Valguarnera.
In questo stato di animi e con tali autorità il giorno 25 un zolfataro, un certo Di Dio—sopranominato Cottonaro—assai malvisto, comincia ad arringare il popolo esponendo propositi sovversivi, come li qualificarono gli avversari. Il delegato, che non aveva ai suoi ordini se non due carabinieri volle arrestare l’improvvisato tribuno in mezzo ad una folla di alcune migliaia di persone. Non solo: quando la folla ne chiede la liberazione, un carabiniere spara un colpo di rivoltella. Allora si scatena il furore dei dimostranti...[172]
Il delegato ed il sindaco scappano e si nascondono; i carabinieri si chiudono nella caserma e i tumultanti rimangono padroni del campo: interrompono le comunicazioni telegrafiche, liberano i detenuti, devastano e incendiano la casa del sindaco, la pretura, gli uffizî pubblici, saccheggiano diverse case e negozî. I danni prodotti sorpassano il milione di lire—ma credo che la cifra sia stata molto esagerata. Nei tumulti di Valguarnera si ebbero a deplorare parecchie rapine che—sia detto ad onore del popolo—non si ripeterono in nessun altro luogo. Spesso anzi ci fu fanatismo nel mostrarsi onesti; e nella stessa Valguarnera, quasi a compenso, si ricorda che i tumultanti posero in cimento la propria vita per salvare alcuni fanciulli in una casa cui avevano appiccato l’incendio. Le rapine si spiegano col fatto che passato il primo momento non restarono a spadroneggiare se non una trentina di malviventi, che non miravano ad altro se non a rubare. Non ci furono morti; e ci fu un solo ferito per un colpo tirato da un carabiniere. All’indomani, all’arrivo della forza e del Prefetto si fecero circa 300 arresti, tra cui molte donne; la massima parte dei liberati dal carcere andarono a costituirsi. Non si riuscì, però, a riprendere il Cottonaro, promotore primo dei disordini; solo dopo parecchi mesi esso si presentò spontaneamente e si afferma da un altro canto, che molti che furono maggiormente responsabili delle rapine e degli incendî si assicurarono la impunità facendola da delatori e mettendosi ai servigî delle autorità politiche e amministrative, denunziando cittadini onestissimi, facendoli arrestare[173] o costringendoli a fuggire. E i latitanti, infatti, furono a centinaia.
Valguarnera rappresenta il prodotto di una serie di cause molteplici, di una lenta preparazione, e della scintilla data dalla provocazione poliziesca.[44]
[41] Avvertii sempre e raccomandai con tutte le mie forze e in tutte le occasioni la istruzione agli operai. Questi miei sforzi ha riconosciuto il generale Corsi (Sicilia p. 298) e gliene sono grato come del migliore elogio che poteva farmi.
[42] Conosco aneddoti piccanti su questa richiesta dello elenco dei soci dei Fasci. Eccone uno: il sotto prefetto di X... voleva ad ogni costo quello di un paese del suo circondario. Il presidente del Fascio lo negò al delegato di P. S. e questi per non fare cattiva figura presso il superiore ne creò uno di sana pianta comprendendovi molti avversari del Fascio! In quanto ad esattezza d’informazioni su persone sospette il colmo del ridicolo e dell’infamia nello stesso tempo si ha avuto dopo l’attentato del Lega contro l’on. Crispi. Il ministero ha chiesto alle autorità locali la biografia e la fotografia degli anarchici e dei socialisti pericolosi; e nello elenco di questi individui pericolosi la maggioranza è rappresentata da persone non solo onestissime, ma che non sono nè anarchiche, nè socialiste, nè repubblicane, ma semplicemente invise per ragioni personali ai sindaci, ai delegati di pubblica sicurezza ed ai prefetti. Gli elenchi della provincia di Caltanisetta, compilati dal famigerato Prefetto De Rosa sono un capolavoro d’infamia.
[43] A proposito della resistenza energica opposta sempre alle prepotenze governative mi sembrano opportune queste parole pronunziate da Cordova nel 1863: «I Siciliani sono avvezzi da lungo tempo a considerare il Governo come tenuto a rispettare la legge, ed anche quando essi per avventura non la rispettano, pretendono che il governo la rispetti. È un’abitudine acquistata dalle loro antiche istituzioni e consacrata dal patto del 1812, in cui un articolo esplicito diceva: Ogni cittadino ha il diritto di far resistenza all’autorità pubblica, se questa non opera in conseguenza della legge.» Questo ricordo vale se non altro a dimostrare come certe costituzioni consacrassero in Italia sul cominciare del secolo principi assai più liberali di quelli contenuti nello Statuto del magnanimo Carlo Alberto.»
[44] I luoghi nei quali durante il 1893 avvennero provocazioni, dimostrazioni e abusi di ogni sorta sono numerosi. Dai giornali sono riuscito a comporre questo elenco ch’è incompleto:
Palermo, Serradifalco, Campobello di Licata, Prizzi, S. Giuseppe Jato, Piana di Greci, Floridia, Borgetto, Scicli, Ravanusa, Mazzara del Vallo, Catenanuova, Partinico, Bisacquino, Corleone, Sancipirrello, Chiusa Sclafani, Sommatino, Villafranca, Termini Imerese, Canicattì, Terranova di Sicilia, Santa Croce Camerina, Naro, Grotte, San Cataldo, Campofiorito, Mezzomonreale, Campofranco, Pioppo, Palazzo Adriano, Lentini, Milocca, Belmonte-Mezzagno, Parco, Acquaviva Platani, Sutera, Lercara, Siracusa, Casteltermini, Villafrati, Siculiana, Casale Floresta, Montelepre, Cattolica Eraclea, Villarosa, Aragona, Caltabellotta, Paceco, Contessa Entellina, Montemaggiore Belsito, Alcamo, Valledolmo, S. Ninfa, Castronovo, Bambina, Ciminna, Mezzojuso, Cerda, Cefalù, Rosolini, Castelvetrano, Racalmuto, Santa Caterina Villarmosa, Balestrate, Trappeto, Caltanissetta, Spaccaforno, Modica, Francofonte, Piazza Armerina, Gibellina, Lucca Sicula, Butera, Bivona, Burgio, Roccadifalco, Pietragliata, Rocca, Petralia Soprana, Comitini, Terrasini, Misilmeri, Ragusa, Partanna, Salemi, Salaparuta, Trapani, Camporeale, ecc., ecc.
La serie interminabile delle provocazioni e delle dimostrazioni, illuminata qua e là dal sinistro bagliore degli incendî, ebbe i suoi episodî sanguinosi che meritano una speciale trattazione. Questi episodî rappresentano l’epilogo di una situazione tesa e scabrosa e l’inizio di una repressione, che, a dire il vero, fu quasi sempre incosciente e non preparata direttamente, ma che scattò improvvisa e spontanea, quale risultanza però delle istruzioni generali date, della imprevidenza nello eseguirle, dello eccitamento degli animi di tutti, della paura di essere sopraffatti negli uni, della coscienza del proprio diritto negli altri.
Sangue, e in che misura! era stato versato a Caltavuturo in principio del 1893; sangue si continuò a versare a Serradifalco, a Catenanuova, ad Alcamo; ma dopo alcuni mesi di sosta nello svolgersi della triste cronaca, nessuno si attendeva che si dovesse ricominciarla e continuarla più luttuosa che pel passato![175]
Ricomincia a Giardinello. Giardinello è un piccolo paese di 800 abitanti. Sul conto dell’amministrazione comunale e del sindaco Caruso le più contraddittorie notizie corsero. Io sento il dovere di dire che persona degna di fede a me assicurò che il Caruso amministrasse paternamente; ed egli stesso in una lettera al Direttore della Tribuna si scagionò con apparenza di verità di molte accuse lanciate contro di lui.
D’altra parte persona non sospetta di tenerezze per la causa dei lavoratori rivelò allo stesso corrispondente della Tribuna che il municipio di Giardinello era una vera e propria Marcita,—termine lombardo adoperato dall’interlocutore—un feudo del Sindaco. Il Fascio, presieduto dal sig. Piazza, aveva chiesto da tempo delle riduzioni di tasse: sul focatico, sulle vetture, sui dazî di consumo; il sindaco aveva promesso di provvedere almeno in parte, ma invece nei nuovi ruoli vi fu maggior rigore e minore equità che nei primi.
La stessa lettera del Sindaco, del resto, suggerisce al temperatissimo Cavalieri osservazioni che suonano biasimo aperto pei criterî amministrativi che si seguono in Sicilia e che vengono addotti a difesa propria dal Sindaco di Giardinello (I Fasci ecc., pagine 30 e 31). Quali che siano le ragioni dell’una parte e dell’altra, la catastrofe, che ne seguì e che commosse l’Italia rimane ingiustificabile ed è tuttora inesplicata.
Il giorno 10 dicembre, domenica, all’uscire dalla messa, nella piazza della chiesa si formò una dimostrazione al grido: Abbasso le tasse e il Municipio, quindi alcuni socî del Fascio andarono dal sindaco per cercare di comporre la faccenda e lo trovarono dinanzi[176] la porta di casa sua; alla richiesta dei dimostranti egli rispose che non ci avevo colpa, che se ne lavava le mani, che la colpa era tutta dei consiglieri e che potevano fare il diavolo a quattro, lui non si sarebbe disturbato per questo.
E dopo avere così consigliato la calma ed evitato un grave pericolo, il sindaco montò le scale che conducevano nel suo studio, e vi rimase lungamente. I dimostranti seguitavano a gridare sotto i balconi del sindaco, il quale a calmare gli spiriti bollenti applicò loro una cura idroterapica buttando molta acqua e fresca su tutte quelle teste riscaldate.
L’effetto della cura fu immediato: la folla non si ribella al brutale trattamento e corre invece—trascinata certo da qualche mestatore—al palazzo municipale, dove, eccitata certo da chi aveva interesse che documenti compromettenti fossero distrutti, comincia la devastazione, l’incendio; e tutti gli armadi, le sedie, i registri sono posti l’uno su l’altro e le fiamme avide, distruggono ogni cosa.
Dopo, i tumultuanti continuarono a percorrere le vie del paese seguendo una donna che portava in alto il ritratto del Re e della Regina.
Appena cominciati i primi disordini, un carabiniere partì per Montelepre a chiamare dei rinforzi ed è falso che contro costui siano stati tirati quattro colpi di fucile andati a vuoto.
Conosciutasi la notizia a Montelepre partivano 5 o 6 carabinieri e 22 bersaglieri comandati dal sottotenente Cimino, alla volta di Giardinello e quivi giunti si disposero a traverso la strada principale tra la casa del sindaco e il Municipio.[177]
La folla impavida, forte forse del talismano che portava, andò incontro ai soldati sempre con lo stesso grido: abbasso le tasse,...... Il sottotenente tenta invano di calmare i dimostranti i quali per l’avanzarsi di quelli che stavan dietro minacciavano di rompere il cordone della truppa.—Fu allora che il sottotenente esclamò: «Allontanatevi o sarò costretto a dare ordine di caricare le armi». I più vicini tornarono indietro, il presidente del Fascio alla contadina che portava il ritratto del re disse: Suruzza, jamuninni vasinnò nni sparanu (sorella, andiamo se no ci sparano). E quando tutto volgeva pel bene, una fucilata sinistramente risuonò. Fu questo il segno dell’eccidio, sparano i soldati, sparano i carabinieri e le grida disperate e i lamenti dei feriti, il pianto di tutti resero lo spettacolo selvaggio e commovente. Anche i poveri soldati spaventati corsero come forsennati per la campagna.
Allora, seminata la via di feriti, la folla uccide il messo comunale che, sogghignando, mostrava il suo compiacimento per tanti caduti.
Chi ordinò il fuoco? donde partì la prima fucilata? Le voci più disparate corsero in proposito, ma il mistero non fu svelato. Il generale Corsi che solo di questa strage fa cenno—forse perchè il suo animo mite rifugge dalle scene di orrore—narra seccamente: «Fu caso, fu disgrazia. Una massa di gente di un pacifico paesello, rumoreggiante, inebbriata della sua audacia medesima, si serra addosso ad un piccolo drappello di soldati, spinta da tergo da chi non vede il pericolo; nessuno comanda il fuoco; ma il fuoco scoppia perchè i soldati[178] stanno per essere travolti. La stampa ne fa gran rumore in Sicilia, in tutta Italia; si scrive che la truppa ha tirato freddamente sopra un popolo festante; non si vuole vedervi altro che una strage d’innocenti. Il governo n’è spaventato.» (Sicilia, p. 322)[45].
I morti furono 11, dei 12 feriti portati all’ospedale di Palermo 9 furono dichiarati in pericolo di vita. 5 solamente furono colpiti con palle a mitraglia e gli altri da palle non tirate da militari, vi furono pure uomini feriti da quadretti e migliarini.
A Giardinello, precisamente come a Caltavuturo, le autorità non seppero trovare un colpevole tra coloro che spararono. Ne trovarono bensì a decine tra i poveri contadini che avevano partecipato alla dimostrazione e che si ebbero in pena dal Tribunale militare anni ed anni di reclusione!
Dopo Giardinello, Lercara. Anche qui c’è miseria grande derivante in gran parte dalla crisi zolfifera, anche qui ci sono odî inveterati e feroci tra alcune famiglie che si disputano con tutti i mezzi l’amministrazione comunale, qualcuna delle quali si afferma che abbia soffiato nel fuoco. E il fuoco divampò il 20 Dicembre in una dimostrazione coi ritratti del Re e della Regina al grido di: Abbasso le tasse! Abbasso il Sindaco! Si viene a colluttazione[179] colla forza e rimangono feriti o contusi alcuni uomini della forza, tra i quali il delegato di pubblica sicurezza ed un tenente delle truppe. Durante la notte e all’indomani arrivano altre truppe.—Il sotto prefetto di Termini-Imerese—che arringa il popolo da un balcone durante una nuova dimostrazione seguita da incendi dei posti daziari, da devastazioni e da saccheggi—è male accolto e costretto a scappare. Avviene un’altra colluttazione nella quale vengono uccisi undici cittadini e feriti molti altri! Contro i soldati la folla non adoperò che sassi e bastoni.
A Pietraperzia il 1º gennajo 1894 si ripetono gli stessi fatti di Giardinello e di Lercara; le cause sono le stesse: la miseria e il malumore contro il municipio, per le tasse e specialmente pel fuocatico. I partiti locali che si combattono da anni con accanimento si accordarono soltanto nell’accusare i poveri contadini dei quali si osò negare la miseria!
In queste denegazioni fu audacissimo il sindaco Nicoletti, che innanzi al Tribunale militare affermò inesistenti le tasse odiose nel suo paese, e l’amministrazione esemplare, e provvida per i bisogni di tutti. «Sì!—gli rispose con amara ironia un difensore, il capitano Schioppo—tasse non ve ne sono, perchè il fuocatico e il dazio sulla farina non pesano sul popolo; e l’amministrazione comunale è tale modello, che a Pietraperzia si può credere, che si sia avverato il famoso motto di Enrico IV!»
Ivi, come dappertutto, i lavoratori si riuniscono e cominciano a gridare: Viva il Re! abbasso il Sindaco! abbasso le tasse!
Si dice che il Delegato di P. S. e il maresciallo[180] dei carabinieri abbiano invitato la folla a sciogliersi e che siano state fatte le regolari intimazioni, ma che la folla invece di sciogliersi abbia tirato delle fucilate contro i soldati, i quali per legittima difesa risposero facendo fuoco.
Da tutte le mie informazioni, però, mi risultano infondate o alterate tali asserzioni; se i contadini avessero fatto fuoco, tra i soldati ci sarebbe stato qualche morto.
Invece otto contadini rimasero uccisi e quindici gravemente feriti. Compiuta la strage, i soldati si rinchiusero nella Chiesa di Santa Maria e il popolo esasperato si dette agli incendi e alla devastazione del Casino dei Galantuomini, del municipio e di altri uffizî pubblici. Questi eccessi della folla, è bene rilevarlo, seguirono e non precedettero la strage.
Il Consiglio, nella massima parte inviso, si dimise. Non mancarono i soliti numerosi arresti. Si afferma che a Pietraperzia il Fascio, di recente formazione e composto di analfabeti, abbia preso parte attiva ai tumulti; ma la verità non si può sapere facilmente perchè non si potè sinora sentire che una sola campana, quella dei più ricchi proprietari. Non ha sonato ancora quella dei lavoratori. Il terrore regnò per parecchio tempo a Pietraperzia e non fu possibile avere esatte notizie.
Settantatre disgraziati furono trascinati al Tribunale militare di Caltanissetta e di essi soli 20 furono assolti; gli altri furono condannati a pene che variano dai 3 ai 21 anni di reclusione. La sentenza fece dolorosissima impressione e fu notato che un colonnello dell’esercito dava pietosamente parole[181] di conforto alle desolate famiglie dei condannati.
Il giorno 2 gennaio è la volta dell’eccidio di Gibellina. Ha qualche cosa di specialmente lugubre; e di esso si avvalsero gli uomini del governo per denigrare il popolo, che in un momento di furore cieco uccise il pretore Casapinta. Ma perchè? quando?
Narriamo. Gibellina conta circa 10,000 abitanti ed è dedita esclusivamente all’agricoltura. Si afferma da molti che vera miseria non vi sia e che vi siano numerosi i piccoli proprietarî—di quella categoria però, che l’on. Damiani paragonò ai proletarî perchè la proprietà di una catapecchia o di un campicello non basta a sfamare. Certo è che la emigrazione vi si accrebbe notevolmente negli ultimi anni; e questo è indizio sicuro di malessere economico. È certo del pari che le tasse comunali, specialmente quella sugli animali e il focatico, vi erano pesanti ed invise e che era grande il risentimento contro le autorità politiche—rappresentate dal delegato di P. S.—per i fatti del 4 novembre narrati avanti. Vi sono i soliti partiti locali, i cui caporioni si odiano reciprocamente; quello al potere, protetto dalla Prefettura di Trapani, qualificato addirittura tirannico, si dice abbia considerato la cassa comunale come lo sfamatoio della propria famiglia e dei propri adepti. Gli oppositori, ricchissimi, si vuole che abbiano soffiato nel fuoco; regalarono una bandiera al Fascio—essi che in fondo sono conservatori—e si rimproverò loro—stranissimo rimprovero!—che dessero agli operai un salario più elevato degli altri.
Questo l’ambiente dove si svolsero i fatti del 2 gennaio.[182]
Da parecchi giorni si buccinava che si doveva fare una dimostrazione contro il municipio: corsero trattative di conciliazione tra i partiti; si cercò dare soddisfazione alla opinione pubblica dal sindaco, accettando alcune delle proposte messe avanti dal Fascio, il cui presidente sig. Palermo si cooperò sempre per mantenere la calma e l’ordine; a quasi tutte le trattative presero parte attiva il capitano Macchi del 37º fanteria, e il pretore Casapinta e la loro fu azione lodevole. Ma ciò che chiedevasi con maggiore insistenza erano le dimissioni del sindaco e del consiglio; cosa che non potevasi ottenere, come disse il capitano, perchè il sindaco di dimissioni non voleva assolutamente saperne!
Nel giorno dell’eccidio il municipio era occupato militarmente e il capitano trovavasi nella sala del Consiglio, mentre la folla appressavasi gridando come sempre: Abbasso il Sindaco! abbasso le tasse! abbasso il consiglio comunale! Erano circa tre mila persone con alla testa la bandiera del Fascio, che fu issata al balcone della casa municipale dov’erano riuniti il Capitano Macchi, il sindaco e molti altri che discutevano sui provvedimenti da prendere.
Ad un tratto comincia il fuoco contro la popolazione inerme: quattordici caddero morti immediatamente. Non vi furono squilli di tromba e i soldati spararono sulla folla a bruciapelo. Il numero dei feriti fu grandissimo e non potè esser mai esattamente constatato perchè tutti si nascosero, sapendosi che anche i feriti gravi venivano arrestati e condotti a Trapani: ad un certo Tramonte fu amputato il braccio nelle prigioni di Trapani e gli si negò di poter rimanere a casa guardato a vista.[183]
Compiuta la strage i soldati—per ordine del Capitano Macchi, che rapidamente discese dalla casa comunale appena sentì le fucilate—si ritirarono, e Gibellina rimase in balía del popolo giustamente esasperato. Fu allora che venne ucciso a sassate ed a bastonate il povero pretore Casapinta, ch’era stimato da tutti e che si era cooperato ad impedire la catastrofe; ma ciò avvenne per isbaglio, gli addebitarono il comando del fuoco, essendo stato scambiato pel delegato di Pubblica Sicurezza, Vincenzo Trani, che alle antiche aveva aggiunto nuove ragioni di odio contro di sè.
Costui fu generosamente ricoverato da un farmacista, e si salvò, fuggendo travestito, dall’ira di quel popolo il quale contro di lui sarebbe forse stato implacabile.
Per alcuni giorni Gibellina rimase assolutamente senza forza e senza autorità; eppure non vennero molestati coloro, che erano considerati come i veri promotori dell’eccidio!
A Gibellina si sa almeno su chi fare ricadere la colpa immediata della catastrofe. Il capitano Macchi allontanò da sè la responsabilità dell’accaduto; e non gliene spetta, poichè è voce generale da nessuno sinora smentita, che il fuoco venne ordinato del delegato di P. S. affacciatosi dal balcone del Municipio. Il luogotenente che in piazza trovavasi alla testa dei 35 soldati credendo che l’ordine fosse partito del capitano comandò il fuoco. Per colmo di odiosità le guardie campestri, ligie al sindaco, nascoste in un campanile vicino—ciò che farebbe supporre una certa premeditazione—tirarono ripetutamente sulla folla.
Quando le autorità governative ripresero possesso[184] del disgraziato paese dove regnava lo squallore, si fecero arresti in massa e si vuole che la maggior parte degli arresti avvenissero nelle file dell’opposizione e su di una lista compilata dal partito che stava al potere.
Dopo tali disgraziati avvenimenti, l’odio e la diffidenza dei contadini contro li cappedda si sono accresciuti in modo terribile; tanto che essi sfuggirono come un leproso un inviato da un comitato di Palermo, che v’era andato a fare un’inchiesta per poter distribuire dei soccorsi alle vittime.
I tumulti di Belmonte-Mezzagno vanno ricordati perchè con un colpo di rivoltella vi venne ferito un soldato, che poco dopo morì, lo Sculli. A questa povera vittima furono fatte solenni onoranze; ma furono consacrati all’infamia i contadini uccisi dai soldati.
Peggio ancora avvenne all’indomani del funesto principio del 1894, a Marineo.
Anche lì avvengono le solite dimostrazioni con leggere colluttazioni con la forza, in una delle quali c’è un solo ferito di baionetta; ma il giorno 3 si ripetono le dimostrazioni e poi che la folla rifiuta di sciogliersi, dopo le intimazioni di legge ed una scarica in aria, la truppa fa fuoco e vengono uccise otto persone sul colpo e dieci muoiono poco dopo per le ferite ricevute. Il numero dei feriti non si può precisare, perchè i più si nascosero: ma dev’essere stato considerevole se proporzionato al numero dei morti.
Il giorno 4 viene proclamato in Sicilia lo stato di assedio: il generale Morra di Lavriano e della Montà assume formalmente i poteri di Regio Commissario[185] straordinario del Re, ch’esercitava di fatto sin dal suo arrivo in Sicilia. Nel manifesto con cui il Regio Commissario straordinario annunziò l’avvenimento, in ultimo era detto che ai contravventori sarebbero stati applicati gli articoli dal 246 al 251 del Codice penale militare. Perchè si possa giudicare della opportunità dell’applicazione è bene si sappia che tali articoli considerano i casi in cui... il territorio del regno è invaso da truppe nemiche!
All’indomani della proclamazione dello stato di assedio si chiude la serie dei massacri con quello di Santa Caterina Villarmosa.
Ivi, tra i due partiti municipali da gran tempo non c’era buon sangue; la miseria tra i contadini,—il paese è essenzialmente agricolo—era grande; un Fascio vi si era costituito, nel quale per dissidi tra coloro che lo dirigevano, al momento della catastrofe nessuno esercitava una influenza, perchè erano dimissionari da parecchi giorni il segretario e il vice-presidente, ed era assente da tempo il presidente; il Fascio rappresentava un vero corpo senza capo. E la catastrofe avvenne terribile e inattesa, come m’assicurarono il sindaco e il capo del partito contrario.
Il giorno cinque è certo che ancora non era stata annunziata ai cittadini di Santa Caterina Villarmosa la proclamazione dello stato di assedio; nè c’è da meravigliarsene perchè poche ore si può dire ch’erano trascorse dalla comunicazione. Fu lo stesso Comando dei Carabinieri, che dichiarò che nessuno aveva visto il manifesto; ciò risultò anche dal processo svoltosi innanzi al Tribunale militare di Caltanissetta. Se fosse stata annunziata e spiegata bene ai poveri[186] contadini la misura, probabilmente essi avrebbero tenuto diverso contegno. Ma quantunque essi tutto ignorassero non si creda che abbiano trasceso, come in tanti altri punti. Tutt’altro. Il giorno 5, infatti, non si trattò che di questo: una folla enorme percorreva il paese—con una bandiera sormontata dai ritratti del Re, della Regina e da un crocefisso,—gridando: viva il Re! abbasso le tasse! Non ci furono incendi, non ci furono devastazioni nè in uffici pubblici, nè in case e magazzini privati; non si assaltò il municipio e molto meno si potevano assaltare i casotti del dazio—come annunziarono telegrammi uffiziali con impudente menzogna—i quali non esistevano! Le autorità che avevano avuto sentore della dimostrazione avevano chiesto ed ottenuto rinforzi da Caltanissetta, otto soldati ed un tenente dei carabinieri, che uniti ai quattro carabinieri ch’erano di stazione formarono un totale di tredici uomini!
Il tenente dei carabinieri, Colleoni, pensò che l’autorità doveva rimanere alla forza e fece mostra di tutte le sue attitudini strategiche impostando i suoi dodici uomini nella strada che fronteggiava la grande piazza Garibaldi, d’onde dovevano passare i pacifici dimostranti. Quando questi pervennero nella piazza e vi si pigiarono in modo da non potersi muovere, il tenente dei carabinieri intimò alla folla di sciogliersi e fece suonare i tre squilli. Fra il secondo e il terzo, un maestro di scuola, il Capra, esortò il popolo a sciogliersi; ma il popolo credendo di non violare alcuna legge protestando contro i balzelli, e incorato con particolarità da alcune donne ardite, non si mosse se non dopo che il terreno fu seminato di morti e[187] di feriti in seguito alle ripetute scariche ordinate dal tenente dei carabinieri. Quando la piazza venne sgombrata, per molte ore rimasero abbandonati al suolo gli undici morti e i più gravemente feriti—donne, uomini, vecchi e bambini—in mezzo alle pozze di sangue!
E adesso poche altre osservazioni. Come i telegrammi ufficiali mentirono nel dare i particolari della dimostrazione cui attribuirono atti non commessi, così evidentemente mentirono nel dare alcune notizie che volevano lasciar comprendere esservi stata da parte del popolo prima l’aggressione e poi la resistenza, fosse anche una larva. Si parlò di un colpo di rivoltella tirata contro il maresciallo dei carabinieri, ma il colpo fortunatamente non partì; e se partì, quantunque a bruciapelo,... non ferì; si parlò di una coltellata contro un soldato, ma fortunatamente la lama non arrivò alle carni; si parlò di sassi scagliati contro la truppa, ma fortunatamente non un soldato venne colpito!...
Troppa fortuna davvero!
E poi, la rivoltella non fu trovata; i carabinieri sequestrarono solo un’accetta... senza padrone.
Cose queste, che furono anche constatate dai corrispondenti della Tribuna e del Resto del Carlino, andati sul luogo.
La narrazione fatta dal tenente Colleoni innanzi al Tribunale militare esclude tutte le calunniose notizie ufficiali divulgate sul contegno dei poveri contadini di Santa Caterina. Egli, a domanda del Presidente Colonnello Orsini rispose: «avere ordinato il fuoco perchè aveva acquistato il concetto preciso dell’aggressione che voleva fare la folla dalle parole[188] di un certo Manzoni e dalle armi intraviste sotto i vestiti dei dimostranti...»
Non mettiamo in dubbio la vista lincea di quell’ufficiale, ma è giusto riferire le parole di fuoco del Manzoni; questi disse al Colleoni: fate ritirare la truppa e la folla colle buone si disperderà.
Lo stesso Colleoni confessò che prima che la truppa facesse fuoco non ci furono nè pietrate, nè colluttazioni... Se qualche sasso fosse volato dopo le ripetute scariche, quando il suolo era seminato di morti e di feriti, chi oserebbe maravigliarsene e condannare?
Ancora: nel processo, come capo temibile della sommossa venne designato il contadino La Placa, cui si rivolse la particolare accusa di avere strappato la baionetta al Maresciallo dei Carabinieri in una colluttazione corpo a corpo. Ebbene il terribile ribelle ricevette due ferite alle spalle in quella colluttazione; sicchè riferendosi alla topografia di tali ferite e al momento in cui il maresciallo asseriva avergliele inferte, il La Placa ingenuamente osservava: Le braccia l’uomo le ha davanti o di dietro?
La folla aveva tante intenzioni ostili—ed era composta da migliaia di persone!—che dette tempo al suddetto maresciallo di ricaricare la rivoltella per freddare il contadino che a bruciapelo gli aveva tirato un colpo di pistola... Oh! con quanto rigore di logica semplice e irresistibile a chi parlava di fucilate tirate dal popolo, un contadino dalla gabbia esclamò: signor Presidente, i nostri fucili ammazzano! E non uno dei tredici soldati fu ammazzato...
E della ferocia e delle cattive intenzioni del popolo si ebbe altra prova luminosa. Il maresciallo[189] quando non ebbe più cartucce, credette bene di ricoverarsi in una casa che vide aperta; ivi una trentina di contadini eransi ricoverati per isfuggire al massacro. Lo ebbero in mano inerme, trenta contro uno, e non gli torsero un capello e l’accolsero!
A Benedetto Salemi, che all’indomani della strage lo interrogò su questo particolare, il maresciallo rispose: Erano tanto impauriti!
«Fosse stato anche vero, osservò il Salemi, che una trentina di uomini pravi, feroci (come venivano designati) avessero avuto paura di uno disarmato..., ma era quella la risposta di un soldato italiano? dire vili a degli onesti, che virilmente gli avevano regalato la vita!»
Il Salemi, nel Siciliano, de’ 9 e 10 gennaio 1894, fece un’esatta e commovente descrizione dei casi di Santa Caterina. Dalla quale, mi piace di riportare il luogo seguente, dove egli narra la sua visita al cimitero.
«Si va al cimitero per una via che sale leggermente ad un colle.
«Nel piccolo campo dei morti, a sinistra, stavano schierate le casse che serrano i poveri uccisi. Ce n’era una, grande: una vecchia barella tinta di grigio con due larghe fasce di nero che s’incrociavano.
«Il custode, levato una grossa pietra da su il coperchio, lo sollevò.
«Nella vecchia barella avevano messo due cadaveri: uno su l’altro: uno con la faccia sotto i piedi dell’altro! Sopra, stava un ragazzo; era morto dopo una lunga agonia e aveva gli occhi a pena socchiusi, e sul viso profilato ancora un’espressione di[190] angoscia. L’altro era un uomo, con un po’ di barba sotto il mento. Aveva i grandi occhi neri sbarrati: era morto nel vigor della vita, fulminato, e quegli occhi vitrei che dal corpo supino guardavano il cielo, pareva invocassero, ancora morti, il Cielo: pareva che quello sguardo, con una serenità lunga di eroe, dicesse: «O Signore, Signore! vedete....»
«Dopo altre casse, fatte di tavole bianche, ce n’era una, piccola, foderata di roba celeste; povera roba ma immacolata.
«Io volli vedere l’innocente piccola vittima che forse non aveva nemmeno gridato! e pregai il custode di schiodare la cassa.
«La bambina era grande per i suoi nove anni. Giaceva, con la testina un po’ volta da un lato e le braccia distese lungo i fianchi. Non aveva ancora la rigidità della morte e la sua faccia era rossa, e sulla bocca, coperta di bava, colava dal naso una schiuma sanguigna che gorgogliava ancora, a intervalli che pareva avessero la regolarità del respiro.
«—Ma è viva!—esclamai.
«Il custode sorrise.
«—Viva?...—e ripose il coperchio.
«Oh era morta davvero, povera bimba ricciuta! Era morta davvero, misera madre derelitta, ora! povera madre straziata che nella disperazione della sua pena ebbe pure la forza di rivestire il cadavere della sua creatura; di chiudere gli occhi alla sua bimba morta; di foderare di roba celeste la cassa nella quale dovevano chiudere, per sempre, la figlia sua uccisa; nella quale dovevano portarle via, per sempre, la figlia sua perduta!»[191]
All’indomani della strage, come dappertutto, la forza arrivò numerosa, si procedette a centinaia di arresti, altre centinaia di contadini presero il largo e la simpatica cittadina rimase squallida e terrorizzata.
Ed ora riassumiamo. Durante il 1893 e i primi giorni del 1894, nei tumulti e nelle dimostrazioni di Sicilia cadde—ucciso dal popolo—un solo soldato: lo Sculli.
Caddero—uccisi dai soldati:
in tutto furono uccisi novantadue liberi cittadini per un solo soldato.
Questo lugubre riassunto dev’essere completato da altri tristi episodî. Il governo italiano che non seppe prevenire, che non si dette il menomo pensiero di una situazione tragica, dispiegò tutta la sua sapienza nel ricompensare i disgraziati—voglio essere benevolo nel qualificarli—protagonisti della repressione. Premiò il delegato di Pubblica Sicurezza che fece uccidere in Serradifalco due operai che invocavano il rispetto della legge elettorale; premiò il delegato di P. S. di Racalmuto per la prudenza mostrata nel nascondersi il 1. novembre; premiò il delegato di P. S. di Gibellina! per la splendida attitudine[192] ai travestimenti rivelata nei sottrarsi ai pericoli creati per colpa sua; premiò il tenente Colleoni—e lo lasciò per sei lunghi mesi sul luogo delle sue gesta eroiche—per la vista lincea mercè la quale intravide le armi sotto i vestiti dei contadini di Santa Caterina Villarmosa!
Di fronte a tali e tante ricompense come non esser compresi di ammirazione per Matteo Imbriani, che in un momento di santa indignazione si sente disonorato dalle medaglie guadagnatesi in battaglia contro gli austriaci, e in piena Camera dichiara di volerle buttare in faccia al governo italiano?
Egli dovette certo, in quel momento, ricordarsi che Roma negò il trionfo a Pompeo, vincitore di Spartaco, perchè i ribelli non erano nemici stranieri.
E tutto quello non basta; il giorno 8 Febbraio il generale Morra di Lavriano riunì le truppe di Palermo in Piazza Ucciardone e rivolse loro un discorso in cui: rammenta da prima con grande compiacimento alcuni degli ultimi tumulti, specialmente Valguarnera, Belmonte e Santa Caterina, rilevando che da per tutto la folla assalì le truppe e sparò su di esse, (!?) esalta i soldati premiati per gli ultimi avvenimenti e ricorda con onore il valore (!?) dimostrato dai soldati a Santa Caterina; fa l’apoteosi del povero soldato Sculli ucciso a Marineo e glorifica l’opera dei subalterni mirabilmente guidati dai capi dovunque contro di loro si addensava la rivolta!
Il generale Morra di Lavriano terminò la sua eloquente, patriottica e veritiera concione facendo un parallelo tra le vittorie ottenute in Sicilia dai soldati italiani e quella, allora recentissima, ottenuta in Africa ad Agordat, non senza esprimere il rammarico[193] che essi dovevano provare combattendo contro uomini che parlano la stessa loro lingua... E dopo il solito volo lirico all’unità ed a Casa Savoia, al suono della marcia reale, le truppe sfilarono dinanzi al generale ed ai premiati, che erano il Tenente Serra del 27º Fanteria, il caporale Puttini dello stesso reggimento e il carabiniere Profita.
Non mi permetterò alcun commento sulla opportunità politica del parallelo tra le vittorie ottenute in Africa e... in Sicilia; nè sulla convenienza di premiare i valorosi che uccidono inermi italiani.
[45] L’on. Saporito nella tornata del 27 Febbraio 1894 disse alla Camera dei Deputati che il generale Corsi in una sua circolare raccomandava alle truppe di non usare mai armi, contro nessuno e in nessuna occasione. Se questa circolare è vera farebbe fede dell’animo mite dell’antico comandante del XII Corpo di armata e dimostrerebbe che gli eccidî non furono premeditati.
Esposti gli avvenimenti siciliani dell’anno 1893 e del principio del 1894 si devono esporre le responsabilità degli attori: del clero—cui si volle attribuire un’azione, che non ha esercitato e che è stata diversa da quella, che gli venne attribuita—del popolo, e del governo principalmente.
Comincio dal clero.
Sin da quando l’attenzione pubblica sul continente si fermò sulle cose di Sicilia, prima ancora che si arrivasse al periodo acuto dei mesi di dicembre 1893 e gennaio 1894, da una certa stampa con soverchia insistenza s’insinuò che il clero soffiava nel fuoco. L’insinuazione era abile, perchè mirava a discreditare il movimento ed a renderlo inviso alla maggioranza liberale del popolo italiano, che beve grosso e si lascia facilmente ingannare da un patriottismo quarantottesco, ogni volta che gli si parla del nemico che si annida nel Vaticano. Giovava[195] ricorrervi, perchè era riuscita pei moti del 1866 ed era servita come comoda arma alla polizia, poco dopo, nell’imbastire i grotteschi processi politici ricordati dall’on. Tajani nel famoso discorso pronunziato nella Camera dei deputati nella tornata dell’11 giugno 1875; ma era iniqua, calunniosa, poichè era del tutto falso che il clero si fosse immischiato nei moti di Sicilia; e quando su di essi disse la sua parola, fu tale, che ad esso fa torto sicuramente, però lo rivela ligio alla causa dell’ordine—dell’ordine, dico, quale lo intendono il governo e le classi dirigenti.
L’accusa contro il clero di Sicilia è siffattamente destituita di fondamento, che non varrebbe la pena di occuparsene se non l’avesse fatta sua una donna illustre,—la vedova di Alberto Mario—che ama sinceramente l’Italia e l’isola nostra in ispecie e se non vi avesse accennato lo stesso Presidente del Consiglio, che ripetendo un favorito ritornello—sempre apportatore di applausi in Parlamento e fuori—il 28 febbraio, dopo aver fatto l’apologia della borghesia, le rimproverò solo di avere abbandonato le plebi alle sette ed ai preti.
Meglio avvisato, perchè non dominato da alcun preconcetto, il sig. Adolfo Rossi nelle sue corrispondenze alla Tribuna, nel mese di ottobre 1893 aveva notato che il clericalismo non ci aveva che vedere nel movimento dei Fasci e che anzi in molti di questi c’era una spiccata tendenza anticlericale.
Padre Lorenzo,—il frate eremita che la fa da cappellano nella Chiesa della Madonna del Balzo di Bisacquino,—soprannominato il Socialista, costituisce una rara eccezione e del linguaggio da lui tenuto al valoroso reporter del giornale di Roma si argomenta[196] già da qual parte stiano i superiori.—«Eh! se non fosse per i superiori, diceva fra’ Lorenzo, io andrei a predicare il socialismo così, con la mia tonaca». Egli rispetto al movimento sociale avrebbe fatto ciò che Ugo Bassi e Pantaleo fecero pel moto politico.
Dopo, altri giornalisti venati in Sicilia riconobbero la insussistenza dell’accusa e più esplicitamente ancora l’on. Comandini, nella Camera dei Deputati, osservò che «parlando in Sicilia con prelati degnissimi e colti, con sacerdoti professori, con sacerdoti di culto greco e con sacerdoti di culto latino, io ho domandato quale poteva essere stata la parte presa dal clero nelle agitazioni siciliane, e mi sono sentito rispondere che il clero aveva trovato nella classe dei lavoratori le più profonde diffidenze, perchè questi erano convinti che essi stessero dalla parte dei proprietarî e dei borghesi.» (Tornata del 2 marzo 1894). E queste dichiarazioni collimano perfettamente colla deposizione del Cabiati,—maggiore dei Bersaglieri—nel processo De Felice (Udienza del 21 marzo).
Il clero meritò le diffidenze dei lavoratori!
Vennero i processi dinanzi ai Tribunali di guerra e dileguaronsi i più lontani sospetti. Prete D’Urso fu arrestato per quarantottesco capriccio del senatore Sensales; e dell’arresto ho motivo di pensare che non fu contento lo stesso on. Crispi. Fu assolto da ogni accusa. Non pertanto lo stesso on. Presidente del Consiglio, cui giovava nella discussione sui casi di Sicilia evocare lo spettro del clericalismo per aggravare la mano sugli arrestati e impressionare meglio la Camera in proprio favore e farsi[197] considerare come il difensore dell’idea italica, asserì che i capi del movimento socialista (alludeva al De Felice) si erano messi in relazione coi clericali del continente. Ma neppure sul continente dove nel Benzi si era andato a scovare un complice, si potè colpire un clericale o un prete e in tanta libidine di arresti e di processi non si arrestò e non si processò quell’avv. D’Agata, da Catania, che—secondo la polizia—era servito da pericoloso intermediario tra il De Felice e i clericali del continente! Nei processi, adunque, non si trovò e non rimase traccia dell’azione dei preti e del clericalismo nei moti di Sicilia. Quando la polizia accenna a sospetti su qualche prete, come sul Di Lorenzo di Gibellina, in essi vede uomini senza il menomo colore politico ed impegolati sino alle ciglia nelle ire e nelle contese dei partiti locali. E se qualche prete viene innanzi i tribunali militari, come l’Evola di Balestrate nel processo De Felice, depone contro i Fasci.
Con questa ultima e decisiva constatazione si potrebbe por termine ad ogni discorso sull’azione e sulla responsabilità del clero. Il clero, però, manifestò apertamente il proprio pensiero sui casi di Sicilia e giova in questa occasione e in questo punto, esaminarlo per una doppia ragione. Una è particolare: per vedere ciò che esso dice sulle condizioni dei lavoratori dell’isola e sulle cause che l’indussero a tumultuare; l’altra è generale: per conoscere quali sono le sue vedute sul socialismo e se esso segue l’indirizzo, che altri sacerdoti cattolici e protestanti hanno preso in altri paesi di Europa e di America.
Tra le manifestazioni pubbliche del basso clero[198] siciliano non ho conoscenza, che di una sola, dell’opuscolo di un modesto prete di Contessa Entellina, già citato, il Genovese (La quistione agraria in Sicilia). Nel suo breve scritto c’è equità e c’è conoscenza esatta delle condizioni economiche delle varie classi dell’isola; ma non c’è pretensione alcuna, non assurge a considerazioni di ordine generale, nè si lascia trascinare ad inveire contro i vinti.
Lodo sinceramente, e constato che il sacerdote Genovese è una eccezione. Ben diversa è l’attitudine dell’episcopato siciliano e di quei prelati, che delle cose di Sicilia si sono occupati, non escluso Monsignor Isidoro Carini, l’illustre bibliotecario della Vaticana, il cui scritto per altro (La quistione sociale in Sicilia. Roma 1894) è pregevole per tanti motivi ed è inspirato da sincero amore per l’isola natía.
Anzitutto cosa dicono i Vescovi nelle pastorali rivolte ai loro fedeli sulle condizioni dei lavoratori e sulle cause che determinarono gli ultimi tumulti? Cosa ne pensa Monsignor Carini, il cui giudizio ha tanta importanza perchè è quello di un siciliano di cuore e di mente e che occupa un posto così elevato nelle regioni del Vaticano?
Comincio da Monsignor Guttadauro, vescovo di Caltanisetta, che parlò il primo e per la prima volta in ottobre 1893. Si può dire che meglio degli altri e conformemente ai suoi eccellenti precedenti parafrasò la celebre enciclica di Leone XIII, De conditione opificum, applicandola agli avvenimenti dell’isola. Nella sua prima pastorale constata che le «ragioni del malumore esistono e non si possono dissimulare. Il ricco per lo più abusa della necessità del povero, che viene costretto a vivere di fatica,[199] di stento, di disinganno... Consiglia i reverendi parroci, naturali protettori dei poveri, a reclamare presso i proprietari ed i gabelloti, che si ristabilisca la giustizia e l’equità nei contratti, che si cessi dall’usura manifesta o palliata... che si ristabilisca l’equa proporzione tra il lavoro del contadino ed il capitale apprestato dai gabelloti, sicchè il raccolto risulti diviso giustamente...; che si mettano di accordo proprietarî e gabelloti e con equa transazione contentino le non ingiuste pretese dei lavoratori per impedire il desolante spettacolo della continua emigrazione dei poveri contadini, che vanno a cercar pane nelle lontane Americhe, ove raro è che trovino quel che desiderano... I reverendi parroci e predicatori ricordino in ogni occasione ai padroni e capitalisti l’insegnamento della Chiesa, che grida altamente, per bocca del sommo Pontefice, esser loro dovere: non tenere gli operai in conto di schiavi; rispettare in essi la dignità dell’umana persona, del carattere cristiano; non imporre lavori sproporzionati alle forze o mal confacenti con l’età o col sesso. Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede, determinarla secondo giustizia, e non trafficare sul bisogno dei poveri infelici.»
Monsignor Blandini, vescovo di Noto, e Monsignor Gerbino, vescovo di Caltagirone, su per giù fanno le stesse confessioni sulla miseria dei lavoratori, sulla ingordigia e sull’usura dei ricchi, dei proprietarî, dei gabellotti. Del secondo è notevole questa frase: «Fra la ricchezza e la povertà dipendente da tutto e da tutti quale libertà vi può essere? Non è forse accettare o morir di fame?»[200]
I rapporti tra proprietario e proletario sulla base della libertà della economia ortodossa non potrebbero essere meglio espressi; nè i socialisti diversamente li formulano.
Monsignor Carini più esplicito riconosce che la Sicilia oggi è il paese che presenta maggiori riscontri coll’Irlanda; che nella divisione dei prodotti gabellotti e proprietarî fanno la parte del leone; che la miseria è grande; che la crisi non è transitoria e che infine ai miseri si è tolto il cielo e non si è data loro la terra, sicchè non c’è da maravigliarsi se la miseria leva il suo immenso vessillo nero e se ciò che dianzi era la sofferenza oggi diventa la disperazione.
Se nella diagnosi episcopale c’è unità e giustezza di vedute, non manca la concordia, almeno tra alcuni, nel predicare la rassegnazione, perchè alla fin fine i poveri ci sono stati e ci saranno sempre: semper pauperibus habetis vobiscum, esclama monsignor Gerbino con San Matteo.
E monsignor Blandini non sa capacitarsi perchè le miserie che ci sono state sempre, solo ora debbano riuscire a pericolosi ed imbarazzanti esplosioni. Qui monsignore, sebbene persona assai colta, solo per comodità di polemica—perchè la sua pastorale non è che polemica, anche nel titolo: Il socialismo—ha potuto dimenticare la storia che gl’insegna il contrario e che gli dice altresì, che la protesta odierna assume forme diverse per la coscienza dei diritti e della forza, che viene dalla istruzione e pel maggiore desiderio di eguaglianza economica, che venne acuita dalla uguaglianza politica ed un poco anche dalla religiosa. Che male c’è che gli uomini siano[201] uguali in terra se dovranno esserlo in cielo, dove anzi i primi saranno gli ultimi e viceversa?
I vescovi siciliani, che consigliano la rassegnazione, si capisce che nella cura dei mali si debbano in prevalenza affidare al misticismo e debbano vedere la salvezza nel trionfo della religione e per essa nella restaurazione del potere temporale del papa. Monsignore Blandini—sia detto a suo onore—non manca però di avvertire, che certi sistemi curativi sono troppo pericolosi:
«Chi si affida nel ferro di ferro perirà, egli osserva saviamente; e l’esagerato militarismo dell’odierna Europa, quando meno vi si pensi e si tema, potrà accelerare la conflagrazione all’estero, la guerra civile all’interno. Che vale rimettere in moto la ghigliottina e mozzare qualche testa?»
Monsignor Guarino, arcivescovo di Messina, non ha pubblicato alcuna pastorale, perchè la ritenne inefficace ma secondo un rapporto spedito al Vaticano ne ha diramate una ai preti suoi dipendenti, nella quale raccomanda rimedî pratici e la via di fatto per mezzo del mutuo soccorso organizzato delle congregazioni religiose della sua arcidiocesi. (R. De Cesare: Il vaticano e le presenti condizioni d’Italia. Nuova Antologia. 1º Marzo 1894). Lo lascio nella dolce illusione di credere che sia stato il mutuo soccorso organizzato da lui a mantenere la calma nelle sua arci-diocesi—e non le diverse e note condizioni economiche della provincia di Messina—e constato la lodevole tendenza non mistica, ma terrena, nella cura dei mali.
Monsignor Carini rende il necessario omaggio alle tendenze reazionarie riproducendo un brano del discorso[202] tenuto dal Sommo Pontefice nella Basilica vaticana il 28 gennaio 1894 e il cui succo sta nel consiglio di rifare il cammino a ritroso; però in lui lo spirito moderno e il sentimento di umanità prendono il sopravvento nei particolari e suggerisce rimedî terrestri quali potrebbero esser dati da un accorto politico: non affidarsi alla libertà—libertà funesta e che spesso è solo la libertà nel più forte di opprimere il più debole—nel regolare i rapporti tra contadini, proprietarî e gabellotti; abolire il Truck-system, frenare l’usura, anzi estirparla dalle radici, risuscitare i monti frumentari; distribuire il credito con discernimento; combattere la funesta piaga dell’assenteismo; indurre i proprietarî a migliore coltura delle terre; dare istruzione più pratica e che non produca spostati; estendere all’agricoltura la giuria dei probi-viri; intraprendere una certa quantità di opere pubbliche per conto dello Stato per dare lavoro immediatamente agli operai disoccupati; temperare le asprezze dei tributi; correggere le amministrazioni comunali; regolare il lavoro e i salarî delle miniere, ecc., ecc. Questo è tutto un programma, che potrebbe sottoscrivere qualunque socialista di Stato. Si dirà, dunque, che l’episcopato siciliano segue, sebbene timidamente, quel socialismo cattolico, che ha tanti illustri ed eminenti cultori fuori d’Italia?
Così forse potrebbe essere se il clero italiano in generale e quello siciliano in ispecie non fosse di una deficienza deplorevole in fatto di studî economici; deficienza tale, che fa considerare lo sciopero da monsignor Gerbino come un monopolio ingiusto del lavoro contro il capitale—dopo aver parlato della libertà come sappiamo—che fa inculcare ai miseri[203] il risparmio. È tale la deficienza in simili discipline, e la mancanza di conoscenza del movimento contemporaneo, che lo stesso Monsignor Carini, mente tanto superiore a quella degli altri suoi colleghi, se da un lato afferma che le società di resistenza inglesi o americane non hanno mai preso alcun colore politico o socialista—e l’affermazione è dimostrata inesatta dalla storia dei Cavalieri del lavoro in America e del nuovo unionismo in Inghilterra—dall’altro vorrebbe attuare tutta la serie delle riforme suenunciate pur non attentando menomamente all’antica rigidità del diritto quiritario.
Se questi soli fossero gli errori dell’episcopato, sarebbero attribuibili esclusivamente al grado della loro coltura economica e non lo intaccherebbero dal lato morale. Esso, però, contraddicendo alle sue premesse mise la sua influenza—danneggiando se stesso più che giovando agli altri—a disposizione delle classi dirigenti e del governo, ripetendo in Sicilia l’attitudine serbata dal Papato in Irlanda, in Polonia, dovunque i doveri della religione cristiana gl’imponevano di dichiararsi pel popolo, pei deboli, pegli oppressi, contro i forti, contro gli oppressori, contro il governo. E perciò i vescovi di Sicilia scagliano unanimemente fulmini e invettive, talora volgari, contro il socialismo e i socialisti, contro i Fasci e i loro soci; attribuendo loro anche le colpe non commesse; ed è doloroso che ciò abbiano fatto quando gli accusati, anzi i calunniati, non avevano la possibilità della difesa, perchè a migliaia essi erano stati mandati in prigione e a domicilio coatto, e alla stampa era stato messo un[204] ferreo bavaglio, mentre gli accusatori erano protetti dal regime eccezionale dello Stato di assedio.
Questo contegno, sebbene temperatamente, assunse anche Monsignor Guttadauro—e me ne duole per l’uomo veramente rispettabile—che nella seconda pastorale del 7 febbraio parla di plebi fatalmente illuse da istigatori malvagi, di ree dottrine ecc., ed assume proporzioni di sconveniente diatriba, che potrebbe essere sottoscritta da Yves Guyot, nel Vescovo di Noto. Monsignor Blandini, confonde nientemeno socialismo e massoneria, e chiamando la seconda esercito di Satana, malvagia e ria setta, la quale ha scelto a suo grande architetto il diavolo, a gerofante il giudeo scende giù giù sino a voler rinchiudere caritatevolmente—l’aggettivo è suo—nel manicomio i socialisti; a definire stoltizia l’aspirazione a democratici ordinamenti e ad una più equa ripartizione dei beni della terra, in un momento in cui si corre il pericolo di vedere divenire homo homini lupus e ad indignarsi—poco cristianamente—contro l’abnegazione e l’altruismo dei nihilisti russi e dei comunisti francesi perchè non appartengono mica alla classe dei diseredati. E dire che la temperanza del giudizio e del linguaggio era più che in altri da attendersi in monsignor Blandini che stoicamente aveva esclamato: è da sciocco lamentare la tristizia dei tempi, quando, al dire di Sant’Agostino, TEMPORA NOS SUMUS!
L’arcivescovo di Palermo, monsignor Celesia non volle esser da meno dei suoi inferiori e sferzò anche lui i mestatori anarchici o socialisti—che per lui sono tutta una cosa!—e se la prese anche colla soppressa Giustizia sociale.[205]
Di che il generale Morra di Lavriano e della Montà gli si mostrò riconoscente, e appena pubblicata la pastorale si recò al palazzo arcivescovile a ringraziarne l’autore mentre l’on. Crispi probabilmente incoraggiava qualche onoranza a Giordano Bruno.
È strano che i vescovi siciliani—interpreti e seguaci di quelli del continente—abbiano tenuto un linguaggio ed una attitudine cotanto diversa da quella tenuta da illustri cattolici e da eminenti prelati stranieri—da monsignor Ketteler al canonico Maufang, dall’abate Hitzig al prete Mac Glynn, dal De Curtius e Lamoignon, a tutti gli scrittori, laici o ecclesiastici, dell’Association catholique.[46]
Di questa diversità è bene addurre alcune testimonianze scegliendole tra le più recenti. Così il Mac Glynn curato cattolico di New-York e seguace di Henry George, nel 1887 all’invito del suo vescovo di moderare la propaganda rivoluzionaria rispose: «ho sempre insegnato e insegnerò sempre nei miei discorsi e nei miei scritti, sino a quando vivrò, che la terra è di diritto la proprietà comune del popolo e che il diritto di proprietà individuale sul suolo è opposto alla giustizia naturale quantunque sanzionato da leggi civili e religiose. Vorrei subito, se lo potessi, far modificare le leggi del mondo intero in modo da confiscare la proprietà individuale senza alcuna indennità per i sedicenti proprietarî.»
Il cardinale Manning morì esclamando: «l’attuale[206] società è selvaggia ed anti-cristiana e soltanto un socialismo cristiano può redimerla e salvarla.»
Monsignor John S. Vaughan, arcivescovo di Westminster, perciò successore del Cardinale Manning, in un articolo (The social difficulty) pubblicato nella Dublin Review (Febbrajo 1894) non esita a dichiararsi socialista convinto; monsignor Keane, Vescovo di Richmond riconosce che «avviene un rivolgimento radicale sia nel metodo dei governi degli uomini, sia nelle relazioni della vita. Queste mutazioni possono riassumersi in una parola: è l’era della democrazia, della sovranità dei poteri popolari, della preponderanza del quarto stato. Non è qui il luogo d’esaminare la ragione filosofica di questa rivoluzione; ci basta di stabilire e di accertare un fatto, che non si può mettere in discussione e di esprimere la convinzione, che questo fatto non è opera del caso, nè del demonio, MA SI COMPIE PER DISEGNO DELLA DIVINA PROVVIDENZA.»
E monsignor Carini, da cui riporto le citate parole del Keane, esprime la stessa fede nello avvenire democratico di Europa e del mondo.
Oh! dite, Monsignor Blandini: manderete caritatevolmente al manicomio tanti altri vostri superiori o fratelli in Cristo, che vedono un’opera della divina provvidenza in ciò che voi considerate come l’opera di Satana?
Nè si dica che sono in errore i socialisti cattolici; perchè la dottrina socialista—senza che con ciò s’intenda darle nuovo vigore—è conforme alla dottrina di Cristo (che minacciava il terribile: Vae divitibus!), a tutti gl’insegnamenti dei primi e più eminenti padri della Chiesa. Il socialismo integra il[207] cristianesimo, per un certo verso, in quanto che cerca dargli la sanzione terrestre. Possono, adunque, i prelati che lo combattono rendere dei servizî al governo e alle classi dirigenti, non parlare nel nome del loro Dio!
E di questa rinnegata loro missione come italiani possiamo essere contenti, perchè se il clero cattolico di fronte al socialismo assumesse un contegno diverso, data la situazione politica e le pretese di restaurazione del potere temporale, esso costituirebbe un pericolo per la patria nostra!
[46] Chi avesse vaghezza di conoscere il movimento del socialismo cattolico ricorra al bel libro che vi ha consacrato F. S. Nitti.
Coloro che hanno seguito le discussioni della stampa e della Camera dei Deputati, da un anno in qua, conoscono che prima l’on. Giolitti e poscia l’on. Crispi, pur non essendo d’accordo tra loro su certi punti, hanno fatto di tutto per riversare ogni responsabilità degli avvenimenti di Sicilia sui Fasci, sul socialismo, sui sobillatori. L’esame dei fatti dà a questa accusa una smentita altrettanto recisa quanto alla precedente, relativa all’azione del clero.
Questo giudizio è strettamente sperimentale e la enunciazione sua è a posteriori. Non a caso accenno al criterio sperimentale col giudizio a posteriori; ciò è indispensabile nel momento in cui tutti s’impancano a positivisti, pur facendo strazio del positivismo nelle applicazioni, o creandone uno di sana pianta per comodità dei governanti e delle classi dirigenti.
Si sa che Claudio Bernard dette il più chiaro concetto[209] dello sperimentalismo nelle scienze fisico-chimiche e nelle biologiche—per quanto tra queste ultime le induzioni siano assai meno rigorose ed esatte che tra le prime, perchè le condizioni dello sperimento sono assai più complesse e ne intervengono parecchie, che possono passare inosservate, quantunque alterino i risultati.
Nelle scienze politiche e sociali il criterio sperimentale si può applicare più difficilmente, o meglio quello che si applica è d’indole diversa, ma conserva sempre un grandissimo valore. Poichè, se sugli uomini e sulle umane società non si possono fare quelli esperimenti in corpore e in anima vili, che si fanno nelle scienze fisiche, chimiche e biologiche, riproducendo artificialmente ed a beneplacito dello sperimentatore le condizioni volute, per vedere se sono seguite sempre da certi dati risultati,—sicchè tra le une e le altre si stabilisca con certezza il rapporto come tra causa ed effetto—pure, colla osservazione ripetuta di certe condizioni che si presentano spontaneamente nel corso della vita delle nazioni e degli aggregati umani e che producono o meglio sono seguiti quasi sempre da certi dati avvenimenti si può dire che anche nelle scienze politiche e sociali si applicano i criterî sperimentali. Nelle medesime, senza riprodurre qui tutte le distinzioni metodiche dello Stuart Mill—riprodotte e illustrate tra noi dal Gabaglio a preferenza di tanti altri—si può affermare che la storia e la statistica suppliscono i reagenti chimici, le pile elettriche, gli scalpelli anatomici, le iniezioni, le asportazioni di organi, ecc.[210]
La convergenza dei risultati positivi e negativi nella osservazione dei fatti sociali vale, perciò, a fare ammettere sperimentalmente il rapporto come tra causa ed effetto tra certe condizioni—e sul proposito è noto che le induzioni hanno tanto maggior valore, quanto più numerose sono le condizioni identiche o rassomiglianti—e certi avvenimenti consecutivi.
Questo criterio sperimentale applicato ai casi di Sicilia esclude l’azione dei Fasci, della propaganda socialista, dei sobillatori o la riduce alle sue vere proporzioni.
Il primo risultato che si ha dalla osservazione dei fatti è significativo: nella provincia di Messina ed in alcune parti della provincia di Catania dove predomina una mezzadria meno adulterata e forme di contratti agrarî relativamente eque, dove i rapporti tra le varie classi sociali sono improntati ad una certa umanità, dove il benessere economico dei lavoratori della terra è maggiore, nei centri agricoli o non sorgono i Fasci, o vi si mantengono in minuscole proporzioni: e quando vi sorgono e vi attecchiscono nè trasmodano, nè ricorrono a manifestazioni che possano dare occasione alle osservazioni dei loro avversarî e pretesti di accuse e calunnie alle autorità zelanti e alle permalose classi dirigenti. Questa osservazione recente va a completare—e nel contempo ne riceve maggior luce—l’altra fatta da me stesso circa dieci anni or sono sui rapporti tra la delinquenza e le condizioni sociali. Allora scrissi che nella provincia di Messina la maggiore divisione della proprietà, la maggiore quantità di terreni coltivati intensivamente ad agrumeti,[211] a vigneti, ad uliveti con maggiore partecipazione dei lavoratori ai prodotti della terra assicurava alle medesime condizioni morali migliori che nel resto dell’isola. (La delinquenza della Sicilia ecc., p. 53 a 57).
Parimenti dove i Fasci sono bene organizzati e consolidati nella loro compagine da una vita più lunga; dove c’è una certa coltura e vi prevalgono e vi sono ascoltati gli elementi schiettamente socialisti—Catania, Palermo, Messina, Marsala, Trapani, Corleone, Piana dei Greci ecc., la calma non manca, l’ordine non viene turbato, la disciplina viene rispettata, la parola dei capi viene religiosamente ascoltata.
Si può costatare positivamente l’azione moderatrice dei Fasci e dei socialisti in più luoghi; ad essi si deve se si riesce a mantenere l’ordine a Salemi, a Salaparuta, a Castrogiovanni, a Villarosa, a Riesi, in tutta la provincia di Catania, per molto tempo o durante tutto il periodo dell’agitazione e dei tumulti, anche nell’assenza delle truppe, colla impotenza, colla inettitudine e non ostante le provocazioni delle autorità politiche e delle classi dirigenti.
A Marsala il Presidente del Fascio sig. Ruggieri è coadiuvato nella bisogna dal prof. Pipitone; il presidente del Fascio di Pioppo si coopera col pretore e col comandante il distaccamento delle truppe a ristabilire l’ordine in Monreale. A S. Ninfa avviene di meglio: in seguito a precedenti tumulti, che minacciavano di rinnovarsi, molti soci del Fascio si mettono a guardia del municipio e impediscono che i tumultuanti vi penetrino. E se più di frequenti[212] la parola dei Presidenti e dei socî più autorevoli del Fascio e di altri socialisti non venne ascoltata, ciò si deve all’invincibile malcontento per la miseria e per le ingiustizie subite da lunghi anni dai lavoratori, che avevano esaurito la loro pazienza e li avevano resi increduli ad ogni promessa di prossime riparazioni. Perciò rimasero del tutto inefficaci gli scongiuri del povero Presidente del Fascio di Gibellina, contro ai disordini; della quale sua opera tutti fanno fede.
Rimarrà poi a perenne memoria di questo triste periodo la riconoscenza sui generis riserbata dalle autorità politiche grandi e piccole verso coloro, che si cooperarono anche con favorevoli risultati, a mantenere l’ordine e la calma. Di questa riconoscenza ebbero prova luminosa il prof. Curatolo da Trapani, il Vivona da Castelvetrano, il D.r Crescimone da Niscemi, il Salerno-Vinciguerra e l’Aldisio-Sammitto da Terranova, l’avv. G. Rao da Canicattì, e parecchi altri che dopo essere stati ringraziati calorosamente, e talora per lettera da Prefetti e da Sotto-prefetti, da Delegati di P. S. e da Carabinieri per la efficace opera prestata nel periodo che si può chiamare della forza minima,—in cui le autorità avevano addirittura perduta la testa, perchè non avevano abbastanza soldati per farsi rispettare—non appena la Sicilia fu invasa da fanteria, cavalleria, quanta ne occorrerebbe per iniziare una guerra contro un potente nemico, esse si sentirono forti e la forza vollero fare palese con atti di solenne ingratitudine facendo arrestare quelli che avevano prima encomiati. Per molti l’arresto fu talmente iniquo e ingiustificabile, che dopo qualche mese non fu[213] più mantenuto; per pochi—il Curatolo e il Vivona—fu seguito da processo e da condanna a diecine di anni di reclusione. Del Vivona, farmacista in Castelvetrano e nemico irreconciliabile dei Saporito, i quali nel processo si vendicarono senza un ritegno, è da ricordare che egli venne precisamente accusato per un discorso tenuto ai tumultuanti, onde evitare maggiori eccessi, a preghiera caldissima e quasi per imposizione delle autorità politiche e militari del luogo.
Il Rao venne arrestato in Canicattì al ritorno da Castrogiovanni dove era venuto insieme al Sindaco Avv. Falcone per prendere accordi e consigli da me sulla condotta da seguire per iscongiurare i tumulti temuti e di cui c’erano i prodromi.... In questi casi non si sa se maggiormente si debba flagellare la vigliaccheria o la ingratitudine di coloro che ringraziarono prima e poco dopo ordinarono gli arresti.[47]
Questi dati positivi sulla vera indole dell’azione spiegata dai Fasci e dai più noti socialisti vengono completati da altri dati e da altre considerazioni.
Un significantissimo elemento sulla minima partecipazione dei Fasci ai tumulti si rinviene in un documento ufficiale di singolare importanza.
Il Procuratore del Re di Palermo nel domandare[214] alla Camera dei Deputati l’autorizzazione a procedere contro l’on. De Felice aveva tutto l’interesse a magnificare l’intervento nei tumulti dei Fasci e del loro Comitato Centrale, senza di che non ci sarebbe stato motivo a procedere contro l’on. De Felice e contro il Comitato; or bene, in tale domanda, per impressionare i deputati e indurli ad accordare la chiesta autorizzazione non si può fare menzione dello intervento chiaro e diretto d’altri Fasci che quelli di Terrasini, di Giardinello e di Belmonte, tre microscopici comunelli.
Di quali altri Fasci, in tutti i processi, si riscontra la traccia nei tumulti? degli altri di Pietraperzia, di Lercara, di Santa Caterina Villarmosa, tutti senza capi, sciolti o in via di dissoluzione.
Allo scopo evidente di meglio colpire le vittime designate, in Parlamento e nel processo si ingigantì la forza dei Fasci pel loro numero e pel numero di socî, che li componevano. Ma è da discutere forse sul serio la possibilità di un moto ordinato da 160 sodalizî,—che hanno un organo centrale e dispongono di oltre trecentomila socî—e che si rivela in modo così tumultuario, veramente anarchico e con manifestazioni tali che escludono l’intesa e la premeditazione, la direzione, che avrebbe potuto e dovuto dare un organismo poderoso, vittoriosamente, allorquando tutte le forze di resistenza mancavano, quando le città erano sguernite di truppa e la poca che c’era figurava come le comparse teatrali, ora quà ora là, e stanche, abbattute, demoralizzate? Se l’intesa, la premeditazione, la direzione dei Fasci ci fossero state, come spiegare la constatata azione moderatrice dei Fasci meglio organizzati e dei[215] capi più stimati e più intelligenti? Ma che non ci sia stata si rileva alla evidenza dalle stesse relazioni della polizia, che rappresentano tutti o almeno i principali documenti dell’accusa. È il questore Lucchese, il deus ex machina dei processi, che narra la discussione,—durata otto ore!—tra i membri del Comitato Centrale, sei dei quali insistevano perchè si facesse un manifesto per raccomandare la calma, ed uno solo, il De Felice, propendeva per l’azione rivoluzionaria. E il Procuratore del Re nella citata domanda di autorizzazione a procedere per aggravare la responsabilità del De Felice, si vale della narrazione del questore Lucchese. Dalla quale dunque, emerge all’evidenza, che sino al momento dell’arresto dei membri del Comitato e dello inizio della reazione si deve escludere nei tumulti di Sicilia la responsabilità collettiva dei Fasci dei lavoratori, per un moto voluto e coordinato.
Da tutti i processi e da tutti i documenti risulta, infine, che nei movimenti mancarono le armi, mancò il denaro, mancò l’accordo, mancò l’impronta di un capo, di una qualsiasi direzione...
Tutte queste osservazioni vengono meglio illuminate e corroborate dallo studio delle cause dirette e immediate, e del sorgere dei Fasci, e delle tumultuose dimostrazioni dei contadini; lo studio è stato fatto nei suoi particolari dagli avversarî dei Fasci, da coloro anche ch’erano preposti ufficialmente a reprimerne le manifestazioni più o meno legali.
È l’on. Marchese Di San Giuliano che scrive: «Coloro, che sostengono non essere il disagio economico la causa precipua dei disordini in Sicilia, osservano che finora i più gravi sono accaduti nelle[216] provincie di Trapani e di Palermo, che non sono tra le più povere e le più colpite dalla crisi; ammetto che per questo o quel comune, possano aver prevalso altre cause locali, ma per la provincia di Palermo è bene notare che essa ha dato nel 1892 un contigente di 5929 persone all’emigrazione permanente e di 1585 all’emigrazione temporanea, mentre che non l’aveva dato che di 870 all’una e di 138 all’altra nel 1885, il che autorizza a conchiudere che anche in quella provincia sia avvenuto un notevole peggioramento economico. In Provincia di Trapani l’emigrazione permanente, nel 1892, fu di sole 337 persone, ma di queste 105 appartengono al Comune di Gibellina, dove i disordini sono stati tra i più gravi: ed è stato ucciso il pretore.»[48] A questo mi permetto aggiungere che anche Caltavuturo dette un grande contigente all’emigrazione, che la condizione economica della provincia di Palermo e di Trapani poteva considerarsi buona prima della crisi vinicola ed agrumaria; e che la emigrazione—come diceva R. Cobden, a proposito di quella Irlandese: «quando deriva dalla necessità di fuggire la fame legale—cioè quella che deriva dalle leggi e dalla organizzazione sociale e non dalla naturale sterilità del suolo—non è emigrazione, ma deportazione.»
E in modo ancora più conclusivo in favore dello[217] assunto propostomi, lo stesso Di San Giuliano aggiunge: «i Fasci non sono causa, ma effetto della grave situazione della Sicilia!»
Sarebbe errore, però, il ritenere che solo il dissesto economico abbia prodotto la esplosione del 1893 e del principio del 1894; moltissimo, forse di più come spinta diretta e immediata, vi contribuirono la esasperazione per la iniquità delle amministrazioni comunali e le gare vivacissime tra i partiti locali. Esaminando l’insieme di queste cause il Cavalieri esclama: «Non ce n’è forse abbastanza per spiegarsi il movimento dei Fasci?»
Che i Fasci non avessero torto nelle loro domande e che i metodi adoperati non fossero biasimevoli, almeno in un primo tempo, risulta da testimonianze irrefragabili.
In quanto ai metodi vi sono le sentenze dei tribunali di Caltanissetta, di Girgenti, di Trapani, di Palermo per varî processi istruiti sui fatti di Acquaviva, di Casteltermini, di Milocca, di Siculiana, di Gibellina, di Piana dei Greci ecc. ecc., le quali assolvendo quasi tutti gli accusati o ritenendoli colpevoli di lievi contravvenzioni danno la prova della leggerezza e del malanimo delle autorità politiche, che denunziavano i pretesi reati. E quanto non contribuirono queste persecuzioni a fare uscire i lavoratori dalle vie della legalità?
In quanto alla sostanza delle loro domande, che provocarono le agitazioni e i tumulti si hanno testimonianze non meno autorevoli, che le dimostrano giuste e ragionevoli.
Per la parte economica il Cavalieri giudica che anche senza appartenere alla scuola comunista[218] o Marxista, come questo o quello dei Fasci, si può pensare che il lavoro, nella distribuzione dei prodotti, non abbia la parte che gli spetta.
L’on. Sonnino aveva giustificato tali domande preventivamente colla pubblicazione del libro del 1876 e più tardi, alla vigilia di divenire ministro, colla presentazione del suo disegno di legge sulla mezzadria, dà ragione del Congresso di Corleone, che tanto illegale gli parve da volerne tenere conto e da mettersi in relazione diretta col suo autore principale, Bernardino Verro. E divenuto ministro le sue viscere continuarono a commuoversi e nella esposizione finanziaria, trovò modo di stigmatizzare la iniquità dei dazî di consumo in Sicilia e la necessità e il dovere di provvedere.
Le amministrazioni comunali, infine, vennero condannate—e perciò giustificati i Fasci e le agitazioni—dalle circolari dell’on. Crispi e del generale Morra di Lavriano ai Prefetti della Sicilia nelle quali s’inculcava d’invitare i sindaci a mettere ogni cura nella compilazione dei ruoli delle tasse municipali, nel ripartirle più equamente e senza violare le leggi, nell’evitare il fiscalismo e le angherie nella esazione, nel sorvegliare la compilazione dei bilanci, ecc., ecc. E i prefetti e le Giunte amministrative, ch’erano stati sordi e ciechi per tanti anni provvidero spesso—per rimangiarsi i provvedimenti dopo—esagerarono anche chiedendo l’abolizione totale dei dazî di consumo, imponendola contro legge, con lesione dei diritti dei terzi e mettendo le amministrazioni nella impossibilità di provvedere alle spese obbligatorie più indispensabili. E moltissimi municipî sordi e ciechi anche essi, non meno e per non minor tempo dei[219] prefetti e delle Giunte amministrative, si destarono e accolsero i reclami delle popolazioni stremate ed angariate ed abolirono tasse inique e accennarono di volere rientrare nell’orbita della legalità, se non della giustizia.[49]
Questi, esclusivamente questi e non altri furono[220] i fattori d’indole economica, politica e sociale, che determinarono i moti di Sicilia e che furono favoriti da altre particolari circostanze, alle quali si accennò vagamente altrove, ma che giova esporre ordinatamente in questo punto.
Anzitutto, in Sicilia e sopratutto in quei luoghi che costituiscono, secondo l’on. Crispi di oggi, la corona di spine della città di Palermo, vi sono tradizioni rivoluzionarie nel popolo, che gli danno una energia ed una fiducia nelle proprie forze, che mancano altrove. Queste tradizioni hanno creato uno speciale punto di onore—anormale quanto può esser quello che induce due gentiluomini a battersi in duello per una inezia—e tale da indurre i contadini di un luogo a ritenersi menomati nella stima pubblica quando non avessero ripetuto ciò che gli altri avevano fatto. Li ho sentiti io rispondere ai consigli di calma: che cosa si dirà di noi se non facciamo nulla quando gli altri si muovono? Qui c’è anche uno speciale spirito di solidarietà di cui bisogna tener conto. Lo straordinario accentramento della popolazione e la coesistenza negli stessi abitati degli elementi rurali e degli elementi urbani, inoltre, fa sì che i malumori più rapidamente si diffondano e che l’azione di contatto, che tali diversi elementi esercitano gli uni sugli altri, agisca come lo strofinio su quei corpi dai quali si sprigiona la scintilla elettrica. Nè m’indugio ad applicare gl’insegnamenti della psicologia popolare per ricordare quanto più poderosa sia l’azione di certi fattori sulle folle numerose anzichè sui gruppi sparsi e poco considerevoli; nè quanto sia facile l’intesa tra gente che soffre degli stessi mali, che si sente forte e[221] che difficilmente può essere rattenuta e sorvegliata dalle autorità governative.
L’influenza esercitata in ogni tempo sui moti di Sicilia dalla speciale distribuzione della popolazione (caratterizzata dalla mancanza dei piccoli e numerosi centri rurali, mentre i suoi abitanti in grandissima maggioranza sono dediti all’agricoltura) mi pare che per lo passato non sia stata abbastanza avvertita.
I tumulti scoppiano nei grossi centri rurali anzichè nelle città; nelle file dei contadini piuttosto che in quelle degli operai e dei zolfatari, che sebbene analfabeti hanno intelligenza più svegliata—lo constata la Jessie White Mario—pei contatti frequenti colle classi colte; tra gli elementi più incolti di preferenza che non tra coloro che posseggono una istruzione qualsiasi, fosse anche appena rudimentale e limitata al più elementare alfabetismo. L’ignoranza delle leggi, dei pericoli, delle conseguenze di certi atti, l’ignoranza completa in tutto e per tutto fu il vero, il grande fattore dei casi di Sicilia; di tale e tanta ignoranza se ne ha la prova lampante nella ingenua e unanime confessione dei feriti e degli arrestati, che affermavano sentirsi al sicuro contro l’azione delle truppe solo perchè le loro dimostrazioni avvenivano al grido: Viva il Re! e procedevano sotto l’egida dei ritratti del Re e della Regina, ai quali non poche volte veniva riunito un Crocefisso.
Ma chi è veramente responsabile di tanta ignoranza, la quale non può non destare una profonda commiserazione? Il governo italiano e le classi dirigenti, che in trentatre anni di così detto regime di libertà nulla fecero per eliminarla, per attenuarla;[222] proprio nulla! E dire che gli elementi che nei primi tempi malamente rappresentarono il governo in Sicilia, dopo averne sprezzantemente constatata la barbarie, fecero intendere di volere assumere la missione d’incivilirla!
Se dall’analisi fatta risulta che nei tumulti mancò l’azione collettiva dei Fasci e si ridusse a poca cosa quella dei singoli Fasci—i meno ordinati, i rurali e i più recenti—ci vuol poco a dimostrare che non è maggiore la responsabilità dei cosidetti sobillatori e della propaganda socialista sia pel sorgere degli stessi Fasci, sia per le esplosioni dell’ira popolare.
I Fasci, dice il generale Corsi, in moltissimi punti non erano che le antiche Società operaie, che cambiavano nome. Col cambiamento del nome mutava forse per miracolo il contenuto antico?
«E qui cade acconcio—continua lo stesso generale—il rammentare come le gare più acerbe e costanti in questi paesi siano le municipali, poichè quasi non v’è Comune che non sia scisso in due o più partiti non solo avversi, ma apertamente e accanitamente nemici tra loro, i quali si contendono per ogni modo il primato, ed anche il beneficio, nell’amministrazione municipale. Ora, con questa presente agitazione è avvenuto che questo o quel partito di Comune ha trovato molto opportuno di giovarsi dello appoggio potente del Fascio locale, il quale a sua volta s’è gettato spontaneo, e dopo lieve spinta, nella gara municipale, e così s’è fatto in più luoghi un imbroglio di Fascio e municipio e partito, e taluni possidenti, non dei maggiori bensì (e i Di Lorenzo di Gibellina?), si sono messi alla testa del Fascio, o vi[223] sono scivolati dentro. Infatti i maggiorenti di quelle Società non fanno mistero della loro intenzione di valersene nelle lotte municipali, dicendo, forse persuasissimi, che lo fanno e lo faranno pel meglio del paese e quindi dei lavoratori. Intanto anche per questo verso, il Fascio diventa arena di ambizioni ed interessi locali, di galantuomini forse più che di picciuotti....»
Dov’è, dunque, il socialismo come causa efficiente, diretta e immediata dei moti di Sicilia, secondo il Comandante del XII Corpo di armata, che del socialismo non è punto tenero? E minore ancora la sua responsabilità risulterà uscendo dalle affermazioni vaghe e generiche e mettendo i punti sugli i come suol dirsi, cioè indicando i nomi dei capi-partito dei paesi dove avvennero agitazioni e tumulti: ciò che oggi può farsi senza commettere alcuna indiscrezione e senza nuocere a chicchessia perchè i fatti sono noti e sono stati discussi innanzi ai Tribunali militari di guerra.
Ora i fatti dimostrano che il socialismo non ci aveva che vedere nei diversi Fasci di Monreale, e che quello ostentato dal sindaco Cav. Balsano in un suo discorso, era socialismo di occasione suggeritogli dal timore di perdere ogni popolarità e di vedersi sopravvanzato dagli avversari. Il socialismo entrava come i cavoli a merenda a Santa Caterina Villarmosa, e lo dichiarò il farmacista Bruno ad un capitano dei carabinieri prima del 5 gennaio e lo ripetè il sindaco Fiandaca, suo avversario, innanzi al tribunale militare di Caltanisetta.
E non era affatto socialista, ma un monarchico convinto ed amico intimo dell’on. Damiani, il Vivona,[224] avversario antico e irreconciliabile dei Saporito a Castelvetrano; ed è assolutamente irresponsabile il socialismo del fiero antagonismo tra i Di Loronzo e i Gerardi in Gibellina, tra i Lafranca-Gallo e i Lafranca-Massena in Partinico, tra i Nicolosi e i Sartorio in Lercara, tra gli Sparti e gli Scozzari in Misilmeri, tra i Bruno e i Gallina in Santa Caterina Villarmosa...
In risposta a chi potrebbe accusarmi di mala fede perchè dalle pagine del generale Corsi e di altri avversarî del socialismo cito soltanto quelle che mi fanno comodo, riconoscerò che il primo assegna una parte di responsabilità ai sobillatori colla propaganda socialista; e questa parte viene determinata con precisione in questo periodo: «il paese era nel 1892 preparato allo scoppio come una mina carica, che aspetta la miccia. Ora questa fu apprestata da un pugno di socialisti, giovani, arditi, abili, agitatori di vaglia sin dal primo momento.»
E sia! Ma con ciò non rimane sempre minima, storicamente e moralmente incalcolabile la loro responsabilità? Certo; e la certezza risulta indiscutibile dalla larghissima sperimentazione sociale, la quale ammaestra, che dovunque esistono le condizioni generatrici di un fenomeno, il fenomeno presto o tardi si presenta illudendo solo gli ignoranti o i malevoli sulla parte che rappresenta l’ultima causa occasionale, la scintilla. Così, in Sicilia, nel continente italiano, in Irlanda sempre e dovunque esistano le condizioni analoghe a quelle che generarono le ultime manifestazioni dell’isola, le manifestazioni non mancheranno con, senza, o contro i Fasci; con, senza o contro il socialismo.[225]
Non c’erano i Fasci e non era neppur nota la parola socialismo, eppure nel 1848 in Burgio si ebbero tumulti analoghi a quelli del 1893.
Non c’erano i Fasci e non era neppur nota la parola socialismo, eppure nel 1860 in mezzo all’entusiasmo e agli slanci generosi della riscossa nazionale avvennero le cruente sollevazioni di Pace, di Collesano, di Bronte, di Nissoria sempre al grido: morte ai galantuomini! abbasso li cappedda! E senza Fasci e senza socialismo avvennero i disordini di Canicattini nel 1865, le preparazioni dei contadini a Villalba ed a Valledolmo, la rivolta di Grammichele nel 1876, nella quale si dette l’assalto al Casino dei galantuomini, che furono presi a fucilate e più tardi la ribellione di Calatabiano al grido di: abbasso il municipio! abbasso le tasse! Viva il Re! sanguinosamente repressa della sinistra riparatrice. E senza Fasci e senza la menoma conoscenza di socialismo tumultuano i lavoratori di Favara nel 1890, e insorgono i contadini e i zolfatari di Floresta, di Valguarnera...
L’esistenza delle condizioni opportune per esplosioni violente non era sfuggita a nessuno, e Sidney Sonnino, prima che sorgessero i Fasci e senza che sospettasse la influenza della propaganda socialista, ne aveva previsto la ripetizione. E Abele Damiani, non aveva mancato di avvertire: «Non dimentichiamo che in tempo di rivoluzione furono specialmente i contadini, i quali assalirono i possidenti nelle persone e ne danneggiarono le possidenze: il 1848 e il 1860 segnano due epoche terribili di manifestazioni popolari; in alcuni comuni dell’isola si ebbero a deplorare fatti di sangue, vendette,[226] incendî di archivi pubblici da parte di una moltitudine oppressa, ubbriaca, nell’intento di vendicare l’onta della miseria patita a causa dell’odiata classe dei proprietarî.»
Ah! perchè l’on. rappresentante per Marsala non ha ricordato questa pagina da lui scritta all’amico suo intimissimo ed antico, Francesco Crispi, quando con violenza e con leggerezza indegna di un uomo di Stato egli volle accusare e calunniare i socialisti, sobillatori?
Oltrepassiamo lo stretto. Le provincie del continente napoletano presentano il terreno adatto per questa indagine di sperimentalismo sociale; nè riferendomi a tali regioni intendo ricordare i contemporanei moti di Ruvo, di Corato, ecc. che si può supporre essere stati determinati da contagio psichico il quale pure non è efficace se non dove esistono le favorevoli opportune condizioni. Mi riporterò invece alle diverse fasi del brigantaggio ed alle altre esplosioni dell’odio di classe, che hanno preceduto le siciliane e che riconoscono cause perfettamente identiche.
Furono i Fasci e la propaganda socialista, che li determinarono? Ma il socialismo non era ancora nato e nel secolo scorso—si può apprenderlo dalle opere insigni di Winspeare e di Nicola Santamaria sul feudalismo—nel campo stesso dove si svolse il brigantaggio si ebbero scene e manifestazioni perfettamente analoghe a quelle ricordate per la Sicilia dal 1848 al 1893.
Credo di avere già citato sulle cause e sul significato del brigantaggio dal 1860 in poi i discorsi di Giuseppe Ferrari, i quali, mutati i nomi, si crederebbero[227] pronunziati pei moti di Sicilia, devo aggiungere che tutte le discussioni parlamentari del 1863 e 1864 e particolarmente la relazione e un discorso del Massari e un altro del Castagnola riescono alla stessa conclusione: «il brigantaggio è la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie.» Sono parole del moderatissimo Massari e pronunziate quando della sincerità di certe oneste dichiarazioni dei moderati non si poteva dubitare, perchè essi erano al potere e non avevano bisogno di ostentare sensi umanitarî o democratici per fare la critica degli avversarî.
Pasquale Villari nelle sue splendide Lettere Meridionali, riassunse coll’usata sua acutezza tali discussioni, che deve rileggere chiunque voglia ora giudicare rettamente su i casi di Sicilia e apprendere pure di quanto gli uomini di ordine e di governo di allora fossero superiori a quelli di oggi.
Posteriormente c’è stato un altro scrittore, che è ritornato sullo stesso argomento ed ha raggruppato i fatti e le considerazioni in guisa tale che meravigliosamente si adattano agli ultimi avvenimenti della perla del Mediterraneo.
Vale la pena di arricchire questa collezione di documenti con i seguenti brani del Turiello: «Il feudalismo lasciò più viva che altrove nell’Italia meridionale la differenza fra la plebe.... Il bilanciarsi più o meno velato dell’autorità regia, tra la plebe e la borghesia, rimane la chiave dei rivolgimenti napoletani di tutto il periodo corso dal 1806 al 1861, quando il brigante Crocco a Menfi, seguito da[228] migliaia di villani per l’ultima volta tentò la restaurazione borbonica!......
«Alle rumorose sollevazioni sociali in veste politica, che seguirono dal 1806 in poi, sotto nome di brigantaggio, bisognerebbe aggiungere, per intendere la condizione reale della opposizione dei due ceti in molte delle nostre campagne, la ricerca e l’enumerazione minuta d’infiniti casi di sollevazioni locali di contadini, a fin di dividersi terre controverse, in ogni periodo in cui parve meno vigorosa in queste provincie l’autorità dello Stato.»
«Il grosso brigantaggio tra il 1864 e il 1866 venne meno. Ma le cagioni della lotta feroce non iscemarono di poi, se non qua e colà dove scemarono con i popoli gli odî delle campagne per la cresciuta emigrazione.... E, installato un nuovo ordine di cose, il voluto regime di libertà, il feudalismo di nome fu abolito nelle provincie meridionali, ma non di fatto. Le condizioni dei lavoratori pessime e vivissima la lotta aperta o l’antagonismo latente tra le classi.
«Nè mancarono manifestazioni delittuose collettive negli ultimi tempi, quando non esisteva più il vero brigantaggio.—Incendî numerosi ed estesi, uccisioni di bovi avvennero nel 1877 negli Abruzzi e nel Salernitano, in odio a ricchi proprietari spesso usurpatori di terreni comunali... Altrove, come in un comune di Basilicata, i contadini si sono confederati in setta di mutuo soccorso per false testimonianze, sempre benevole al proprio ceto in caso di liti coi possidenti, per offese private o per quistioni demaniali....»
E perchè ciò? Perdio, come dice il Franchetti,[229] gli abbienti delle Calabrie e della Basilicata sono oppressori disonesti senza averne coscienza...
C’è di meglio ancora; c’è un isola che più volte si è paragonata alla Sicilia: l’Irlanda. Nell’isola verde la lotta dura da un secolo; le dimostrazioni, i tumulti, le intimidazioni da un secolo vi si alternano colle repressioni violente e colle leggi eccezionali: lo stato di assedio vi fu proclamato cinquanta volte in novantanni circa e sempre inutilmente!
Perchè ciò? Riassumo un lato delle condizioni dell’Irlanda colle parole di un conservatore: del Fournier. I contadini vi sono miserabilissimi, irregolarmente impiegati e male pagati dai fittaiuoli..., le loro abitazioni consistono in un sol vano, che serve al tempo stesso per preparare gli alimenti e per dormire—come in Sicilia. Molti dividono l’abitazione colle bestie da soma, col porco, col pollame—come in Sicilia. Tali abitazioni sono appena chiuse; qualche volta non hanno vetri alle finestre; un foro nel tetto lascia passare il fumo—come in Sicilia. Sono malvestiti e male forniti in quanto a letto e ad utensili domestici—come in Sicilia. Le relazioni dei fittaiuoli coi contadini sono molto tese e i primi si mostrano più arroganti dei membri dell’aristocrazia—come in Sicilia: sempre!
Il Fournier continua: «Il contadino irlandese sa ch’egli è il più male alloggiato, il più mal vestito, il più mal nutrito dell’Europa occidentale ed insorge contro questa situazione.... Su questo popolo eccitato dalla miseria e dalle privazioni, dal timore e dalla collera gli agitatori hanno buon giuoco....»—come in Sicilia.[230]
E come in Sicilia i tumulti si succedono con vertiginosa rapidità e vi si formano associazioni ora legali ora segrete e criminose, che spesso si sostituiscono al governo e dal governo sono più temute e più rispettate. Sorgono perciò i fanciulli bianchi, il ribbonismo, i molly-maguyr, i feniani, la Land league. Alcune di queste associazioni, specialmente quella dei molly-maguyr, per gli statuti, pei principi, per la esplicazione criminosa della loro azione si rassomigliano maravigliosamente alla mafia.
Vediamo che cosa fa la più legale e la più celebre di quelle associazioni: La Land-league col suo Re senza corona, Parnell.
Siamo nell’autunno del 1880. Tutte le domeniche in sette o otto punti dell’Irlanda, le popolazioni si affollano attorno ad un palco improvvisato; ogni villaggio arriva preceduto da un corpo di musica e da bandiere, sulle quali stanno gli emblemi dell’Isola Verde. Chi in questo non riconosce le passeggiate dei Fasci coi gonfaloni e colle fanfare da un paese all’altro?
A chi quella folla attorno un palco non richiama alla memoria i discorsi che hanno suscitato tanta ira e tanta indignazione nei conservatori e nei progressisti d’Italia?
Sin qui la rassomiglianza; ma ad un certo punto la Land-league si spinge ad atti collettivi e continuati, cui non giunsero i Fasci.
Infatti la Land-league, che ha la sua gerarchia, i suoi comitati, il suo bilancio, la sua cassa rifornita continuamente dalle generose contribuzioni degli Irlandesi degli Stati Uniti, organizza la resistenza[231] multiforme contro il governo e contro i grandi proprietari—i land-lords.
I land-lords non possono più esercitare i diritti che l’atto del 1870 loro lasciava; essi non esigono più i fitti, sia perchè gli affittaiuoli non possono pagarli, sia perchè non lo vogliono sembrando loro esorbitante. Se i proprietari tentano procedere ad un sequestro o di fare eseguire un decreto di espulsione la popolazione si ribella ed occorre il concorso della fanteria e della cavalleria per proteggere le esecuzioni.
Quando la espulsione è stata effettuata e la terra rilasciata, la land-league impedisce ad altri contadini di prenderla e tanto l’amministratore, che ha provocato l’espulsione quanto gli affittaiuoli che contravvengono alla proibizione della land-league vengono boicottati, cioè trattati come gli scomunicati dei secoli scorsi, messi all’ostracismo: persino i bottegai negano loro di vendere le mercanzie e gli operai il lavoro.
Talvolta la vendetta popolare non si arresta a questo, ma perfino la notte vengono visitati da persone armate e mascherate; vengono minacciati con lettere anonime o a viva voce e così lo spavento si spande dappertutto perchè le minacce vengono seguite dai fatti: dall’incendio e dall’assassinio. In tempi ordinarî la giustizia colpisce i rei; ma è impossibile procedere contro una intera popolazione. Perciò in Irlanda o per amore o per timore i contadini diventano complici dei reati agrari; non si trovano testimoni a carico degli accusati e su 155 reati constatati non si poterono colpire che 32 persone. Così[232] la giustizia criminale viene paralizzata in una alla civile per opera della land-league.
Un ultima osservazione per coloro che ignorano la storia dell’Irlanda: il socialismo in massima fu estraneo alla nascita di tutte le associazioni irlandesi, nelle quali predominò invece il sentimento di razza e l’antagonismo religioso: i cattolici irlandesi di origine celtica non si seppero mai rassegnare al giogo dei protestanti inglesi di razza anglosassone.
Il parallelo tra l’Irlanda e la Sicilia potrebbe essere continuato e riuscirebbe oltremodo istruttivo nella parte politica; ma ciò mi pare che basti per dimostrare che senza il menomo intervento del socialismo le stesse cause hanno prodotto gli stessi effetti che in Sicilia. In Irlanda e in Sicilia riescono gli agitatori perchè il terreno è adatto e fatalmente devono sorgere con qualunque nome e sotto qualunque bandiera.
A coloro che per ignoranza o per malafede non sanno scorgere nei tumultuosi fenomeni sociali che la mano di sobillatori ripeterò le parole dell’arguto Gian Luigi Courier: les vrais sèditieux sont ceux qui en trouvent partout.
Questo mio modo di vedere è il prodotto della sincera convinzione che mi sono andato formando colla osservazione dei fatti; nè la enuncio ora per comodità di difesa di amici politici e di avvenimenti ad essi voluti intimamente connettere, ma la manifestai, ampiamente e in termini identici, dieci anni or sono quando ero ben lungi dal prevedere le dolorose contingenze odierne. Allora riportai un caratteristico brano del Montchretien—uno scrittore[233] francese del secolo XVII—e nell’occuparmi dei rapporti tra rivoluzione ed evoluzione conchiusi con queste parole, che tornano più che mai opportune adesso: «Gli scoppi, i cataclismi non avvengono per gli eccitamenti di coloro, che la rivoluzione predicano come una teoria, come unico mezzo di salute. Essi da soli, colla decisa intenzione di provocarla, non approderebbero all’intento, quando anche fossero assai più numerosi di quel che sono, se altre condizioni determinanti non esistessero. Non si designino quindi alla pubblica esecrazione e non si rendano responsabili di avvenimenti, che si svolgono indipendentemente dalla loro volontà!»[50]
[47] Mi consta con sicurezza che iniziato il periodo della reazione le autorità militari dell’isola volevano ad ogni costo farmi arrestare. Devo la libertà a qualche eminente magistrato; ed io che ho sentito e sentirò il dovere di biasimare la magistratura in più occasioni, sento per questo l’obbligo di manifestare pubblica e sincera riconoscenza.
[48] Le condizioni ecc., p. 80. Erra di gran lunga il Di San Giuliano quando afferma che le condizioni della provincia di Catania sono le più tristi, poichè assai peggiori sono quelle del resto della Sicilia.
[49] Abolirono tasse locali, le ridussero, soppressero alcune spese facoltative nei primi di Gennaio 1894 i municipî di Marsala, Trapani, Canicattì, Gibellina, Misilmeri, Termini-Imerese, Cefalù-Diana, Castrofilippo, Gratteri, Ravanusa, Casteltermini, Montevago, Aragona, Menfi, Cinisi, Bisacquino, Vita, S. Biagio-Platani, Piazza-Armerina, Carini, Santa Ninfa, Castellammare, Ribera, Sambuca-Zabut, Aidone, Modica, Chiaromonte-Gulfi, Francofonte, Francavilla, S. Giovanni-Gemini, Calatafimi, Villarosa, Licata, Caltanissetta, Resuttano, Alimena, Collesano. Villafrati, Lercara, Malvagna, Ciminna, Baucina, S. Mauro-Castelverde, Valledolmo. La lista è tutt’altro che completa e sarebbe assai istruttivo che lo fosse e fossero note le concessioni fatte in seguito ai tumulti.
Avverto che in generale la stampa di tutta Italia non si è ingannata sulle cause che generarono i tumulti siciliani. A Roma il Fanfulla, l’Opinione, il Diritto le esposero sommariamente ed esattamente. Vanno poi specialmente ricordati per onestà e precisione d’informazioni: Il Secolo e il Corriere della sera di Milano, Il Resto del Carlino di Bologna, La Tribuna, il Messaggero e Il Popolo Romano di Roma. A questi giornali, ai loro direttori e corrispondenti va data una sincera parola di lode.
Il La Loggia ha fatto una diligente statistica delle cause che determinarono le principali dimostrazioni e i tumulti da gennajo 1893 a gennajo 1894, che mi pare importante riprodurre dal Giornale degli Economisti (marzo 1894): divisione demanii comunali 1, cause politiche 2, tasse locali 48, patti agrarî 7, patti minerarî 1, prepotenze amministrative 2, prepotenze di autorità politiche 4, mancanza di lavoro 1, contratto di lavoro 1.
[50] N. Colajanni: Il socialismo. Catania 1884—p. 350 a 352 e 393.
Al generale Corsi, che paragonò la Sicilia a una mina già preparata da secoli alla quale i Fasci e gli agitatori socialisti diedero fuoco, si può rispondere, che più veramente la parte di miccia la fece proprio il governo.
Infatti, la responsabilità del governo è immensa; antica e recente; diretta e indiretta; positiva e negativa. Su quella, antichissima, che si deve considerare come vera opera di preparazione, non ritornerò, risguardando essa la formazione dell’insieme di quelle condizioni sociali descritte avanti; nè ripeterò ciò che venne esposto relativamente alla provocazione, la quale rappresenta una fase più recente.
Il governo è responsabile per la sua azione diretta e che fa capo a Roma, e ancora di più per quella dei suoi rappresentanti locali, ora disonesti ora inetti—partigiani sempre—contro ai quali[235] gli uomini più eletti dell’isola protestarono in ogni tempo invocandoli migliori. Di quanto fecero i prefetti e la polizia risponde il governo centrale, non solo per le ragioni che derivano dallo stesso regime parlamentare, ma ancora di più per la impunità che quello ha voluto sempre concedere ai suoi subalterni, e per l’incoraggiamento dato al malfare coi premi e le promozioni in ragione diretta della audacia mostrata nella violazione delle leggi e di quei principi fondamentali, che—anche se non regolati esplicitamente da leggi speciali, come vorrebbe lo Statuto, e come sarebbe il caso quanto al diritto di associazione e di riunione—dovrebbero pure far parte del diritto pubblico di un paese, che creda di vivere sotto il libero regime rappresentativo.
La responsabilità di questa ultima fase di esplosione che ricade sul governo per l’inettitudine e per l’imprudenza dei suoi agenti potrei io dimostrare con molti esempi. Mi limito solo ad accennare a quel tal delegato di Racalmuto, il quale medita stupidamente ed eseguisce una aggressione illegale contro una folla di un migliaio di cittadini, avendo due soli carabinieri e ch’è premiato, di poi, per essersi ecclissato nel momento critico del pericolo; e al delegato di Valguarnera che ordina ad altri due carabinieri di far fuoco contro un assembramento di parecchie migliaia di persone già eccitate; e faccio anche menzione di quel Prefetto di Trapani, che perdette del tutto la bussola appena ebbe notizia dei primi tumulti, rimanendo in balia degli eventi come fece il suo collega di Napoli nell’agosto del 1893: e di tanti altri funzionarî di polizia—specialmente[236] della provincia di Caltanissetta—che si sono chiariti di una inettitudine superlativa nella ricerca di delinquenti e nella repressione del delitto, ma audacissimi nel denunziare come pericolosi i più onesti e pacifici cittadini, e che pur sono stati premiati più volte nonostante il contrario avviso della magistratura.
Infine, il governo è responsabile quale organo delle classi dirigenti per quello che fece e per quello che lasciò sempre fare ad esse impunemente; responsabilità grande, che viene riassunta dal generale Corsi con questo tratto breve ed efficace: «i più moderati dei sommovitori non potevano fare a meno di pensare: il governo e i gaudenti promettono e dormono; bisogna scuoterli, costringerli col coltello alla gola.» (p. 371). E davvero, come non scorgere tutta la efficienza che doveva venire dalla radicata e ben fondata convinzione che nulla c’era da sperare colle buone e colle vie legali dal governo e dalle classi dirigenti?[51]
Quando si perviene alla vigilia della esplosione[237] ed entra in iscena maggiormente l’on. Giolitti, corre il debito di dichiarare, che la situazione in Sicilia era assai cattiva; ma egli, che doveva risuscitare la bandiera sfatata della sinistra con tutte le sue colpe e con tutti i suoi errori, ebbe il merito speciale di renderla addirittura pessima con tutto quel periodo di provocazione.
Egli peggiorò tutti i cattivi metodi di governo mettendo a disposizione dei deputati—divenuti tanti proconsoli in cinquantesimo—prefetti, delegati, ed anche magistrati! ed ottenendo, però, un risultato insperato e insperabile per altri titoli: una fedeltà, cioè, a tutta prova nei rappresentanti dell’isola, che coprirono e legittimarono ogni loro voto di fiducia in nome della sacrosanta ricostituzione dei partiti e della risurrezione della sinistra... fatta da uomini che erano stati i promotori e i campioni del trasformismo.
Avvenuta poi la tragedia di Caltavuturo, la cecità e la persistenza del governo negli antichi metodi, e la mancanza completa di opportuni provvedimenti divennero assolutamente criminose.
Ciò che c’era da temere, ciò che poteva verificarsi si era veduto coi fatti: Caltavuturo non fu che un primo sintomo di uno stato generale.
Era urgente provvedere allora e riparare; mostrarne almeno l’intenzione. Finalmente, gli avvisi, gli allarmi, le grida di gioia degli uni e di paura degli altri rompono l’alto sonno dell’on. Giolitti; ed ecco il governo cominciò ad accorgersi che in Sicilia c’era del fuoco serpeggiante che minacciava di propagarsi—assurgendo alle proporzioni di un grande incendio—e si avvide che questa ipotesi[238] del fuoco sotto la neve non era un’immagine poetica, cui si prestava l’Etna maestosa e fumante, ma una realtà. Ma pure allora il Presidente del Consiglio non si svegliò del tutto: sbadigliò, e sbadigliò da vero ministro di polizia dei passati regimi, non sapendo vedere al di là della superficie e credendo che con semplici brutali repressioni la si potesse fare finita.
In Sicilia c’era una quistione di malandrinaggio di cui s’era occupato ripetutamente il Parlamento e la stampa; c’era la quistione sociale di cui i Fasci erano una fioritura parziale; e l’una e l’altra preoccupavano i grandi proprietarî e le classi dirigenti. L’on. Giolitti credette dare un colpo da maestro confondendole e giudicando che i Fasci non fossero che una speciale manifestazione del malandrinaggio e nella sua alta sapienza commise di studiare la quistione sociale al direttore generale della Pubblica Sicurezza. Così facendo—confondendo il moto sociale colla manifestazione criminosa—credette d’infangare il primo per discreditarlo, senza però d’altra parte nutrire la speranza di fare scomparire la seconda, che dalla insana confusione non poteva che ricevere incremento.
E per giudicare insana tale misura mi appello all’on. Di San Giuliano, che pur avendo fatto parte del gabinetto dell’on. Giolitti onestamente riconobbe: «che il peggioramento delle condizioni della pubblica sicurezza non è un effetto della propaganda, cui si devono i Fasci, ma tanto il successo di questa propaganda e i disordini che ne conseguono, quanto l’aumento dei furti e delle grassazioni[239] sono effetti simultanei del disagio economico.» (op. cit. p. 14).
Il generale Corsi alla sua volta fece questa speciale e preziosa osservazione: «del moto dei Fasci rimasero quasi affatto immuni i circondarî di Cefalù e Mistretta, quelli appunto ch’erano in maggior sospetto di malandrinaggio.» (p. 366).
Il senatore Sensales, pei suoi precedenti e pel posto che occupava, era certo il meno adatto di tutti a conoscere i mali e a suggerire confacenti rimedî.
Del resto, il direttore generale della Pubblica Sicurezza non mostrò alcuna intenzione di studiare e conoscere; percorse rapidamente l’isola da Palermo a Messina, sentì i prefetti, si fece ossequiare alle stazioni ferroviarie per un minuto dai delegati suoi dipendenti, non chiamò notabili, non chiamò e non volle sentire gli oppressi. A Corleone soltanto—forte della coscienza del proprio retto operato—il Presidente del Fascio, B. Verro, si presentò da sè al Sensales per sottoporgli le doglianze e le ragioni, veri cahiers, dei lavoratori della propria regione. Onde il Direttore della pubblica sicurezza nulla vide, nulla apprese, che non avesse potuto sapere dai rapporti dei suoi dipendenti.
Quale fu, dunque, la sua missione; quale la sua opera?
Eccola: in una delle brevi soste del suo rapido e trionfale viaggio, a Girgenti—siamo già in ottobre, proprio alla vigilia dello scoppio—egli scopre «che alla fin fine miseria ce n’è stata sempre e ce n’è dappertutto; che i Fasci non raggiungerebbero lo scopo politico-sociale cui miravano e sarebbero[240] stati sciolti con mezzi che non poteva rivelare.»
Non rivelò i mezzi arcani, ma li lasciò intravvedere ai suoi intimi o almeno parlò loro un linguaggio così equivoco da farlo interpretare in questo modo:
Persecuzione agli elementi migliori dei Fasci in modo che questi si sciogliessero spontaneamente, risparmiando al governo l’odiosa illegalità di scioglierli esso stesso. E la parola d’ordine data, pare che sia stata altrettanto semplice: arrestare in qualunque occasione e per qualunque pretesto!
E se non fu data in questa forma brutale la istruzione draconiana, i subordinati così ebbero ad intenderla e così la eseguirono.
Vi furono funzionari onesti e vergognosi dell’opera che compivano, i quali da me rimproverati aspramente, mi confessarono con sincerità che essi eseguivano gli ordini dei superiori arrestando ad ogni minima occasione, processando con ogni pretesto! E ciò l’indomani del viaggio dell’on. Sensales. Il quale viaggio viene annunziato dal generale Corsi così: «l’infelice governo centrale mandò un alto funzionario (siciliano) a vedere come stessero le cose. N’è derivato....» (p. 336).
I reticenti puntini sono del generale Corsi, che interrompe bruscamente i propri commenti e che lascia comprendere chiaramente che a proposito della missione del senatore Sensales e dei suoi risultati molte cose brutte sa e vorrebbe dire, ma non può.
Perchè si giudichi dell’effetto morale che poteva fare il contegno equivoco e misterioso del senatore Sensales bisogna esporre questi tratti del carattere[241] dei siciliani quali li riferisce lo stesso generale Corsi: «Il siciliano ha bisogno di espansione, di franchezza, di verità.—Andategli a viso aperto colla verità, ed egli, foss’essa anche una condanna, vi si sottomette. Fategli comprendere l’inesorabilità di certe cose, e a lui basta questa sincerità.—Insomma coi Siciliani non bisogna adoperare sotterfugi, scappavie o che so io;—no, bisogna dir tutto e mantenere sia in bene che in male..... Se potete accordate; se non potete non andate per le lunghe, ma dite chiara e tonda la ragione.» (pag. 273).
La sapienza di governo dell’on. Giolitti non si limitò all’invio del senatore Sensales, che serbò il contegno meno adatto ad inspirare fiducia agli isolani; andò oltre, e continuando nell’applicazione del criterio che tutto dovesse ridursi a reprimere brutalmente il malandrinaggio creò le zone e sotto-zone militari.
L’impressione di quest’altro provvedimento fu penosa; ci fu la delusione in coloro che giustamente attendevano misure economiche e riparazioni politiche e amministrative; ci fu la paura in quanti ricordavano i fasti militari di altri tempi—paura, che si accrebbe quando corse la voce che sarebbe stato mandato il generale Baldissera a domare ed incivilire l’isola—certo, more Livraghi—ci fu in tutti lo accasciamento per la ribadita convinzione che il governo era e voleva continuare a mantenersi su di una falsa strada. Che la impressione fatta da tale provvedimento sia stata realmente penosa sulla generalità si rileva dalla cura del generale Corsi nel volerla dileguare e nel trovarla ingiustificata. Egli[242] narra, all’uopo, episodî e giudizi, che mirano a provare che il regno della sciabola non è così terribile e temibile come si crede e che molte volte fece savia opera di pace: ed io che del militarismo sono avversario irreconciliabile sento il dovere di dichiarare che in molte occasioni ho trovato le autorità militari di gran lunga superiori, per tatto e per cuore, alle autorità civili; ma ciò non ostante, a torto o ragione, l’impressione non fu buona per quella misura del governo, che senza distrurre il malandrinaggio, accrebbe le diffidenze, le antipatie, i malumori.
La insipienza e la malevolenza del governo non risultava soltanto dai provvedimenti succennati, che avrebbero potuto essere spiegati in senso favorevole se accompagnati da buoni propositi, ma dalla sua attitudine di fronte all’azione dei Fasci, durante tutto il 1893: e di fronte ai municipi, dall’ottobre al dicembre dello stesso anno: poichè se verso i primi si chiariva schiettamente reazionario, la debolezza unita all’arbitrio verso i secondi non poteva servire che d’incoraggiamento al tumulto, alla violazione della legge dal basso contemporaneamente alle violazioni dall’alto.
Invero l’indole dei reati attribuiti dalle autorità ai così detti sobillatori e ai Fasci, e i pretesti che dettero occasione allo sfogo della loro libidine di arbitrî durante il periodo della provocazione, furono tali che giustificano l’avere considerato la loro azione come essenzialmente provocatrice ed iniquamente partigiana.
Si esagerarono a bella posta alcuni fatti, e della esagerazione dà la prova il Generale Corsi, che[243] scrive: «in sostanza l’Inferno a cui s’è ridotta la Sicilia è un inferno assai tollerabile, a vederlo da presso, senza paura e senz’odio, senza il maledetto spirito di parte. Nè tutto il male che si poteva e si voleva fare dagli scioperanti fu fatto; gl’incendî delle pagliaie e dei fienili non furono molti, non moltissimi gli abigeati, i guasti ai colti non frequenti nè grandi; gli armenti non furono abbandonati alla campagna dai pastori, come si diceva che sarebbe avvenuto; dei campieri non fu fatta strage; i lavoratori chiamati da altre parti da alcuni proprietari non furono costretti a cessare il lavoro...» (Sicilia, p. 337 e 338).
Il pretesto più ordinario agli arresti e agli arbitrî innumerevoli perpetrati sotto il ministero Giolitti,—o contro i Fasci collettivamente o contro i singoli membri—venne somministrato dallo sciopero e dai suoi naturali inconvenienti. Questi inconvenienti, che ogni giorno si constatano ancora e in maggior misura in Inghilterra, in Francia, in Germania, negli Stati Uniti, dove agiscono masse di operai colti, educati alla vita pubblica e che hanno da lungo tempo adoperato questo mezzo—riconosciuto legittimo da conservatori e da economisti liberisti—per migliorare la propria condizione economica col rialzo dei salari, dovevano esser guardati con benevolenza dalle autorità perchè si sperimentavano nell’agitazione legale intrapresa per la prima volta dai lavoratori della Sicilia, incalzati dal bisogno assoluto ed urgente di migliorare la propria condizione.
Quando si pensa ai tumulti, che caratterizzarono il periodo del luddismo in Inghilterra—durante il quale si devastarono e incendiarono fabbriche e[244] macchine in considerevole quantità—mentre infieriva la reazione dell’ultra-torismo sotto la influenza della Santa Alleanza, che facevasi sentire anche al di là della Manica; quando si riflette alla violenza delle dimostrazioni del cartismo nella stessa Inghilterra e agli eccessi, alla intolleranza, alle persecuzioni, al boicottaggio delle Trade Unions contro i lavoratori che non ne facevano parte e non le seguivano nelle lotte contro i padroni e contro il capitalismo; quando si pensa ai cosidetti delitti di Sheffield e agli altri, che vennero in luce col processo di Manchester; quando si pensa alla violenza ed ai mezzi brutali, adoperati dagli unionisti contro gli operai non associati, che dai primi vengono chiamati sprezzantemente blacklegs e scabes e di cui si ebbero numerosi esempi, dopo il 1889, negli scioperi di Londra, di Liverpool, di Cardiff, di Southampton, di Manchester ecc., quando si pensa infine che gli operai inglesi delle Unioni—in un loro congresso a Liverpool nel 1890—hanno sinanco chiesto che venisse loro riconosciuto come un diritto il cosidetto Picketing, cioè l’organizzazione di pattuglie destinate a prevenire ed arrestare gli operai, che si portano al lavoro in tempo di sciopero! e si paragona tutto ciò alle poche violenze commesse dai poveri lavoratori della Sicilia si può comprendere la differenza enorme tra il governo inglese e il governo italiano a tutto danno e disonore del secondo, la cui condotta non può e non deve considerarsi conforme ad un libero regime.
Se il paragone tra l’attitudine del governo inglese di fronte a violenze delle Trade Unions—cento volte superiori a quelle dei Fasci—e quella del governo[245] italiano riesce disonorevole pel secondo, lo stesso paragone non può nemmeno porsi con quello degli Stati Uniti dove rimasero celebri le violenze di Pittsburg—che sono contemporanee perchè ci sia bisogno di ricordarle—e gli eccessi e i pericoli della marcia dei disoccupati di Coxey sopra Washington, i diversi scioperi dei Cavalieri del lavoro e l’ultimo veramente gigantesco dei ferrovieri di Chicago, dell’Illinois e di gran parte della California. Nè si dica, che anche il governo della grande repubblica americana ha dovuto ricorrere alla repressione, perchè le cagioni e i limiti della medesima non hanno affatto che vedere con ciò che avvenne in Sicilia. Al Coxey—che mette in pericolo lo Stato e marcia con migliaja di uomini, che assaltano i negozî e i treni ferroviarî e all’occorrenza incendiano e distruggono—quando arriva a Washington, non viene contestato il diritto di dimostrare nei modi cennati, e questi modi non gli vengono addebitati come reati, ma viene processato per una contravvenzione ridicola e condannato a... quindici giorni di carcere. Bernardino Verro per fatti di importanza infinitamente minori e nei quali non ci fu la sua partecipazione nè diretta, nè immediata perchè si svolsero in Lercara, nella sua assenza, venne condannato a sedici anni di reclusione. Debbs, l’organizzatore dell’ultimo sciopero ferroviario—che ha prodotto danni per molti milioni e le cui schiere si sono abbandonate a violenze inaudite venne processato ed arrestato, ma immediatamente rilasciato in libertà sotto cauzione, ai sensi di legge. Ai disgraziati contadini di Milocca, accusati d’avere sparso un mucchio di concime—un atto che nemmeno[246] costituisce reato e che fu dichiarato inesistente—si nega la libertà provvisoria e sono costretti a godersi molti mesi di carcere preventivo. E così potrebbe dirsi di cento altri casi.
A chi volesse sostenere che i lavoratori di Sicilia i quali si posero in isciopero, commisero violenze, si può contrapporre la testimonianza del generale Corsi, che in tutto il suo libro si mostra avversario dello sciopero—non avendone un concetto giuridico esatto—ma che pure le constatate violenze contro la libertà del lavoro (p. 312) da leale soldato è costretto a ridurre alle loro giuste proporzioni, ed afferma, come s’è visto, che «i lavoratori chiamati da altre parti da alcuni proprietarî non furono costretti a cessare il lavoro.» (p. 338).
Il contegno, adunque, del governo rispetto all’azione principale dei Fasci fu ingiusto e partigiano; esso non rispettò neppure quella famosa libertà nel contratto di lavoro, che in sè stessa, quando è rispettata, non giova che pochissimo ai lavoratori, e prese a sostenere le ragioni di una classe per ribadire la più odiosa oppressione economica contro un’altra ch’era debole sotto tutti gli aspetti.
Il ministero Giolitti, che si era chiarito sistematicamente partigiano e ingiusto, privo di ogni sano concetto della sua missione nel periodo degli scioperi agrarî, si rivela di una fenomenale debolezza e trascende ad altre violazioni della legge o le permette e le incoraggia nella fase successiva dei tumulti, che chiameremo comunali.
Quando si accentua il moto di protesta contro le amministrazioni e le gravi tasse locali, il governo non sa scegliere la via retta. Poteva essere energico[247] e previdente nel senso di ordinare subito un esame per vedere ciò che ci fosse di vero nelle lamentanze e nelle accuse dei lavoratori e prendere la santa iniziativa delle riparazioni; poteva pure con altrettanta energia—se non pari equità—imporre il rispetto della lettera della legge: e la farisaica interpretazione della legge dava ragione a tutte le amministrazioni locali, costituite ai sensi di legge e che legali nella loro azione si dovevano presumere se le autorità tutrici, dalle giunte amministrative ai prefetti, le avevano lasciate in pace ed erano perciò con loro solidali.
Non l’uno, nè l’altro atteggiamento seppe assumere l’on. Giolitti, ma invece si limitò a cedere ed a concedere—con manifeste violazioni della legge e con sovvertimento di ogni concetto amministrativo—ogni qual volta il popolo minacciò, fece dimostrazioni e volle cose giuste non di raro frammischiate a pretese assurde, quali poteva suggerirle la ignoranza nelle moltitudini e la passione di parte in molti capoccia di partiti.
Pochi esempî basteranno a dare una idea di quella che fu l’azione del governo sotto questo aspetto e quali furono le conseguenze politiche e amministrative.
Per vedere in quali imbarazzi le autorità governative cercarono di porre i municipi, ricordo questo caso tipico. Il Municipio di Canicattì ha piccolo territorio e la sua risorsa principale per far fronte alle spese obbligatorie l’ha nel dazio di consumo. Il Bertagnolli, prefetto di Girgenti, volendo evitare tumulti telegrafò al sindaco avv. Falcone perchè riunisse il Consiglio e abolisse il dazio sulla farina. Il Sindaco giustamente preoccupato dalla impossibilità[248] in cui si sarebbe trovato di far fronte alle spese e delle conseguenze della lite che l’appaltatore avrebbe intentato al Comune, nè volendo assumersi l’odiosità dei tumulti, dignitosamente telegrafò al Prefetto: «Il governo, causa unica del disagio economico e del malcontento della popolazione in Sicilia, riversa la responsabilità sulle amministrazioni comunali. Protesto e rassegno le mie dimissioni.»
Quelle pressioni si fecero in vista della possibilità di tumulti; ma non fu diversa la condotta quando i tumulti erano avvenuti.
Così in ottobre la mite e tranquilla Siracusa prende l’iniziativa di questo movimento anti-amministrativo ed anti-fiscale con un manifesto operaio contro le tasse e specialmente per la soppressione delle tasse di rivendita. Il Prefetto e la Giunta comunale promettono di ridurle, dichiarando che non possono sopprimerle perchè altrimenti non verrebbe approvata dalla Giunta amministrativa, la sovrimposta fondiaria. Avviene una dimostrazione: si chiudono i negozi, si assalta il Municipio, si distruggono arredi e mobili, si tenta d’incendiare gli archivi. Sedato il tumulto il Consiglio approva i provvedimenti promessi dalla Giunta. La vittoria rimane ai tumultuanti.
Ma i fatti ch’ebbero maggiori conseguenze e che furono straordinariamente contagiosi avvennero a Partinico. Ivi non una, ma molte furono le dimostrazioni contro le tasse e contro il municipio con violenza crescente. Si conceda pure che l’amministrazione fosse cattiva, gravosi i dazî di consumo e angarici i modi di esazione dei quali maggiormente[249] si lamentano i caprai per la tassa di rivendita sul latte; certo è, però, che l’amministrazione non poteva riformarsi ad un tratto, nè i dazî potevansi abolire in tutto o in parte con modi illegali e durante l’anno finanziario. Giunta comunale e Consiglio, impauriti, la danno vinta ai tumultuanti e si affrettano a soddisfare le loro domande senza preoccuparsi menomamente del bilancio e della legalità; dell’una cosa e dell’altra invece si prese pensiero la Giunta provinciale amministrativa di Palermo e annulla le illegali determinazioni. Allora interviene un consigliere di Prefettura che va ad assumere i lillipuziani pieni poteri in Partinico e si schiera contro la legge e contro la Giunta provinciale amministrativa ed in favore dei dimostranti e della violenza, condendo i suoi atti con tribunizie orazioni.
La notizia si sparge rapida come il fulmine in tutta la provincia di Palermo e nelle limitrofe e il fermento diviene generale; tutti pensano che basti chiedere e fare una dimostrazione per ottenere giustizia—o quella che tale si ritiene—e lo si fa credere ai lavoratori sofferenti da tempo e che vedevano finalmente spuntare l’ora delle rivendicazioni. Se Prefetti, Consiglieri e segretarî davano apertamente ragione ai tumultuanti, c’è da meravigliarsi se nelle masse prese salde radici la convinzione che il governo non vedeva male il movimento contro le amministrazioni comunali? c’è bisogno di ricorrere alla astuzia, alle mali arti dei sobillatori se il popolo credette che il grido di Viva il Re! lo salvava dall’ira del governo e che i ritratti del Re e della Regina agivano quali talismani, contro le truppe? c’è da[250] sorprendersi se i partiti, che da tempo chiedevano invano inchieste e scioglimento di consigli, si sentirono incoraggiati, autorizzati anzi, a ricorrere a mezzi spicciativi, che conducevano rapido e difilato allo scopo agognato con tanto ardore... di dare il gambetto agli avversarî?
Francamente, ci vuole molta ingenuità—o molta malignità—per meravigliarsi o fingere sorpresa che i primi tumulti siano stati terribilmente contagiosi. Sarebbe stato davvero sorprendente se fosse avvenuto altrimenti. Il governo dell’on. Giolitti, dunque sia che provochi e reprima, sia che ceda e conceda non fa che preparare, promuovere, incoraggiare le manifestazioni sediziose; e per una fatalità quest’azione del governo doveva venire ribadita dall’opera della magistratura tutte le volte in cui essa rendeva giustizia, e non bassi servizî al governo.
Epperò tutti gli abusi e le prepotenze da un lato, tutte le proteste e le violenze dall’altro, tutti i conflitti si risolvevano in incoraggiamenti al tumulto, dei quali la responsabilità ricade sul governo, in tutti i modi.
Se la condotta dell’on. Giolitti fu ora fiacca ora violenta, sempre impreveggente e inopportuna durante la sua vita normale, si può immaginare quello che divenne all’indomani del 23 novembre, quando pel colpo assestatogli dal Comitato dei sette fu costretto più che alle dimissioni, alla fuga. Benchè dimesso, però, il ministero dell’on. di Dronero dovette rimanere al potere durante la lunga crisi terminata colla formazione del gabinetto presieduto dall’on. Crispi.
In questo intervallo, la fase dei tumulti divenne[251] acutissima ed era il momento in cui maggiore si sentiva il bisogno di un governo che avesse coscienza della gravità della situazione e forza e intelligenza adeguata alla medesima per riparare. Entrambi questi precipui fattori di un buon governo erano stati deficienti nell’on. Giolitti quando era sorretto dal concorso di una grande maggioranza parlamentare, ciecamente devota; non poteva sperarsi che prendessero incremento quando egli fu condannato, e abbandonato nella posizione delicatissima in cui anche uno statista di mente superiore si sarebbe trovato imbarazzato per il timore di pregiudicare la condotta che avrebbe potuto prendere il successore e di precipitare gli eventi. Aumentarono quindi le incertezze, le contraddizioni, la debolezza; per un mese circa, si può affermare che ci fu assenza di vero governo direttivo, ed anarchia completa tra i funzionarî civili e militari: prefetti, delegati, comandanti di zone e di sotto-zone agirono senza indirizzo e senza unità lasciandosi guidare dagli avvenimenti e prendendo consiglio dal proprio cervello, inspirazione dal proprio cuore; e l’anarchia, manco a dirlo, fu tutta a benefizio degli elementi che credevano di avere qualche cosa da rivendicare o di tutti i caduti nelle lotte amministrative che volevano la rivincita.
Di questa anarchia fu data una spiegazione malevola da coloro i quali affermarono che l’on. Giolitti la favorì coscientemente per lasciare al successore una tristissima eredità; come a mio giudizio malignarono—e la malignità accortamente fe’ capolino nella discussione parlamentare—quanti pensarono e dissero che l’on. Crispi avesse soffiato nel fuoco[252] per rendersi necessario al potere. Nei precedenti, nel temperamento dei due ministri vanno ricercate le cause naturali della loro condotta.
Finalmente dopo l’intermezzo comico del ministero Zanardelli, annunziato e disfatto nello stesso momento, l’on. Crispi succede all’on. Giolitti.
Chi avvicinò l’on. Crispi sul finire di dicembre 1893—ed a me toccò questo non ricercato onore—rimase impressionato della conoscenza precisa che egli aveva degli uomini e delle cose di Sicilia, delle cause vere che avevano preparato da gran tempo gli avvenimenti dolorosi dell’anno che moriva. Le intenzioni che mostrava, per riparare ai gravi mali, per rimuoverne le cause erano ispirate a patriottismo dell’antica lega—e non della nuova di cui vergognosamente si abusa a Montecitorio, rendendo ridicola o invisa la parola patriottismo.—In lui sembrava rivivere l’antico promotore e organizzatore della spedizione dei Mille della cui risurrezione s’era avuto un barlume nel discorso di Palermo.
L’on. Presidente del Consiglio non si nascondeva le grandi difficoltà della situazione; era giustamente convinto che in quanto a provvedimenti d’indole economica e sociale l’imbarazzo era grande, ma riconosceva che bisognavano misure radicali e non rifuggiva dall’accennare a censimenti obbligatori dei latifondi e ad altri rimedî che dalle anime timide e grette avrebbero potuto essere considerati rivoluzionarî e sovvertitori degli ordinamenti economici e politici vigenti. Superfluo aggiungere che per realizzare un vasto piano di riforma sociale era indispensabile il concorso del Parlamento ed un[253] certo tempo per prepararlo, discuterlo e farlo accettare; che sarebbe stato necessario appellarsene al paese, se la Camera attuale, com’era temibile, non avesse voluto seguirlo.
Nessuno poteva disconvenire su tali apprezzamenti della situazione; e quanti sentirono i suoi propositi non potevano che approvarlo e lodarlo, non esitando anche di fargli comprendere, che il compimento di tale opera avrebbe potuto chiudere splendidamente la sua vita politica, ed acquistargli benemerenze maggiori di quelle che gli vennero dallo sbarco di Marsala.
Ma la grave situazione del momento imponeva provvedimenti immediati che dovevano essere presi piuttosto oggi, che domani. Ed egli non poteva prenderne da solo e immediatamente che sul terreno politico-amministrativo; e annunziò che li avrebbe presi. Egli avvertiva, che spesso ad impedire che si ricorresse all’uso delle armi bastava spiegare le forze in proporzioni imponenti, perciò sentiva il bisogno d’inviare immediatamente molte truppe in Sicilia, non per fare a quelle popolazioni la cura del piombo, ma per incutere timore e far convinti i riottosi che il governo avrebbe saputo e potuto reprimere energicamente e prontamente. Per quanto il contatto tra soldati e cittadini eccitati sia riuscito sempre pericoloso, pure è duopo convenire che lo spiegamento di grandi forze di fronte alle popolazioni in fermento riesce meno dannoso dello invio di piccoli distaccamenti, che—per paura di vedersi sopraffatti dal numero stragrande dei cittadini anche inermi—si sentono trascinati, quasi da legittima difesa, a far fuoco. E fu questo proprio il caso a Caltavuturo,[254] a Giardinello, a Pietraperzia, a Gibellina, a Santa-Caterina Villarmosa, dove chi comandava i soldati credette di salvare la propria vita colle scariche micidiali contro le inermi popolazioni.
Le date dolorose di Pietraperzia, di Gibellina, di Santa-Caterina ecc. avvertono che disgraziatamente sotto l’on. Crispi si continuò nella pericolosa condotta di mandare piccolissimi distaccamenti ad imporsi ad interi comuni tumultuanti e che se ne ebbero gli stessi disastrosi risultati ottenuti sotto l’onorevole Giolitti; mentre per altro verso ciò che successe a Castelvetrano, a Mazzara del Vallo, a Monreale, ecc., dimostra, che, quando si volle e si seppe, si poterono evitare gli eccidî.
L’on. Crispi, che conosceva la inettitudine o la malvagità di molti prefetti, di molti questori, di molti magistrati—ed in questa conoscenza e nella valutazione delle persone si mostrava di una meravigliosa chiaroveggenza—sentiva il bisogno di un vero repulisti, di un mutamento rapido, fulmineo. A chi gli osservò, che si cominciava male mandando un militare a reggere la prefettura di Palermo—ed aveva buon giuoco ricordando a lui, che li conosceva appieno, i fasti della prefettura militare del Generale Medici, che riuscì ad elevare a metodo di governo i procedimenti della mafia—egli rispondeva che Winspeare ed altri pochissimi buoni prefetti, che ha l’Italia, si erano rifiutati di andare a Palermo; che Morra di Lavriano si era mostrato mite e conciliante, poco soldatesco a Napoli nelle dimostrazioni di Agosto; che a correggere la impressione sinistra che poteva fare l’annunzio della reggenza della prefettura di Palermo affidata ad un[255] generale, intendeva immediatamente farla seguire dalla nomina di un distinto magistrato a questore di quella città.[52]
L’on. Crispi, infine, che conosceva il mal governo fatto della cosa pubblica da moltissime amministrazioni comunali e la giustezza dei risentimenti del popolo annunziava che molte ne avrebbe sciolte, che avrebbe fatto riesaminare i bilanci e i ruoli delle più odiose imposte, che avrebbe fatto raddrizzare i torti e preparato la ricostituzione delle amministrazioni locali, prendendo come mezzo la massima libertà e come fine la giustizia, sbandendone tutte quelle preoccupazioni politiche e partigiane che sogliono ordinariamente presiedere alle elezioni amministrative sotto la ispirazione preponderante e trionfante dei Regi Commissarî straordinarî.
Tutto questo qui si ricorda non per trovare attenuanti a coloro i quali ingenuamente poterono credere che l’on. Crispi risolutamente pensasse a risolvere il ponderoso problema della Sicilia coi principi di equità e di libertà; ma solamente per mostrare che egli aveva conoscenza piena ed intera dei termini del problema e per poterne stabilire la responsabilità completa nel caso che i fatti che esamineremo non corrispondano ai principî che si avrebbe dovuto far prevalere. In questo caso egli non può dire: ignoravo la situazione reale, non conoscevo gli uomini e le cose![256]
E disgraziatamente l’on. Crispi subito dopo aver manifestato tanti propositi belli cominciò ad agire come avrebbe potuto fare chiunque avesse ignorato le vere condizioni della Sicilia. L’on. Giolitti non aveva saputo escogitare in prò dell’isola che la istituzione delle zone e sotto zone militari; l’on Crispi, mutando subitamente pensiero, con lo Stato di assedio annunziato e proclamato il 4 Gennaio, pose la Sicilia sotto il comando assoluto e incontrollabile del generale Morra, conte di Lavriano e della Montà.
A giustificare il proprio operato il Presidente del Consiglio dei ministri addusse la circostanza, che i torbidi della fine di dicembre continuarono e si estesero. Ma perchè la giustificazione avesse valore bisognerebbe dimostrare che qualche cosa si era fatto per impedire che continuassero...
La continuazione dei tumulti si doveva prevedere, poichè nessuna delle cause che li avevano determinati era stata rimossa; non era stato preso alcun provvedimento che avesse potuto modificare la situazione, incutendo timore, suscitando speranze, ispirando fiducia.
Rimanevano dunque intatte le cause antiche ed intatta rimaneva la contagiosa sovraeccitazione dei mesi di novembre e di dicembre: sovraeccitazione che non poteva scomparire ad un tratto, al semplice annunzio dell’arrivo al potere dell’on. Crispi, non seguito neppure da uno di quei proclami ad effetto, che avrebbero potuto impressionare il cervello dei meridionali.
Un atto c’era, che avrebbe potuto esercitare una immediata azione sedatrice: una amnistia pronta e intera, ch’era attesa e invocata da tutti come caparra[257] di una nuova êra riparatrice, che andava ad iniziarsi. Della convenienza del provvedimento rispondente al desiderio generale mi feci interprete alla Camera dei deputati alla presentazione del nuovo ministero; ma non potei ottenere niuna dichiarazione seriamente incoraggiante. E dare l’amnistia più che savia misura di governo era opera doverosa per chi era convinto che in fondo le popolazioni avevano ragione, e che potevano soltanto biasimarsi i mezzi adoperati per farla prevalere.
Non si potevano attendere gli sperati risultati dal ritiro della squadra, che stava a minaccia di Palermo. L’atto avrebbe solo potuto lusingare la città delle barricate, che non si era mai mossa e che non aveva menomamente accennato a dimostrazioni e tumulti, e che perciò rimase del tutto indifferente all’arrivo e alla partenza delle navi di guerra, dalla cui presenza poteva sperare qualche vantaggio economico, non temere offese.
A che cosa si ridusse l’opera di pacificazione dell’on. Crispi?
A un telegramma al sindaco di Lucca Sicula; ma fu tale misera cosa, che suscitò l’ilarità in alcuni, l’amara delusione o l’indignazione in altri.
In un sol caso si poteva pensare e supporre che l’annunzio dell’on. Crispi al potere da solo avrebbe potuto riuscire miracolosamente a produrre la pacificazione degli animi: in quello in cui il Presidente del Consiglio avesse davvero avuto parte diretta nell’eccitamento. E l’ipotesi calunniosa venne scartata.
Il corso degli avvenimenti, quindi, doveva continuare;[258] e continuò, rimanendo immutata la enorme responsabilità del governo che in tutti i tempi e in tutti i modi li aveva preparati, determinati ed accelerati.
Disgraziatamente se mostrossi cieco, impreviggente chi dirigeva le sorti d’Italia in Roma, non si mostrarono più avvedute le classi dirigenti in Sicilia. Esse, che tanto avevano contribuito a creare la situazione anormale nel momento della crisi acuta, in generale—chè non mancarono le nobili e lodevoli eccezioni—furono liete dell’indirizzo preso dal governo; e derisero, denunziarono, angariarono i Fasci e i loro socî.
Grande è la colpa delle classi dirigenti per la loro fanatica resistenza alle riforme e alle concessioni, e dove esse contribuirono ad eccitare gli animi per i loro fini partigiani, si mostrarono di una fenomenale ignoranza sulle condizioni psicologiche delle folle, prodotte da quelle economiche ed intellettuali. Esse accesero l’incendio, ma non credevano che tanta materia vi fosse da farlo divampare terribilmente; si videro sorpassate nelle intenzioni e si spaventarono della lava che minacciava travolgere tutto e tutti. Ond’è che in più luoghi, nell’ora del pericolo, tornarono elementi di ordine, si riconciliarono coi nemici della vigilia e si misero a disposizione del governo e abbandonarono gli alleati popolari, quando non li poterono più condurre a loro libito. Così a Lercara, ad esempio, i popolani che insistevano nelle dimostrazioni credendosi spalleggiati da una casa potente—che avrebbe saputo impedire l’uso della forza contro di loro—imprecarono ai vili, che li avevano traditi.[259]
Nell’ora suprema l’ignoranza e l’egoismo delle classi dirigenti non furono uguagliati che dalla loro paura; ed esse non seppero neppur tentare di opporre una diga morale e materiale alla marea sormontante. Ogni speranza di salvezza riposero nel governo, da cui—come in più luoghi dimostra il generale Corsi—tutto attendevano e con questa assenza di ogni loro iniziativa si rivelarono indegne di un libero regime. Sicchè è forza convenire che la responsabilità enorme del governo negli avvenimenti di Sicilia non è pareggiata che da quella delle classi dirigenti.
[51] Gli effetti di questa dolorosa situazione potrei metterli in evidenza con una serie di documenti strani. Finiti i tumulti, nella presente reazione, il governo—se non altro per illudere—ha mostrato la intenzione di riparare alle più stridenti ingiustizie in certi comuni, i quali richiamarono l’attenzione sua colle violenze, e prosegue a non curarsi di quelli altri comuni che gli si sono rivolti nei modi più pacifici e più legali, colle istanze ed anche colle petizioni al Presidente del Senato e della Camera dei deputati. Da molti punti—ad esempio, da Petralia Soprana—mi si è scritto deplorando di esser rimasti calmi, quando gli altri si agitavano. Com’è eloquente ed istruttivo questo rammarico... di non avere violato la legge!
[52] Non credo di andare errato affermando ch’era pronto il decreto, col quale veniva nominato a questore di Palermo il Regio Procuratore di Trapani. La nomina venne contromandata per volere del Generale Morra di Lavriano, che ad ogni costo volle conservato il Lucchese.
Col gennaio del 1894 comincia la diretta e più grave responsabilità dell’on. Crispi, però che egli organizzò ed intese con tutte le sue forze ad esplicare la reazione. E invero i primi atti di essa, decisi e violenti, rispondono al carattere dell’inspiratore, il quale non mai seppe rifuggire dalle esagerazioni, nel male e nel bene, pur di riescire in quello ch’è il suo intento immediato.
Onde, come non titubò a esagerare, nel 1860, l’importanza delle notizie che venivano dalla Sicilia, per indurre più presto alla spedizione di Marsala il generale Garibaldi, così, ora—invecchiato di trentaquattro anni il suo difetto mentale—non ha esitato un istante ad esagerare, fino a potere considerarsi falsate, le condizioni della stessa Sicilia, quasi per poter fare a ritroso—spinto dall’accecamento abituale della sua sincera megalomania—la spedizione di Marsala.
Si comincia col reale decreto del 3 gennajo 1894, contro firmato dal Consiglio dei ministri col quale[261] si proclama lo Stato d’assedio in tutte le provincie della Sicilia; vi si nomina Regio Commissario straordinario con pieni poteri il tenente generale Morra di Lavriano e della Montà, comandante il XII Corpo di armata.
Il regio Commissario si pone subito all’opera e nello stesso giorno fa arrestare i membri del Comitato Centrale dei Fasci: on. G. De Felice Giuffrida, Avv. G. Montalto, avv. Francesco De Luca, e Nicola Petrina.
Un membro del Comitato, l’avv. L. Leone, sfugge alle ricerche della polizia e ripara a Malta; Bosco, Barbato e Verro, vengono arrestati dopo qualche tempo, mentre cercavano riparare all’estero; ma quasi a compenso di queste prede mancate venne arrestato l’avv. F. Maniscalco, che del Comitato non faceva parte e ch’era semplicemente direttore della Giustizia sociale.
Per poter calcolare l’opportunità e la giustizia di questi primi arresti si deve notare che alla vigilia il Comitato Centrale dei Fasci si era riunito in Palermo e dopo una discussione lunghissima ed animata, con maggioranza di sei contro uno, aveva deciso di non promuovere la insurrezione, ma di lanciare un manifesto ai lavoratori.
Il quale potrà essere tutto, meno che criminoso e non potrà mai servire a mascherare le intenzioni di chi lo tolse a pretesto per fare arrestare coloro che lo redassero e lo sottoscrissero.
Il manifesto è il seguente:
Lavoratori della Sicilia!
«La nostra isola rosseggia del sangue dei compagni che sfruttati, immiseriti, hanno manifestato il loro malcontento[262] contro un sistema dal quale indarno avete sperato giustizia, benessere e libertà.
L’agitazione presente è il portato doloroso, necessario, di un ordine di cose inesorabilmente condannato, e mette la borghesia nella necessità o di seguire le esigenze dei tempi o di abbandonarsi a repressioni brutali.
In questo momento solenne, mettiamo alla prova le declamazioni umanitarie della borghesia, e in nome vostro chiediamo al governo:
1º Abolizione del dazio sulle farine;
2º Inchiesta sulle pubbliche amministrazioni della Sicilia, fatta col concorso dei Fasci;
3º Sanzione legale dei patti colonici deliberati nel congresso socialista;
4º Sanzione legale delle deliberazioni del congresso minerario di Grotte e costituzione di sindacati per la produzione dello zolfo;
5º Costituzioni di collettività agricole e industriali, mediante i beni incolti dei privati e i beni comunali dello Stato e dell’asse ecclesiastico non ancora venduti, nonchè espropriazione forzata dei latifondi, accordando temporaneamente agli espropriati una rendita annua che non superi il 3% del valore dei terreni;
6º Concessione di tutti i lavori, delle pubbliche amministrazioni e di quelle dipendenti o sussidiate dallo Stato, ai Fasci dei lavoratori senza obbligo di cauzione;
7º Leggi sociali, che basandosi su di un minimo di salario ed un massimo di ore di lavoro, valgano a migliorare economicamente e moralmente le condizioni dei lavoratori;
8º Per provvedere alle spese necessarie per mettere in esecuzione i suddetti progetti; per acquistare strumenti da lavoro tanto per le collettività agricole quanto per quelle industriali: per anticipare alimenti ai soci e porre le collettività in grado di funzionare utilmente, stanziare nel bilancio dello Stato la somma di venti milioni di lire.
Lavoratori!
Seguitate intanto a organizzarvi, ma ritornate alla calma perchè coi moti isolati e convulsionari non si raggiungono benefizi duraturi[263].
Dalle decisioni del governo trarremo norma per la condotta che dovremo tenere.»
Vi sarà forse agio a ritornare sul valore di questo manifesto; per ora basta osservare che ogni singolo articolo di questo programma d’immediata attuazione ch’è contenuto nel manifesto è stato sostenuto da ministri ed ex-ministri del regno d’Italia e da uomini temperatissimi, nessuno dei quali venne mai incriminato. Nello insieme il programma invocava il miglioramento della condizione economica dei lavoratori; ma non avrebbe potuto scandalizzarsene l’on. Crispi, che nel suo discorso di Palermo del 1886 aveva detto queste parole.
«... Il Secolo XVIII ci diede l’emancipazione della borghesia; il secolo XIX ci darà l’emancipazione delle plebi... La borghesia non ha più nulla da chiedere e nulla da ottenere. Nell’ordine politico e amministrativo essa non ha rivali pel governo della nazione; nell’ordine economico ha un impero assoluto, perchè sua è la ricchezza del paese... Colla terra e col denaro tiene incontrastato il dominio economico che le assicura quello politico.
«Alle plebi manca tutto... Bisogna, infine, che gli operai siano redenti dalla schiavitù dell’ignoranza e dalla schiavitù del capitale.»
C’era forse una minaccia nelle ultime parole del manifesto del Comitato? Ma era sempre formulata in termini più blandi e meno rivoluzionarî di quelli adoperati dallo stesso on. Crispi in un telegramma del 1892 alle società popolari di Siracusa.
La gravità e la incriminabilità del manifesto risultavano dalle condizioni del momento in cui era stato lanciato e dalle persone cui era diretto? Ma[264] per fare effetto—e l’effetto che si desiderava era la calma—sopra popolazioni in fermento, tale linguaggio era il solo adatto perchè dava affidamento ad esse che la loro causa non sarebbe stata abbandonata e che le loro giuste rivendicazioni sarebbero state propugnate con energia.
Ad ogni modo il linguaggio di giovani ardenti e non trattenuti da alcun legame ufficiale era sincero, corrispondeva alla verità e fa uno strano contrasto con quello dell’on. Crispi, che nella relazione pel decreto sullo stato di assedio dice: i tumulti essere stati provocati da gente dedita ad ogni sorta di delitti; saccheggi, incendî, assassinî, rapine essere stati commessi in quasi tutti i comuni dell’isola.
Tutto ciò, quando non lo si voglia dire... assolutamente falso, bisogna qualificarlo esagerato in modo superlativo. Ed è evidente che l’esagerazione paradossale, aveva l’ufficio di mascherare la reazione.
Di fronte alla reazione, che si avanzava a grandi passi, sicura di vincere, perchè sorretta dai grossi battaglioni, dai cannoni, dalla cavalleria, dalle navi, dalla polizia, dalle insidie, dalle calunnie, dallo spionaggio, dal concorso di buona parte delle così dette classi dirigenti; sicura di vincere perchè doveva combattere contro elementi inermi, disorganizzati, senza programma vero di rivoluzione, senza mezzi di resistenza, senza sicurezza di vedere secondati i proprî conati dalle provincie del continente le quali lasciavansi tranquillamente sguernire di truppe, inviate in Sicilia a reprimere severamente e rapidamente moti ch’erano incomposti ed a-politici, ma che pure potevano trasformarsi da sommossa in[265] rivoluzione, divenne scabrosissima la situazione di quanti parteggiavano per la causa popolare ed erano dichiaratamente repubblicani e socialisti. A loro s’imponeva il prendere una vigorosa decisione ed assumerne piena ed intera la responsabilità.
La presero e la manifestarono nel modo migliore ch’era loro consentito, colla maggiore rapidità possibile per iscongiurare nuovi salassi al popolo, che tornavano graditissimi in alto; per impedire che venisse del tutto distrutta una organizzazione che poteva essere feconda di bene; per evitare che la reazione trovasse nella continuazione dei tumulti nuovi pretesti per farla finita colla parte popolare. Perciò nella sera del giorno 5 dopo l’arresto dell’intero Comitato centrale dei Fasci e di altri egregi cittadini, dopo la proclamazione dello Stato di assedio, dopo l’arrivo continuo e incontrastato dal continente di nuovi reggimenti, repubblicani e socialisti, che non erano nelle prigioni, si riunirono e decisero dopo seria ma rapida discussione, di rivolgere un appello ai lavoratori dell’isola, diramarlo per mezzo del telegrafo nelle Provincie e farlo pubblicare dai giornali di Palermo.[53] Per fare tutto ciò vi era un ostacolo: il generale Morra di Lavriano. Egli in forza dei poteri eccezionali che gli erano stati accordati poteva trattenere i telegrammi e sequestrare o sopprimere i giornali; e siccome ad ogni costo si voleva raggiungere lo scopo nel più breve tempo possibile si pensò di mandare ad avvertire il Regio Commissario straordinario di quanto s’intendeva di[266] fare. A me ch’ero stato chiamato a Palermo telegraficamente nello stesso giorno fu affidato tale incarico, che nel modo che potei migliore disimpegnai nella stessa sera del giorno 5 verso ventitrè ore.
Trovai nel Generale Morra di Lavriano persona squisitissima nella forma, ma irremovibile nella sostanza di negare il permesso alla trasmissione telegrafica dell’appello a firma di molti repubblicani e socialisti. Ma siccome si sarebbe messo sfacciatamente dal lato del torto impedendo che ai lavoratori si trasmettesse una parola che poteva essere ascoltata e che consigliava la calma e la cessazione dei tumulti, così ricorse all’espediente di consentire l’appello purchè esso portasse la mia sola firma.
Esposi agli amici, che attendevano ansiosi l’esito del colloquio, tutti gl’inconvenienti della soluzione proposta e dichiarai la mia grande avversione ad assumere la responsabilità di un atto, che per gli uni doveva crearmi un titolo di onore, che non mi spettava, e per gli altri un grave demerito non meritato del pari. Ma gli amici m’imposero di sobbarcarmi a tutto ed alla fine acconsentii a firmare l’appello, purchè nei giornali di Palermo contemporaneamente alla sua pubblicazione venisse detto perchè e come era stato da me solo sottoscritto. Ciò fu fatto in Palermo: e ciò venne inoltre telegrafato dai rispettivi corrispondenti ai principali giornali del continente (Secolo, Tribuna, Resto del Carlino, Roma, Messaggero, Corriere della sera, ecc. ecc.)[54].
Poco dopo che in nome dei repubblicani e socialisti di Sicilia venne diramato il telegramma-circolare, che raccomandava la calma, un manifesto che riusciva alla identica conclusione venne pubblicato nel continente a firma del gruppo parlamentare del Partito italiano dei lavoratori. Non ci fu intesa tra l’uno e l’altro ed è notevole perciò la concordanza degli intendimenti manifestati, come indizio sicuro che essi rispondevano alle esigenze del momento.
Quale sia stata l’influenza delle parole e dei consigli del partito repubblicano e socialista non è il momento di esaminare; nè potrei essere adatto a farlo. Mi sarà consentito, però, di notare che in Italia fece una eccellente impressione e che l’opera di tale partito venne giudicata come una vittoria morale sul Regio Commissario straordinario ed una condanna della inerzia di altri uomini politici, specialmente siciliani, che avrebbero dovuto farsi vivi in momenti di pericolo. Tale impressione fu tanto viva, che a smorzarla qualche pietoso giornale governativo annunziò seccamente ed ingenuamente che[268] il telegramma era stato formulato di accordo tra me... e il generale Morra di Lavriano. La insinuazione volgare da nessuno potrà meglio essere stigmatizzata quanto dallo stesso Regio Commissario straordinario.
Se il partito repubblicano-socialista fece il dover suo consigliando la calma nella speranza d’infrenare la reazione togliendole ogni pretesto ad infierire, non fu, però, fortunato perchè la reazione non si arrestò; sopratutto—stando ad alcune voci accreditate,—per opera di alcuni noti uomini politici, che circuivano a Palermo il generale Morra di Lavriano ed a Roma l’on. Crispi[55].
A me che avvertii il Presidente del Consiglio, che i suoi funzionari lo disonoravano facendosi strumento di iniqua reazione rispose, assoluto ed altezzoso come sempre, che sotto il suo governo non sarebbe possibile la reazione.
I fatti si dettero la briga di smentirlo brutalmente, come si potrà rilevare dalla loro rapida rassegna.
Il primo sintomo delle tendenze reazionarie si ebbe colla proclamazione dello Stato d’assedio nelle città tutte che avevano mantenuto un ordine esemplare e in quattro provincie che si erano tenute perfettamente calme. Si volle loro arrecare un grave turbamento economico e si vollero sottrarre alle garanzie costituzionali soltanto per avere mano libera negli arresti e nelle violenze. Proclamando lo stato[269] d’assedio in provincie tranquille, osserva un illustre giurista, si falsa il concetto fondamentale dei poteri eccezionali, i quali traggono la loro legittimità soltanto dalla necessità di reprimere la rivolta, non di prevenirla, perocchè alla prevenzione bastano da soli gli ordini normali. (Brusa: Della giustizia penale eccezionale. Torino 1894. p. 13).
A chi rassomigliò la reazione inauguratasi in Sicilia col 1894, al terrore bianco che infierì nel mezzogiorno della Francia all’indomani della restaurazione borbonica, si credette poter rispondere trionfalmente, che di terrore non poteva parlarsi dove mancarono le fucilazioni.
La risposta costituisce la migliore dimostrazione della perdita del senso politico e morale in certe sfere che non sanno valutare la differenza delle cause che avevano generato le due reazioni del 1815 e del 1894. Si ebbero già abbastanza massacri ingiustificabili di contadini inermi e le fucilazioni dove e quando manca ogni accenno di resistenza, ogni e qualsiasi pretesto non avrebbero potuto rappresentare che il capriccio di una tirannide assolutamente inconcepibile in questa fine di secolo nel centro dell’Europa civile. Se mancarono, però, le fucilazioni, abbondarono tutti gli altri atti e violazioni di leggi e dello Statuto fondamentale, che possono contraddistinguere la peggiore delle reazioni.
La rubrica degli arresti, delle deportazioni arbitrarie è tra le più eloquenti a confermare tale asserto.
Iniziata con l’arresto dell’on. De Felice Giuffrida, che implica violazione dello articolo 45 dello Statuto, e commentata coll’impedito sbarco in Palermo[270] agli on. Prampolini e Agnini si è poscia continuata in proporzioni inaudite.
Se l’arresto dell’on. De Felice, di Bosco, di Montalto, ecc., ha richiamato l’attenzione pubblica perchè riguardava individui conosciuti in Sicilia e fuori, vi sono stati gli arresti in massa di contadini e di lavoratori ignoti, le cui conseguenze economiche e morali non sono calcolabili e che rappresentano perciò un atto di scelleratezza raffinata. Talvolta si circondò da un reggimento o da un battaglione un povero paese e si procedette ad arresti di più centinaia d’individui! Con quali criterî, dietro quali indicazioni? È questo un mistero per lo più; e quando i moventi sono noti, sono talmente laidi che destano ribrezzo. In tale forma poco prima e poco dopo che si proclamasse lo stato di assedio si procedette agli arresti in massa a Valguarnera, a Gibellina, a Lercara, a Mazzara, a Castelvetrano, a Pietraperzia, a Santa Caterina e spesso si arrestarono i disgraziati feriti e per la rabbia di non poter arrestare i morti, tal’altra si condussero in prigione i loro congiunti; e si può altamente disapprovare come inumano e sopratutto impolitico questo sistema degli arresti in massa, nei paesi nei quali avvennero gravi disordini, ma almeno lo si spiega, quando della libertà dei cittadini dispongono i militari che delle libertà non hanno un adeguato concetto.
Non può trovare parola di scusa il sistema quando si applica in paesi che si mantennero sempre calmi e che ebbero dimostrazioni ultrapacifiche. Di questi arresti ne avvennero prima dello Stato di assedio; ma dopo assunsero proporzioni da fare supporre che coloro che li ordinavano erano invasi da una[271] vera mania. Io non ho una statistica delle persone che furono private della libertà dal 1º di Gennaio in poi; ma spigolando nella collezione del Giornale di Sicilia solamente dal 15 al 31 Gennaio, si arrestarono i cittadini a decine e a centinaia per ogni luogo: a Racalmuto, Favara, Menfi, Raffadali, Terranova, Mazzara, Niscemi, Camporeale, Caltanisetta, Salemi, Palermo, Cattolica, Calatafimi, Castelvetrano, Castrogiovanni, Palma-Montechiaro, Marsala, Mazzarino, Castellammare, Santa Ninfa, Mussomeli, Bronte, Ciminna, Baucina, Marianopoli, Riesi, Lentini, Montallegro, Castelbuono, Sommatino, Villarosa, Centuripe, Aidone, Pedara, Sciacca, Bisacquino, Francofonte, Campofelice, Paternò, Belmonte-Mezzagno, Monterosso-Almo, Gangi, Poggioreale, Prizzi, Contessa Entellina, San Mauro, Noto, Ragusa, Modica, Trapani, Adernò, Riposto, Leonforte, Assoro, Agira, Catania, Militello, Vizzini, Scordia, Gratteri, Mascalucia, Gerace-Siculo, Giuliana, Acireale, Acicatena, Viagrande, Licodia-Eubea, Regalbuto, Messina, Misilmeri, Sperlinga, Nicosia, Randazzo, ecc., ecc.
Questi enumerati, sono oltre settanta paesi dove si procedette ad arresti in quindici giorni; sono quelli dove il Giornale di Sicilia ha corrispondenti, che lo hanno avvisato di ciò che avveniva; tenendo conto, quindi, degli altri dei quali nessuno si curò di scriverne al giornale e di quelli nei quali gli arresti si verificarono prima o dopo il periodo compreso tra il 15 e il 31 Gennaio; si può essere sicuri che non vi è stato piccolo o grande comune di Sicilia che non abbia dato il proprio contingente, piccolo grande, alle prigioni dello Stato. E i carcerati[272] devono essere stati a migliaia e forse si è dovuto pensare che c’era un modo di risolvere la questione sociale in Sicilia: quello di mantenere gli affamati a spese dello Stato nelle prigioni.
Per molti l’arresto è stato seguito dall’invio a domicilio coatto! Oltre mille, infatti si crede che siano i cittadini inviati nelle isole senza alcun processo.
Il Giornale di Sicilia è temperatissimo e i suoi corrispondenti sono reclutati in grandissima maggioranza tra le file delle persone tranquille e che non hanno fisime in testa da poterle far qualificare come sovversive; pure quasi tutti scrivono al giornale (che è devotissimo all’on. Crispi), nel dare conto degli arresti di ricchi e di poveri, di proletarî e di proprietarî, di studenti, e di operai, di consiglieri, maestri e segretari comunali, di donne, di vecchi ed anche di fanciulli, scrivono, ripeto: che il paese è sorpreso e indignato degli arresti e che gli arrestati spesso lasciano le famiglie nella più squallida miseria e che la loro partenza, essendo ammanettati e di ordinario tra due file di soldati, ha dato luogo a scene drammatiche e strazianti. Il terrore ha soggiogato tutti, e tutti temendo di essere ghermiti dagli agenti del Regio Commissario straordinario si danno alla fuga e rimangono abbandonate le case o abitate da povere ed isolate donne; e rimangono deserte le campagne ed abbandonati i lavori agricoli!
Quando gli arresti non si possono giustificare e spiegare col pretesto della cospirazione e del relativo processo si afferma dalle competenti autorità che sono stati colpiti i malviventi, i pregiudicati, gli ammoniti. Menzogna spudorata! E che sia menzogna[273] lo prova lo arresto di alcuni la cui notoria rettitudine pubblica e privata è al disopra di ogni sospetto, la cui reputazione non può essere mai insozzata dalla bava dei poliziotti, dei delatori, dei miserabili che hanno colto la favorevole occasione per fare le loro private vendette. Tale è il caso di Mario Aldisio Sammitto, ricco, coltissimo e mite pensatore, di Salerno-Vinciguerra da Terranuova, di Amato-Cotogno, e del D.r Salvati, di Cortese Pinnavaja da Caltanissetta, di Ballerini, Colnago e Crimaudo da Palermo, dei Di Lorenzo, milionarî, da Gibellina, del D.r Crescimone da Niscemi, di Agesilao Porrello da Villarosa, di Lo Sardo, studente, da Naso, di Bruno da Milazzo, dell’avv. Rao da Canicattì e di cento altri di cui adesso non mi viene alla memoria il nome. Alcuni sono stati tra i più energici e più fortunati nel mantenere l’ordine nel periodo dei tumulti: tra questi merita specialissima menzione l’avv. Gaetano Rao. Altri sono stati rimessi in libertà: Amato, Salvati, Crescimone, Porrello; ma vi sono stati quelli, che come volgari malfattori sono stati deportati all’isola di Favignana, di Tremiti, ecc. Tale sorte durissima toccò allo studente Lo Sardo di Naso, al Pinnavaja di Caltanisetta. Nessuno ha osato formulare un accusa contro il primo: l’università di Messina—studenti e professori—ha levato sdegnata la voce; e in quanto al Pinnavaja, che conosco personalmente da molti anni assicuro e garantisco sul mio onore e sulla mia coscienza, che mentisce e calunnia chiunque osa dipingerlo come malvivente o pregiudicato e sinanco[274] come politicamente pericoloso, poichè egli ha l’animo mite di una fanciulla![56]
Mentre scrivo—luglio 1894—sette mesi sono trascorsi dal giorno della proclamazione dello Stato di assedio, l’ordine non è stato menomamente turbato e le prigioni d’Italia rigurgitano ancora di prigionieri siciliani, e a Favignana, Pantelleria, Lampedusa, Ponza, Ustica, Lipari, Tremiti, Porto Ercole, ecc., si contano a centinaia i cittadini condannati a domicilio coatto senza alcun processo e spessissimo senza che mai per lo passato abbiano avuto da fare colla giustizia e colla polizia.
Lo strazio fatto della libertà individuale—il più prezioso dei diritti—è stato completato da quello della libertà di riunione e di associazione. Quando la reazione stende le unghie adunche per violare il diritto di riunione e di associazione lo spettacolo, ora si fa grottesco, ora volge al serio ed al doloroso. I Fasci dei Lavoratori in generale non aspettarono le ingiunzioni del generale Morra di Lavriano per isciogliersi; quando fiutarono per l’aria ciò che si apparecchiava contro di loro, spontaneamente si sciolsero e divisero la modesta mobiglia tra i socî o la regalarono ad istituti pii; fecero in pezzi i gonfaloni e li conservarono come un caro ricordo e colla speranza di poterli riunire in un non lontano e meno triste[275] avvenire; bruciarono gli elenchi dei socî e divisero ai poveri lo scarso peculio, dove c’era. Ma i rappresentanti delle autorità non sapevano darsi pace di queste auto-dissoluzioni, volevano darsi il gusto di perquisire, di frugare, di sequestrare; nell’auto-dissoluzione scorgevano un tranello ed una futura e immediata ricostituzione: e frugavano nelle stanze vuote che furono sede dei Fasci, e quando nulla potevano ghermire, acchiappavano chi per un meschino stipendio—senza la menoma pretensione politica—aveva fatto da custode. In un punto si sequestra con grande ardore la tabella di legno sulla quale era scritto: Fascio dei Lavoratori, mentre l’economo ex-Presidente la faceva staccare per condurla a casa e far cuocere la minestra; in un altro, un bravo e buon delegato di Pubblica Sicurezza prega che gli si faccia trovare nei locali un oggetto purchessia, che appartenne al Fascio, per far contento il suo prefetto e promette in contraccambio di mostrarsi moderatissimo negli arresti..... Nè il furore si sfoga soltanto contro i Fasci, ma si sciolgono pure le innocue società di mutuo soccorso, che non sono se non onesti ritrovi serali pei lavoratori non dediti all’ubriachezza; e si colpiscono le associazioni sfegatatamente monarchiche, denominate: Regina Margherita, Principe di Napoli, Francesco Crispi... Si dirà, che dichiarata la guerra al diritto di riunione e di associazione la guerra si fa con lealtà e trattando tutti alla stessa stregua? Nossignori, poichè vengono rispettati e tenuti aperti i clubs, i cosidetti Casini dei civili, costituiti e frequentati dall’aristocrazia e dalla borghesia. I maligni hanno interpretato l’eccezione come un odioso stratagemma[276] per aizzare viemaggiormente l’odio tra le diverse classi sociali, per rendere sempre più invisi li cappedda ai popolani; e questo stratagemma sarebbe più efficace degli articoli di certi giornali settimanali che il Pubblico Ministero sequestra con tanta rabbiosa premura.[57]
Quando si arriva al sequestro dei telegrammi da e pel continente, e dei giornali di tutti i colori l’arbitrio suscita, a seconda dei temperamenti, il riso o la indignazione.
Il generale Morra di Lavriano non permise mai che venissero divulgati in Sicilia i più innocenti commenti e le notizie più esatte che circolavano liberamente da Susa a Reggio Calabria; nè che per telegrammi si conoscesse nel continente la verità sulle condizioni dell’isola. Vero è che egli dovette sentire gran rammarico perchè si sentì impotente a sopprimere le corrispondenze epistolari; però di tale impotenza si vendica sequestrando i giornali invisi. E sequestra di preferenza il Secolo, il Messaggero, il Don Chisciotte, il Roma, il Corriere della Sera, financo l’ufficiosa Tribuna, e sequestra... l’Illustrazione Italiana per certe figure sospette di contadini, che il corrispondente Ximenes aveva riprodotte. L’Austria fu sorpassata, poichè a Trieste sua eccellenza Rinaldini, nei peggiori tempi della guerra all’irredentismo, non dette la caccia ai giornali italiani come sua eccellenza Morra di Lavriano la dette in Palermo. E dico in Palermo, poichè se i giornali arrivavano[277] per la via dello stretto nel resto dell’isola potevano circolare liberamente.
Pochi esempî per dare un’idea di questa libidine di sequestri di telegrammi. Sequestra il telegramma da Palermo alla Tribuna e al Secolo, che riproduce un brano del discorso inaugurale dell’anno giuridico del Procuratore generale Sighele; sequestra il sunto telegrafico, trasmesso da Roma al Giornale di Sicilia di un articolo della Riforma, di cui è proprietario l’on. Palamenghi-Crispi; sequestra parte di un telegramma da Girgenti al Secolo in cui era detto che era stata ascoltata attentamente una mia deposizione innanzi al Tribunale penale; sequestra un telegramma da Catanzaro al Giornale di Sicilia, in cui si dava conto di una seduta tempestosa del Consiglio Comunale e nella quale si era protestato contro un telegramma del sindaco, apologetico pel questore Lucchese e di smentita ad una testimonianza dell’on. Altobelli innanzi al Tribunale di Guerra in Palermo; sequestra il telegramma con cui il corrispondente romano del Giornale di Sicilia riferiva lo svolgimento della interrogazione alla Camera dei Deputati sul precedente sequestro; sequestra un telegramma da Palermo alla Tribuna, in cui si accennava alla deficienza... di ospedali; e quando è stanco di sequestrare telegrammi e giornali S. E. il Generale Morra di Lavriano fa sequestrare in Messina i pericolosissimi garofani rossi...
Questa mania di sequestri fu forse il prodotto dell’eccitamento morboso, e della paura dei primi momenti quando da per tutto si vedevano cospiratori e bande armate? Oibò: il sequestro del telegramma per la deficienza degli ospedali di Palermo[278] è della metà di luglio. Sicuramente a tanto non sarebbe arrivato Maniscalco, ch’era ai servizî di un governo assoluto ed agiva conformemente; ma quello era una persona seria.[58]
Pari intelligenza e pari liberalismo ed equanimità si mise nello esercizio della censura preventiva, poichè è bene sapere che per un certo tempo le bozze di stampa dei giornali erano esaminate e non potevano pubblicarsi senza il permesso dei superiori. Si vede che il generale Morra di Lavriano volle far godere ai Siciliani lo spettacolo della risurezione frammentaria del regime pontificio, per far loro meglio apprezzare i benefizî del regime costituzionale italiano sotto il quale semplicemente si sequestra. E per siffatta censura preventiva i giornali spesso si ponevano in vendita con delle intere colonne in un bianco candidissimo, che rappresentavano gli articoli pei quali non era stato accordato il sabaudo: imprimatur!
Dopo la censura, si ha la soppressione pura e semplice.
Fu soppressa l’Unione di Catania: soppressi il Riscatto, il Vespro, i Pagliacci di Messina; e soppresso in Palermo fu l’Amico del popolo, giornale monarchico che si pubblicava da trentatrè anni, e soppresso fu il Siciliano. Quest’ultima soppressione[279] merita qualche parola di più del semplice annunzio del fatto. Il Siciliano, giornale repubblicano socialista, durante lo stato di assedio sbalordì per la sua temperanza; esso, senza rinunziare ai propri ideali, tenne un linguaggio che anche ai tempi di Maniscalco, di borbonica memoria, sarebbe stato trovato correttissimo. Ma al generale Morra di Lavriano erano le idee propugnate con sincerità che non piacevano, quale che ne fosse la forma: non per nulla egli rispecchiava le tendenze reazionarie di coloro che lo circondavano! Perciò côute que côute ne giurò la morte. E siccome voleva evitare lo scandalo di una soppressione, per nessuna ragione giustificabile, cominciò coll’arrestare il redattore-capo, avv. Crimaudo, e il collaboratore assiduo, barone Colnago; al direttore, principe di Cutò, si era dato lo sfratto da Palermo sin dai primi giorni dello Stato di assedio. S’ingannò il generale sui risultati dei suoi soldateschi procedimenti e il Siciliano, ad opera di giovani valorosi e coraggiosi—Benedetto Salemi[59] Enrico La Loggia, Aurelio Drago—continuò a pubblicarsi. Corse voce di un indegnissimo ricatto: cioè, si sarebbero posti in libertà Colnago e Crimaudo purchè il Siciliano avesse cessato le sue pubblicazioni.
Questa voce fu poi smentita da un avvocato—che si diceva essere stato intermediario nelle trattative—con una lettera sibillina, ma certo è che delle proposte di quel genere ci furono, sebbene io mi rifiuti[280] a credere che siano partite dal Regio Commissario straordinario ed è probabilissimo invece che ne sia autore qualche basso arnese di questura. Certo è che quella proposta venne sdegnosamente respinta dai redattori, sicuri d’interpretare la volontà dei compagni imprigionati.
Onde, visto che erano inefficaci gli arresti, visto che non approdava la censura, visto che si respingevano sdegnosamente le proposte disonorevoli, fu decisa ed eseguita la soppressione del Siciliano. Ci fu un pretesto per la soppressione? Questa avvenne dopo la pubblicazione del Nº del 9 Febbraio per un capo-cronaca intitolato: Onore ai fucilatori! nel quale senza alcun commento si riferiscono alcuni brani dell’allocuzione del generale Morra di Lavriano di cui già si fece parola.
E di soppressione fu minacciato lo stesso Giornale di Sicilia per avere composto soltanto la deliberazione della giunta comunale di Castelbuono. Il Regio Commissario seppe che il giornale dovea pubblicare tale deliberazione e poco prima che fosse posto in vendita mandò un semplice aut aut: se la deliberazione sarà pubblicata il giornale verrà soppresso.
Com’è naturale la pubblicazione non avvenne; ma gl’italiani devono conoscere questo caratteristico documento, che riporto integralmente:
«La Giunta Comunale di Castelbuono, presieduta dal sindaco funzionante P. Barreca, vivamente impressionata protesta contro gli atti abusivi commessi dalla squadra volante di pubblica sicurezza capitanata dal delegato Breda, la quale nei giorni 8 e 9 percorrendo la strada che da questa città conduce ai due comuni finitimi di San Mauro e Geraci, a due[281] km. dal paese, commetteva delle ferocie degne di altri tempi, bastonando senza ragione e senza riguardo di età tutte le persone che incontrava, riducendo non pochi onesti cittadini nell’impossibilità di lavorare. Ciò per la sciocca pretesa di aver notizie della banda maurina.
«Tal fatto ha non solo commosso, ma sdegnato gravemente il paese che vede della povera gente malconcia a tal punto, da giacersi in un letto di dolore e nella dura necessità di non poter provvedere ai bisogni della famiglia.
«Gli offesi da un tanto briaco furore han fatto appello a questa Giunta per una riparazione e la rappresentanza sottoscritta, a tutela dei diritti dei propri amministrati che in quella barbarie vede tutti quanti crudelmente violati, sente alto il suo dovere d’informare l’illustrissimo comandante la zona militare qui di stanza, maggiore cav. Merli, per gli opportuni provvedimenti.
«E qui a giusta lode del sullodato cav. Merli, la Giunta adempie parimente l’obbligo di elogiare la condotta irreprensibile e cavalleresca della 3ª compagnia del 38º fanteria comandata del bravo capitano Abatino, degli ufficiali tutti e dei carabinieri e suoi ufficiali e di questo delegato signor Gherghi, che, pur mai venendo meno al loro compito, seppero acquistarsi l’affetto dell’intero paese.
«Gl’individui più maltrattati sono: Failla Giuseppe fu Onofrio di anni 37 muratore, Fiasconaro Rosario fu Antonio d’anni 62, Lipira Antonino fu Leonardo d’anni 53; Gennaro Vincenzo fu Pietro d’anni 52, Ricotta Santi fu Pietro di anni 50, tutti pastori.»[282]
Seguono le firme degli assessori e del funzionante sindaco.
Non aveva ragione da vendere il Regio Commissario straordinario nel volere impedire che il pubblico avesse conoscenza delle prodezze dei suoi agenti? E con queste misure—tanto abbiette, quanto i nani degli uomini che governano l’Italia—si crede di arrestare la marcia di un’idea![60].
L’ultima soppressione, però non definitiva perchè fu revocata in seguito ad interrogazione presentata alla Camera dei Deputati dall’on. Picardi e da me, avvenne alla fine del mese di Maggio e colpì, il giornale Imparziale di Messina. È notevole pei criterii, che la determinarono: fu la espressione del più schietto risentimento personale, perchè fu motivata dalla riproduzione di un articolo ironico del Mattino di Napoli contro il generale Morra, che da sè stesso si considerò, modestamente, sacro e inviolabile.
Sul disarmo c’è poco a dire. Esso sarebbe una misura capricciosa e ridicola se non costituisse un indizio delle paure della reazione trionfante. Nessuna[283] ragione lo consigliava, una volta che in tutti i tumulti di Sicilia i massacrati giammai fecero uso di armi da taglio o da fuoco; la qual cosa era tanto conosciuta, che il Tribunale di Guerra di Palermo stabilì che si potessero fare le rivoluzioni.... senza armi! ma la reazione ha pensato che ciò che non avvenne ieri potrà avvenire domani: dunque, essa disse, bisogna disarmare tutti!
Con qual risultato? I malviventi non hanno consegnato alcun’arma; molta gente per bene non le ha consegnate neppure perchè così ha inteso protestare contro l’arbitrio inaudito; delle armi si sono privati soltanto i più timidi e scrupolosi osservatori della legge, colla speranza di averle restituite a breve scadenza. Ciò che, ad onore del vero, in parte e secondo i capricci delle autorità locali, è avvenuto. Allo Stato è rimasta una splendida collezione di vecchi ed arrugginiti fucili della guardia nazionale: ma gli rimane sulla coscienza una conseguenza più grave e più dolorosa: oltre un migliaio di contravvenzioni, che dai tribunali militari furono punite complessivamente colla bellezza di 800 anni di prigione in parte scontati, quando sopraggiunse—in luglio—l’amnistia riparatrice.
La insana misura, che non ebbe l’approvazione dei reazionarî, chè in molti punti non sfuggirono ai soprusi, alle vessazioni di una polizia tanto inetta quanto prepotente—a Caltanissetta si perquisì il domicilio di un Consigliere di Prefettura ed a Piazza Armerina quello del pericolosissimo on. Lavaccara, provocando la più schietta ilarità di mezza Italia!—ebbe un’altra triste conseguenza, prevista in Parlamento nella discussione di febbraio e verificatasi[284] esattamente: l’incremento inaudito del malandrinaggio.
A rendere meno incompleto il quadro dei fasti della reazione trionfante dovrei ora occuparmi della istituzione dei Tribunali militari; ma questo grande argomento merita una trattazione a parte; qui trova posto invece una parola sul contegno conservato dalle classi dirigenti in questo sinistro periodo di ecclissamento di ogni concetto di giustizia e di legalità.
La reazione del governo non fu uguagliata che dalla reazione di una gran parte delle classi dirigenti. Queste, che per alcuni mesi si erano ecclissate e rannicchiate in modo da rendersi invisibili, o avevano fatto buon viso a cattivo giuoco, modificando i patti agrari, elevando i salarî, trattando da uomini i lavoratori, non appena il governo si mostrò forte e ristabilì l’ordine, smisero ogni ipocrisia; e gli uomini sciacalli—vili nel pericolo ma sanguinarî quando possono esserlo senza timore—sono sbucati dai loro nascondigli preparandosi alla riscossa. Ridono delle miserie dei lavoratori, si compiacciono delle fucilazioni e del sangue sparso, inneggiano agli arresti e ai processi. Le promesse fatte durante i tumulti non vengono mantenute, e le concessioni vengono ritirate. I grandi proprietarî riuniti nella sala Ragona di Palermo per cura del loro Comitato promotore, fanno voti perchè l’insegnamento ufficiale dato nelle scuole sia a base morale, e c’è chi nella stessa riunione propone che si abolisca l’istruzione obbligatoria tra gli applausi dell’assemblea! Ecco ciò che le classi dirigenti sanno escogitare e proporre per venire in aiuto degli affamati. Esse si[285] chiariscono degne del loro passato, di quel passato, che fece giudicare al senatore Zini «la Baronia siciliana ignava e superba e non ultima cagione del pervertimento morale, onde volentieri si rigetta tutto il carico sul mal governo dei Borboni»; esse si mostrano degne del governo attuale e questo degno di loro; formando un circolo vizioso nel cui perimetro le oligarchie, alte e basse, trovano modo di rafforzarsi e di sostenersi a vicenda, a tutto detrimento della libertà e del benessere popolare. Allegri italiani: la Sicilia ritorna allo statu quo ante tumultus!
[53] Alla riunione intervenne persona che rappresentava Bosco, Verro e Barbato, latitanti.
[54] Il telegramma-circolare è del seguente tenore: «In nome di tutti i compagni di fede vi scongiuro di mantenere calma assoluta ed evitare qualunque occasione, che possa produrre inutile spargimento di sangue, doloroso sempre e dannoso adesso principalmente per la causa dei lavoratori—occorre che la vostra attitudine pacifica, serena, dimostri superflua ogni misura repressiva. Cessati i disordini, resterà l’impegno al governo di riparare a quella parte dei vostri mali, che ha ora riconosciuto.—È necessario attenderlo all’opera promessa, augurando che possa vincere la resistenza delle camarille locali, cointeressate al mantenimento delle attuali ingiustizie, e sappia riconoscere i vostri diritti sinora conculcati. Le condizioni attuali impongono questa condotta. Chi consiglia altrimenti è pazzo o traditore.»
[55] L’on. Comandini in una lettera pubblicata nel Corriere della sera in risposta ad altra dell’on. Saporito-Ricca, disse che lo stesso on. Crispi gli confessò le pressioni, che gli si facevano in favore della reazione.
[56] Pel Pinnavaja e pel Giannone da Caltanisetta intercedettero la società dei militari in congedo e il colonnello Pittaluga del 27º Reggimento fanteria. L’on. Conte Testasecca si rese garante del Pinnavaja: ma il De Rosa, Prefetto di Caltanissetta tenne duro nel volerlo mantenuto a domicilio coatto. Il De Rosa cadde in numerose contraddizioni per giustificare il proprio operato.
[57] Passati i primi furori della reazione molte società operaie di mutuo soccorso si lasciarono ricostituire e si permise la riapertura delle loro sedi. Ciò per la verità.
[58] La guerra fatta ai telegrammi ordinari divenne proibizione assoluta pei telegrammi in cifre e con linguaggio convenzionale, che molti negozianti adoperano a risparmio di spese coll’estero. Solo in Giugno il Generale Morra si accorse, che poteva lasciar passare in linguaggio convenzionale la richiesta o l’offerta di un carico di aranci senza pericoli per la patria!
[59] Colgo qui l’occasione per testimoniare a questo egregio e mio caro amico, tutta la mia riconoscenza per la sua cooperazione attiva e intelligente prestatami nella pubblicazione di questa seconda edizione.
[60] Sento il dovere di segnalare l’attitudine dignitosa e indipendente del Giornale di Sicilia di fronte all’invadere della marea reazionaria. Invece seguì ed incoraggiò la più bieca reazione Il Corriere dell’Isola, dopo che ne lasciò la direzione l’Avv. Sangiorgi che non avea disdegnato in altri tempi di collaborare nell’Isola.
Ma la storia della protesta della Giunta di Castelbuono dev’essere completata: furono chiamati uno ad uno i consiglieri comunali e invitati a riunirsi di nuovo per dire che la precedente protesta era una cosa... da burla. Così fecero perchè non si sentirono l’animo di farsi arrestare e mandare a domicilio coatto....
Il fatto più esorbitante dello Stato di assedio proclamato in Sicilia è nella constituzione dei Tribunali di Guerra ai quali non solo furono sottoposti i civili, ma, con una violazione aperta del diritto lo furono anche per quei reati commessi avanti la stessa proclamazione dello Stato d’assedio. Onde si può dire che quei tribunali servirono come efficacissimo strumento di reazione.
Giova rilevare anzitutto col Brusa che, a uno a uno, i precedenti in fatto di Stato di assedio, nè autorizzavano nè consentivano, in maniera qualsiasi, la manomissione delle leggi, e degli articoli espliciti[287] dello Statuto, per la quale solamente fu possibile la istituzione dei Tribunali militari.
Nello Stato d’assedio proclamato a Genova nel 1849, a Sassari nel 1852, in Sicilia e nel Napoletano nel 1862, in Sicilia nel 1866, non si rinviene cosa alcuna che possa considerarsi come un precedente di quello che si fece nel 1894 in Sicilia e nella Lunigiana.
Le condizioni politiche di Genova, nel 1849, erano talmente gravi ed eccezionali che non si può in nessun modo paragonarle a queste di Sicilia del 1894, eppure all’articolo 9 della regia ordinanza che le impose lo Stato d’assedio era detto: «Continueranno i giudici, i tribunali e i magistrati ad esercitare la loro giurisdizione a seconda delle leggi vigenti, salvo nei reati contro la sicurezza dello Stato ed in quelli per il porto e la ritenzione d’armi, i quali potranno essere giudicati da un Consiglio di guerra, che applicherà le pene portate dal codice penale militare e, nei casi da esso non previsti, quelle stabilite dalle leggi penali comuni.»
Questa prima constatazione vale a priori a dare una idea della esorbitanza del Regio Commissario straordinario che istituì i Tribunali di guerra e della illegittimità dei medesimi. La illegittimità e la incompetenza loro risulta altresì evidente per una serie di ragioni e di osservazioni, che sono costretto[288] a riassumere, non potendo estesamente esporle in un lavoro, che non ha indole giuridica.
I Tribunali militari non potevano conoscere dei reati commessi dai civili, perchè gli articoli 70 e 71 dello Statuto octroyè da Carlo Alberto, esplicitamente stabiliscono: «Non si può derogare alla organizzazione giudiziaria se non in forza di una legge. Niuno può essere distolto dai suoi giudici naturali. Non potranno perciò essere creati tribunali o commissioni straordinarie.»
Il potere esecutivo, dunque, col regio Decreto del 3 Gennaio col quale affidava i pieni poteri al generale Morra di Lavriano non poteva a lui delegare quelle facoltà, che non aveva. Quando il bisogno esista di modificare lo Statuto o di derogare temporaneamente ad alcuna delle sue disposizioni, questa facoltà non competerà certamente al potere esecutivo, il quale nessuna legge può fare o sospendere (art. 6 dello Statuto) e molto meno può toccare alla legge fondamentale dello Stato (Impallomeni).
Che il potere esecutivo non abbia tale facoltà—ed è evidente che non possa averla in un regime costituzionale—risulta dagli stessi precedenti della nostra storia; infatti esso quando ha sentito bisogno di poteri dittatoriali od eccezionali per ragioni di difesa esterna e di difesa interna ha chiesto quella facoltà ai parlamenti e l’ha ottenuta con la legge del 2 Agosto 1848, con quella del 25 aprile 1859, con quella del 17 Maggio 1866 per le guerre coll’Austria; con la legge chiamata Pica del 15 Agosto 1863 per la repressione del brigantaggio; con la legge 3 Luglio 1875, non messa in esecuzione, per le condizioni della pubblica sicurezza in Sicilia.[289] Onde da questi dati si vede che se i Tribunali di guerra furono stabiliti a Genova nel 1849 ed a Palermo nel 1866, essi furono legali, poichè il potere esecutivo si trovava già investito dei pieni poteri in forza delle cennate leggi speciali del 1848 e del 1866.
Nè si obbietti, che quei Tribunali possono diventare legali di fronte a casi straordinarî e impreveduti, perocchè il Codice e la procedura penale hanno preveduto l’avvenimento di fatti che in modo straordinario compromettano l’ordine pubblico e li ha preveduti lo Statuto, il quale vietando alle autorità di ricorrere in questi casi a provvedimenti straordinarî, ha provveduto alla propria incolumità. Si può infatti immaginare, che alcuno pensi a creare Tribunali o Commissioni straordinarie—vietate dall’art. 71 dello Statuto—in tempi normali? (Impallomeni).
La storia dell’art. 6 dello stesso Statuto Albertino, corrobora poi pienamente tale corretta interpretazione. Questo articolo, che vieta al Re di sospendere l’osservanza delle leggi o dispensarne, fu copiato dall’art. 13 della Carta francese del 1830, e questo fu alla sua volta desunto dall’art. 14 della precedente Carta del 1814 ch’era così formulato: «Le roi fait les reglements et les ordonnances nècessaires pour l’execution des lois et la suretè de l’Etat.»
I partigiani dell’assolutismo spinsero Carlo X, con una falsa interpretazione di queste ultime parole, a pubblicare le ordinanze del 25 luglio 1830, che sospesero la libertà della stampa, modificarono la legge elettorale e sciolsero la Camera dei Deputati e provocarono[290] pure la rivoluzione. Col trionfo della rivoluzione rivedendosi la Carta del 1814 nel 1830 furono soppresse le vaghe parole: Sureté de l’Etat e aggiunte le altre: sans pouvoir jamais ni suspendre les lois elles-mêmes, ni dispenser de leur execution, per impedire che rinascesse mai la pretesa di paralizzare con decreti le leggi dello Stato. (Pierantoni).
I pareri dei più eminenti giuristi—e basta ricordare tra questi il Mittermeyer—e degli scrittori politici, anche tra quelli non molto liberali, sono concordi in questa corretta interpretazione sui Tribunali militari e sulla sottrazione dei cittadini ai loro giudici naturali, ma nel caso presente si hanno due giudizi alla cui autorità tutti si devono inchinare.
Uno dei supremi corpi dello Stato, infatti, la Corte dei Conti, da principio si rifiutò di registrare il decreto di proclamazione dello Stato di assedio in Sicilia; poi a sezioni unite lo registrò con riserva con questo scultorio motivato: «Considerato che il provvedimento eccezionale, com’è definito dallo stesso governo, determinato da ragione politica, esce dai confini della legge scritta, dalla quale non trae norma.»
Si poteva, forse, più esplicitamente di così, dichiarare che il decreto del 3 gennajo, con tutte le sue conseguenze—tra le quali la costituzione dei Tribunali di guerra—è stato illegale?
Ma il governo stesso, implicitamente, ha fatto la stessa preziosa confessione; imperocchè esso, dando pienamente ragione agli scrittori Arangio Ruiz, A. Majorana, Vidari, Contuzzi, Brusa, Impallomeni, Pierantoni ecc., che in questa occasione dolorosa sostennero non potersi applicare le disposizioni del Codice[291] penale militare che si riferiscono allo Stato d’assedio guerresco, allo stato di assedio politico o fittizio, sì è accorto della lacuna che esiste nelle nostre leggi—che lacuna non è, ma voluto silenzio a garenzia dei diritti dei cittadini consacrati dallo Statuto—e dopo compilato il nuovo codice penale militare mentre era sotto esame della Commissione del Senato, vi ha aggiunto l’articolo 337 bis, che dice: Lo stato di guerra può essere anche dichiarato in caso d’insurrezione o d’imminente pericolo della pace pubblica. Ora se il potere esecutivo aveva già il diritto di equiparare lo stato di assedio guerresco a quello politico, qual bisogno aveva esso di presentare l’articolo aggiuntivo?
A proposito del quale articolo 337 bis, il relatore sul nuovo Codice penale militare, Senatore Costa, osservò:
«Il dubbio che un comandante possa dichiarare lo stato di guerra non deve rimanere nel testo: se mai questa facoltà si volesse ottenere, è necessario escluderla. È facoltà sconfinata, che non è giustificata da alcun principio, che non è imposta da alcuna necessità. È sconfinata e pericolosa, perchè pone alla mercè di un comandante d’armi il potere di costituire un regime eccezionale e l’esercizio di un potere eminentemente politico, che al solo governo, sotto il peso della sua responsabilità politica, deve essere riconosciuto.»
Ammesso, dunque, che il nuovo Codice penale militare col suo articolo aggiuntivo, dichiarato sconfinante e pericoloso da un conservatore, partigiano del governo, e suo dipendente anche—perchè il senatore Costa è un alto funzionario dello Stato[292]—venga approvato dal Parlamento e sanzionato dal Re, è certo ch’esso ancora non è legge e finchè ciò non sarà bisognava e bisogna rispettare il diritto vigente. (Brusa) Resta perciò provato che il Regio decreto col quale si proclamò lo Stato di assedio in Sicilia e gli atti consecutivi del Regio Commissario straordinario coi quali s’instituirono i Tribunali di guerra assoggettando ad essi i civili, violano lo Statuto fondamentale del regno e le sue leggi. Nè valgono a dimostrare il contrario le miserevoli argomentazioni degli epigoni dell’on. Crispi, i quali contorcono la storia e la logica con la speranza di giustificarlo dalla grande accusa di avere violato la Costituzione.
Ora uno dei più eminenti scrittori di diritto costituzionale, il monarchico e dinastico prof. Casanova, nota: «un governo costituzionale cessa di esistere tostochè più non esiste la Costituzione: essa non esiste tosto che fu violata. Il governo che la viola lacera il proprio titolo a governare: da questo istante può ben sussistere in virtù della forza, non già in virtù della Costituzione.»
La più mite e legale illazione di questo canone rettissimo di diritto costituzionale la trassero gli on. Prampolini, Badaloni, Ferri, Agnini e Berenini i quali—più rispettosi delle leggi che coloro i quali se ne dicono i custodi—proposero alla Camera dei Deputati di porre in istato di accusa il ministero presieduto dall’on. Crispi, che aveva violato la Costituzione. E in istato di accusa fu messo in Francia nel 1830 il ministero Polignac per avere violato colle ordinanze di luglio la Carta del 1814.
Ma là la rivoluzione era trionfante e in Italia la[293] vittoria era, incontrastata, del potere esecutivo; la Camera dei deputati, quindi, ghignò sul viso ai socialisti che invocarono il rispetto delle leggi e dello Statuto, e s’inchinò reverente dinanzi alla forza trionfante!
Se i Tribunali di guerra erano illegali nella loro origine, la loro istituzione, guardata da un elevato punto di vista, doveva considerarsi come impolitica, nè da essi poteva emanare equanimità di giudicati.
Invero i militari, di fronte ai cittadini che hanno vinto e domato nelle dissensioni civili, non possono essere imparziali, poichè per quanto essi siano leali, per quanto la compagine dell’esercito sia nazionale, è umano che nelle lotte si destino risentimenti e che nel cuore di coloro che si sentirono offesi e rimasero vincitori alberghi il desiderio della vendetta per quanto attenuato e represso da un alto senso del dovere. Di più i militari rappresentano il potere esecutivo contro il quale si levano i ribelli; essi, quindi, sono giudici e parte direttamente interessata nello stesso tempo.
Quest’ordine di considerazioni non è teorico ma ebbe altrove la sua esplicazione pratica e ne venne riconosciuta la giustezza. Ben a ragione il senatore A. Pierantoni ha ricordato che la quistione non è nuova nella storia delle guerre civili e che il caso del maresciallo Ney avrebbe dovuto servire di esempio e di ammaestramento.
«Quando Napoleone dall’isola d’Elba sbarcò nel golfo di Iuan ai 5 marzo 1815, per riprendere l’impero della Francia, il maresciallo Ney fu scelto dal re Luigi XVIII per tagliare la via della capitale all’insensato perturbatore della pubblica quiete.»[294]
Ney, impotente a trattenere le onde del mare, tornò alla causa di Napoleone.
«Dopo la battaglia di Waterloo e la seconda abdicazione di Napoleone, Luigi XVIII volle deferire ai consigli di guerra i colpevoli di aver tradito il re prima del 23 marzo, e di avere attaccata la Francia e il suo governo a mano armata. Con ordinanza del 24 luglio mandò Ney, Cambronne ed altri ai giudici militari. Il maresciallo fu difeso da Berryer, padre, che sostenne l’incompetenza del Consiglio di guerra. Queste furono le ragioni sostenute: il giudizio su preteso crimine di Stato non essere domandato ad un Consiglio di guerra. Il sovrano, capo dell’esercito, si osservò, non poteva pronunziare in causa propria, per giudizio dei suoi ufficiali. L’articolo 33 della Costituzione affidava alla Camera dei Pari la procedura per i crimini di alto tradimento. Gli articoli 62 e 63 vietavano di sottrarre un prevenuto ai suoi giudici naturali. Il re per un altro articolo del Patto costituzionale stretto con la nazione aveva renunziata la potestà di creare tribunali straordinari. Il Consiglio di guerra si dichiarò incompetente con la maggioranza di cinque voti contro due. Il maresciallo fu giudicato e condannato dalla Camera dei Pari.»
Ma questi timori si sono mostrati vani e infondati nel caso disgraziato, che esaminiamo? Questo sarebbe stato certamente l’ardente desiderio di ogni italiano; ma pur troppo i fatti corrisposero alle sinistre previsioni e il Brusa, temperatissimo uomo e alieno dalle lotte politiche, è stato costretto di fronte alle sentenze dei Tribunali di guerra ad esclamare: À la guerre comme à la guerre! e: «odio o vendetta[295] entrano soltanto in iscena quando al Te Deum laudamus si mesce il Vae victis.»
L’ordine venne ristabilito in Sicilia e i vincitori poterono ringraziare Iddio; l’odio e la vendetta hanno fatto il resto a danno dei vinti!
Dopo la quistione della legalità e della presunta ingiustizia dei giudizi dei Tribunali di guerra, quella della retroattività della loro competenza è la più importante. E su questo terreno non solo furono violate le leggi e i principî più inconcussi del diritto, ma si riuscì anche alle più manifeste contraddizioni nelle dichiarazioni e negli atti dei Regi Commissarî straordinarî in Sicilia e in Lunigiana.
In ordine a queste contraddizioni sta che il generale Morra di Lavriano negli editti dell’8 e del 20 gennaio 1894—coi quali veniva istituita la giurisdizione straordinaria dei Tribunali di guerra in Sicilia—disse: «saranno deferiti al giudizio del Tribunale di guerra ecc. ecc.»; dunque previde reati che nel futuro dovevano essere deferiti al Tribunale di guerra, non reati dei quali il Tribunale avesse l’obbligo di prender cognizione al momento della promulgazione dell’editto. (Impallomeni). Più esplicito era stato il generale Heusch in Lunigiana. In seguito al decreto del 17 gennaio, che istituiva la giustizia marziale vi fu la circolare del 20 che ad essa attribuiva la competenza pei reati commessi dopo la proclamazione dello Stato di assedio. Ma il Tribunale penale di Massa e Carrara dichiara la propria incompetenza nella causa Molinari e il 25 lo stesso generale Heusch con altra circolare annulla quella del 20 e proclama la retroattività! Il[296] Generale Morra di Lavriano, più furbo, non constatò la propria contraddizione, ma non vi sfuggì.
Che cosa pensare di queste contraddizioni stridenti? «Legge e stabilità o identità di pensiero legislativo sono termini, che si richiamano a vicenda indissolubilmente. Volere e disvolere a un tempo, cioè a distanza di soli cinque giorni, sarà consentito, e richiesto forse, nell’ordine interno degli ufficî amministrativi, e le circolari interne così talora fanno. Ma la maggiore offesa, che possa recarsi ad un legislatore—e lo erano i due Regi Commissarî straordinarî di Sicilia e di Lunigiana—sarebbe proprio quella di ritenerlo capace di fare egli pure altrettanto, e segnatamente di prevalersi di semplici circolari, cioè di atti inefficaci, per determinare, se già non fossero determinati, o per alterare poi, rapporti giuridici, precisamente affine di determinarli o di alterarli.»
«Sarebbe poi assurdo e barbaro, perchè niente vi ha di più contradittorio in sè e contrario alle norme di giustizia, che l’apprestare agli abitanti le garenzie maggiori dalle sorprese terribili di una repressione straordinaria ed eccezionale durante il tempo più calamitoso della guerra vera, per riservarne di minori ed insufficienti durante quello di un semplice così detto stato d’assedio politico fittizio: vale a dire quando appunto la coesistenza dei rapporti generali del tempo di pace, tuttora rimasti, rende sopratutto necessario avvertire bene che si applicheranno, e in quale misura, anche norme eccezionali proprie solo dello stato di guerra.» Così il prof. Brusa.
A parte questa contraddizione tra gli atti e le[297] dichiarazioni dei Regî Commissarî straordinarî, resta pur sempre che la retroattività è violatrice delle nostre leggi e dei principî del nostro diritto. L’articolo 2º delle disposizioni generali premesse al Codice civile consacra il canone supremo della irretroattività delle leggi; ed in proposito giova ricordare che nella discussione della Commissione generale per la revisione dei Codici nel 1865 si fece cancellare un inciso che c’era nel progetto presentato dal Ministero in cui si accennava al caso in cui la si potesse ammettere quando la legge così espressamente disponga.
Il senatore De Foresta ritenne indecoroso per l’Italia che una sua legge potesse ammettere la retroattività; e l’on. Bonacci aggiunse che «sarebbe sconveniente e quasi scandaloso il ricordare tale eccezione nel nuovo Codice italiano, perchè si potrebbero così ridestare le tristissime memorie dei caduti governi della penisola, che violavano tante volte per mire politiche il sacrosanto principio della non retroattività delle leggi.»
Adesso, i governi caduti, on. Bonacci, sono stati riabilitati dal governo italiano che il principio ha impunemente violato precisamente per mire politiche, a malgrado che per pudore, trent’anni or sono, i nostri giureconsulti non abbiano voluto ammettere nemmeno la possibilità che ciò si potesse fare anche in forza di una legge!
Non si danno per vinti i tristi difensori dell’arbitrio sfrenato e della prepotenza militaresca, e facendosi forti anche del parere del Carrara,—che pur si sa quanto avversasse la ingerenza del potere politico nelle cose della giustizia—e di altri[298] eminenti giureconsulti, non esitano a dire che il principio della non retroattività delle leggi non è applicabile alla procedura e alla competenza «a quelle leggi cioè, che stabiliscono le forme dei giudizî e la ripartizione della giurisdizione tra i varî magistrati in quanto questa ripartizione ha tratto colle forme del giudizio.» (Muratori e Giannini). Ma la giustificazione cade quando si riflette, che questa limitata retroattività nella procedura e nella competenza si può invocare ed è stata invocata quando ad una giurisdizione ordinaria si è sostituita un’altra giurisdizione ordinaria e non quando se ne sostituisce una straordinaria ed eccezionale, poichè precisamente in questo caso intervengono le ragioni accennate, che a guarentigia vietano l’impero retroattivo della legge, per la necessità che la nuova legge sia posta al disopra di ogni sospetto di mire politiche retrospettive.
E la retroattività anche in questi casi è da respingersi, perchè oltre che gli accusati si trovano dinanzi a giudici non legittimi e contro di loro prevenuti ed animati del sentimento della vendetta, essi pel fatto di vedersi sottoposti ad una giurisdizione straordinaria vengono già privati di importanti garanzie di cui avrebbero goduto colla giurisdizione ordinaria. «Difatti, mentre coloro, che sono accusati in Corte d’assise sono stati prima giudicati in Sezione d’accusa, ed hanno quindi potuto presso la medesima difendersi, gli accusati in Tribunale di Guerra non hanno potuto fruire di questo vantaggio. In secondo luogo il loro diritto di difesa presso i Tribunali di Guerra è stato in fatto limitato, benchè per falsa applicazione di[299] legge, perciò che non è stato loro riconosciuto il diritto di scegliersi un difensore civile. E un terzo motivo di disfavore verrebbe da ciò che il diritto di ricorrere in Cassazione sarebbe limitato ai vizî d’incompetenza e di eccesso di potere.» (Impallomeni).
Laonde saviamente il citato prof. Casanova a proposito della non retroattività delle leggi in materia di competenza sancita dallo Statuto aggiunge che «anche il concorso di tutti i poteri dello Stato non potrebbe sottrarre un cittadino ai giudici che le leggi esistenti gli accordano, e tramandarlo innanzi ad un tribunale straordinario, creato dopo che avvenne il fatto per cui si vuole procedere... La violazione delle forme prescritte, ordinata dai mandatarî del popolo non è più legittima del linciaggio. È un assassinio per procura.»
Per tali motivi molti codici penali stranieri—il bavarese e l’austriaco tra gli altri—esplicitamente escludono la retroattività nel caso di costituzione di un Tribunale straordinario, in conformità del parere di eminenti giureconsulti (Kleinschrod, Zachariae, Berner, Odilon Barrot, Glaser ecc.) e di sentenze dei Tribunali e della Cassazione di Francia.
Nulla di più vergognoso alla nuova Italia di ciò che, violando, hanno voluto operare i suoi governanti in questa occasione.
Il prof. Brusa con profonda amarezza rileva che l’Austria, nelle sue repressioni dei moti nazionali del Lombardo-Veneto—moti che dovevano essere liberali—non applicò mai il giudizio statario ai fatti anteriori alla sua proclamazione. L’Austria maestra di libertà e di rispetto delle leggi all’Italia di G.[300] Mazzini e di G. Garibaldi: ecco una cosa, che parrebbe assolutamente impossibile se non fosse vera!
Oh che fremiti di vergogna voi avreste, poveri grandi martiri, che deste il sangue e consacraste la vita alla patria Italiana per vederla, o appena sperarla, libera dallo straniero! quali mai impeti d’ira i vostri, se poteste sapere quanto la terza Italia, che dicono libera, è al di sotto dell’abborrito impero Austriaco per tutto quello che risguarda le disposizioni e le forme del giudizio statario!
Per tutti gli infiniti vostri sacrifici voi vi sentireste traditi.
Non ultima delle enormità dei processi che si perpetrarono dinanzi ai Tribunali di guerra fu la negata difesa civile agli imputati. I Tribunali di guerra con interpretazione grettamente farisaica del Codice penale militare respinsero in tutti i casi la istanza degli imputati per la libera scelta di un difensore tra gli avvocati esercenti: poggiando le loro decisioni sull’articolo 544 di detto Codice che consente all’imputato di potere scegliere il difensore fra gli uffiziali presenti, che non abbiano un grado maggiore a quello di capitano.
Si lasci da parte il fatto che viene diminuita sostanzialmente la difesa che i nostri Codici vogliono affidata a persona capace—e i militari, per quanto valorosi in guerra e competenti nella loro arte, non potranno mai dirsi persone capaci nelle quistioni di diritto e nello esercizio della avvocatura—ma colla interpretazione data col citato articolo si è violato lo spirito e la lettera della legge.
Il legislatore ha disposto e statuito in vista della guerra, e si comprende che mentre l’esercito è in[301] campagna non è possibile rispettare tutte le forme procedurali e che molte volte, perciò, tutto è rimesso alle circostanze del momento; per questo motivo non nel solo articolo 544 si adoperano frasi, che indicano la intenzione che si faccia il possibile (l’imputato potrà scegliere il suo difensore fra gli uffiziali presenti ecc.), ma anche nell’art. 545 vien detto che gli uffiziali istruttori, l’avvocato fiscale ed il segretario potranno scegliersi fra i militari, secondo le circostanze. La chiarissima intenzione del legislatore, infine, emerge, dall’art. 551 dello stesso Codice penale militare, che stabilisce: «Innanzi i tribunali militari, in tempo di guerra, si osserveranno, per quanto sarà possibile, le regole di procedura stabilite pel tempo di pace...» E in tempo di pace gl’imputati innanzi i Tribunali militari hanno il diritto di scegliersi il difensore tra gli avvocati esercenti.
Si vorrà forse dire che le circostanze erano tali che non resero possibile il rispetto delle procedure stabilite in tempo di pace?
Infatti,... i più valorosi avvocati della Sicilia e d’Italia si erano offerti a costituire il collegio della difesa. È facile che anche appunto per questo si volle essere esclusivamente brutali nello arbitrio, menomando il diritto di difesa agli imputati politici. Onde, bene e a proposito il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Palermo, protestò energicamente—a proposta dell’avv. Vittorio Palmeri—contro l’iniqua decisione del Tribunale di guerra.
Ed anche su questo riguardo ricorrono alla mente i paragoni che suggeriscono assai malinconiche riflessioni. Gli eroici difensori di Casa Ajani nel 1867[302] in Roma—governando il Papa sotto la protezione dell’esercito imperiale francese—ebbero concessi gli avvocati civili per la difesa; e pure la tirannide borbonica rispettò in Napoli e Sicilia questo sacrosanto diritto della difesa al 1821, al 1831, al 1850, al 1858, al 1860, nel processo di Nicolò Garzilli, in quello contro Poerio, Settembrini ecc., nell’altro delle tredici vittime, sempre! L’accusa di aver negata la difesa civile agl’imputati di reato politico, mossa da Gladstone nelle famose lettere in cui chiamò negazione di Dio il governo Borbonico, parve a quest’ultimo tanto disonorante, osserva l’Impallomeni, che esso fece pubblicare una memoria dove in risposta al grande statista inglese si mostrava che l’accusa non era fondata e si concludeva: «Con fatti così bugiardi no, non poteasi mai preoccupare la pubblica opinione, e meno spargere la credenza che pessimamente nelle due Sicilie si amministri la giustizia.»
Ma dunque? Eh! dunque,—ciò che non fece il vituperato governo borbonico venne consumato dal governo liberatore e restauratore, che ebbe, però, rispetto della legge pei briganti del napoletano; ai quali si ebbe premura di accordare la difesa civile, negata ora, ai socialisti di Sicilia e della Lunigiana...
Sulle mostruose conseguenze pratiche di questa violazione del diritto di difesa non occorre insistere, basta accennare soltanto che spesse volte i Presidenti dei Tribunali di guerra imposero silenzio o comandarono di non insistere agli ufficiali difensori; i quali in omaggio alla disciplina militare dovettero sottomettersi ed ubbidire![303]
I militari adibiti nei vari processi mostrarono attitudini oratorie, ebbero un contegno superiore ad ogni elogio, mostrarono intelligenza non comune ed altrettanto coraggio. Essi difesero gli accusati a loro affidati con tutto l’affetto possibile; e tra tutti maggiormente si distinse un capitano di artiglieria simpatico e calvo—Francesco Piccoli. A tutti va una parola di lode e di gratitudine, viva e sincera.
Il fatto, considerato poi dal punto vista degli interessi di casta e del governo, fu grave errore politico, poichè non riuscì ad altro, che a fare penetrare il socialismo nelle fila della più balda ed intelligente ufficialità dell’esercito.
Mentre si manomettevano Statuto e codici, pur di sottrarre gl’imputati di reati politici ai loro giudici naturali ed ottenere la loro sicura e draconiana condanna non si osservavano altre regole essenziali di procedura nei processi e si riusciva ad un vero caos sotto un altro riguardo, sebbene non a danno degli accusati.
Perocchè in tutti i processi politici svoltosi innanzi i Tribunali di guerra della Sicilia «la giurisdizione loro non fu provocata dell’autorità competente; 1º perchè per gli articoli 552-556 del Codice penale militare per l’Esercito l’ordine di procedere doveva emanare—e non emanò—dall’autorità militare superiore presso cui esiste il Tribunale; 2º perchè per l’articolo 544 l’atto di accusa doveva essere formulato dall’avvocato fiscale militare e si fece invece consistere nella ordinanza delle Camere di Consiglio, con cui queste dichiaravano la incompetenza del magistrato ordinario, cioè la propria.»
«Vi fu dunque un processo ma non un procedimento[304] penale non essendo stata l’azione penale promossa dall’autorità militare competente; vi fu un’accusa, ma non un atto di accusa essendovi state in suo luogo l’ordinanza delle Camere di Consiglio. Chi dunque provocò la giurisdizione dei Tribunali militari di guerra? Nessuno, perchè l’autorità incompetente non ha che l’ufficio di dichiarare la propria incompetenza!»
«Come si riparò a tutte queste irregolarità mostruose; come si rispose alla loro denunzia? allegando la circolare del 16 Febbrajo 1894 emessa dal Generale Morra di Lavriano con cui ordinavasi che l’istruttoria doveva farsi dall’autorità ordinaria, l’autorità militare dovesse intervenire solamente per giudicare.» (Impallomeni).[62]
Ed ecco fornita la prova che nell’anno di grazia 1894 quando è presidente del Consiglio Francesco Crispi, la circolare di un soldato può derogare alla legge e mutare le forme dei procedimenti!
Si è visto sinora che con la creazione dei Tribunali di guerra in Sicilia, si violarono i Codici e lo Statuto, specialmente per la giurisdizione loro assegnata[305] sui non militari implicati nei moti sociali del 1893 e del 1891; per la retroattività accordata; per la negata difesa di persone capaci, cioè di avvocati esercenti; e per le altre irregolarità dianzi ricordate. Quali che siano stati i vizî capitali della istituzione dei Tribunali di guerra e nella istruzione dei processi, si sarebbe forse riusciti a farli dimenticare quando le sentenze fossero state tali, da potere essere ritenute conformi alle risultanze dei processi—comunque istruiti—e perciò eque.
Disgraziatamente vedendo all’opera questi Tribunali e questi giudici eccezionali—che giudicarono nella causa propria—si è costretti a riconoscere che la loro funzione fu altrettanto deplorevole quanto la loro origine e che gli atti corrisposero al sospetto che si ebbe sin da principio sulla parzialità dei giudici.
Il giudizio è severo, ma rigidamente esatto quale emerge dallo esame della condizione e moralità degli accusatori e dei testimoni e della natura ed origine delle pretese prove di accusa e della enormità delle sentenze e dei criteri ai quali furono ispirate e della riconosciuta innocenza di alcuni condannati.
Accusatori, testimoni ed accusati.—Da una circolare del Generale Morra di Lavriano da accenni e telegrammi dell’on. Crispi, da lettere e telegrammi dei Prefetti e sotto-prefetti nei momenti del pericolo e quando in Sicilia non c’erano ancora truppe a sufficienza, oltre che da quanto sin’ora è stato esposto sulle cause dei moti di Sicilia, emerge luminosamente, che in questi ebbero parte grandissima le ire e gli odî dei partiti locali, gli antagonismi e le lotte[306] amministrative: la partigiana, dissennata e iniqua amministrazione dei municipî, infeudati da anni a consorterie locali, che ne usarono ed abusarono in tutti i modi sotto l’egida di Prefetti e deputati: le prepotenze delle combriccole locali, che, come scrisse l’on. Pantano, appestano l’aria delle città dell’isola nella stessa guisa che la malaria appesta le sue campagne; il desiderio ardente nei vinti di liberarsi dal giogo ed anche di vendicarsi sugli avversari.
Data questa genesi dei moti che dettero luogo ai reati che si dovevano punire, nella istruzione dei processi, se volevansi evitare iniquità, sfogo di passioni ignobili e vendette atroci dovevasi diffidare delle testimonianze di coloro ch’erano direttamente in causa e che nemmeno osavano nascondere o attenuare la loro posizione di nemici personali, anzicchè di avversarî politici degli accusati. Questa diffidenza costituiva una indicazione precisa e per la polizia giudiziaria—che raccoglieva gl’indizî e le prove contro gli accusati e procedeva agli arresti dei presunti rei—e per la magistratura che doveva convalidare gli arresti e istruire i processi.
Invece si procedette al rovescio e sovvertendo tutti i criterî istruttorî, che prevalgono nei processi ordinari, si confidò esclusivamente nei partiti locali al potere e nei loro dipendenti diretti. Lo appartenere, anzi, ad un partito avverso a quello dominante costituiva già una presunzione di colpa: e questo criterio mostruoso venne nettamente formulato dal generale Morra di Lavriano in un discorso col compianto on. Cuccia e ridotto al seguente sillogisma: «poichè l’oggetto dei tumulti e delle sedizioni sono stati i municipî, non possono colpirsi[307] gli uomini delle maggioranze imperanti, perchè queste non avrebbero aggredito sè stesse: epperò devono cercarsi gli autori dei fatti deplorati fra quelli delle minoranze».
Se così pensava il Regio Commissario straordinario, conformemente agivano le autorità subordinate. Perciò in un paese della provincia di Trapani si volevano arrestare i 250 firmatarî di una petizione inoltrata nell’estate del 1893 contro la locale amministrazione municipale; in un altro della provincia di Girgenti si arrestano molti socî del Fascio perchè essi erano notoriamente avversarî dell’amministrazione comunale; a Gibellina si arrestano e si processano i Di Lorenzo perchè nella dimostrazione contro il Sindaco erano stati acclamati; a Valguarnera si volevano processare i principali o più temuti avversarî del sindaco e molti se ne arrestano e processano non ostante la rara e vigorosa ed onesta resistenza del pretore e del delegato; nel processo di Misilmeri si vedono figurare 25 accusati tutti del partito della minoranza; e nel partito della minoranza oppositrice si vanno a cercare gli accusati dei processi di Belmonte Mezzagno, di Partinico, di Castelvetrano, ecc. ecc. Si fa di più: in molti piccoli paesi il sindaco funziona da delegato di pubblica sicurezza ed è lui a dare le indicazioni e ad ordinare gli arresti per le dimostrazioni avvenute contro l’amministrazione da lui stesso presieduta! Scandali simili io credo che mai in alcun paese del mondo si siano verificati; essi sono stati tali da far desiderare il ritorno ai tempi barbari della giustizia privata.
Ogni miserabile, perciò, che volle sfogare i suoi[308] personali rancori si comprende che ebbe un mezzo facilissimo per raggiungere l’intento: asservire sè al partito dominante ed indicare la vittima come uno dei dimostranti di un dato paese in un dato giorno. Così a Marineo una onesta donna, certa Lombardo, viene denunziata da una guardia daziaria che aveva tentato disonorarla mentre il marito era in campagna; e dietro la sola testimonianza di un siffatto arnese che voleva vendicarsi del rifiuto, la sventurata viene condannata a 13 anni di prigione dal Tribunale di Guerra di Palermo!
I sindaci per vendicarsi dei ribelli non hanno alcun ritegno nel contraddirsi sfacciatamente; e innanzi al Tribunale di Guerra di Caltanissetta pei fatti di Pietraperzia,—non ostante l’opposizione della difesa—si leggono i certificati di moralità rilasciati dal sindaco—parte direttamente e indirettamente lesa—non conformi alle sue deposizioni, sugli stessi individui.
Innanzi al Tribunale di guerra di Palermo alcuni dei detenuti accusati dalle autorità locali come autori dei tumulti, perchè avversarî dell’amministrazione municipale, provano a luce meridiana l’alibi; e riesce anche a liberarsi dall’accusa l’avv. Girolamo Sparti, dimostrando ch’egli era una vittima innocentissima degli avversarî antichi, che avevano in mano il municipio.
E altri altrove fecero di peggio.
Dissi che spesso gli accusatori non nascosero affatto il proprio livore, nè l’odio contro gli accusati; non lo diminuì per esempio di una linea il Cav. Saporito, sindaco di Castelvetrano contro il Cav. Vivona, antico e notissimo suo avversario, il Saporito non[309] depose, ma pronunziò contro il prigioniero una requisitoria colla quale tal volta riuscì ad indispettire anche il Presidente del Tribunale di guerra...
Molte autorità politiche e giudiziarie non ignoravano le condizioni di animo di coloro che si fecero accusatori dei proprî concittadini, ma anche quando sentivano pietà e forse erano tormentati dal rimorso, esse credettero di continuare nell’opera nefanda ubbriacati dai vapori della reazione di cui era saturo l’ambiente, timorosi della propria sorte se avessero osato venir meno alle istruzioni superiori, nella preoccupazione della carriera... Sicchè quando gli arrestati di Misilmeri con accento di verità, che non ammetteva replica, giuravano ai carabinieri di essere innocenti si sentivano rispondere: «Che volete? lo sappiamo che siete innocenti; ma pigliatevela colle vostre autorità locali amministrative, che vi hanno messo in lista.»
Essere messo in lista! Equivaleva nei più tristi momenti della reazione ad essere arrestati, processati, condannati o mandati fra mafiosi e camorristi a domicilio coatto. Per simili motivi lo storico che farà, documentandolo, il processo ai processi innanzi i Tribunali di guerra di Sicilia nell’anno 1894, verrà a questa prima e dolorosa conclusione: in essi c’è la prova del completo asservimento delle autorità politiche e giudiziarie ai partiti dominanti in ogni singolo paese dell’isola!
Agli accusatori sfacciatamente partigiani, odiosamente animati dal sentimento della vendetta dovevano corrispondere e corrisposero i testimoni, non racimolati—come si direbbe per disprezzo—nei trivî, ma comprati con oro sonante o reclutati tra le guardie[310] di città e tra le guardie daziarie, cioè tra coloro contro i quali erano state fatte le più clamorose dimostrazioni e che tutto potevano essere, meno che sereni. Epperò nel processo pei fatti di Valguarnera parecchi testimoni smentiti dalle persone più autorevoli e convinti di mendacio o di reticenza furono incriminati per falsa testimonianza; e nel processo pei tumulti di Partinico il perno dell’accusa fu la deposizione delle sole guardie daziarie, parecchie delle quali pregiudicate e altra volta condannate per reati comuni.
Non basta: questi degni testimoni di accusa talora non conoscono neppur di vista gli accusati e per non fare qualche magra figura se li fanno indicare nelle gabbie, come risultò nel processo pei fatti di Pietraperzia e fu fatto rilevare dal bravo tenente Catalano a richiesta del quale il Presidente del Tribunale di guerra, colonnello Orsini, fu costretto ad ammonire i preveggenti testimoni. Ma non ammonì, nello stesso processo, il capo delle guardie municipali, che non sa riconoscere tra i detenuti in gabbia tutte le persone che assicurava di aver visto partecipare al tumulto! e condannò poi sulla base delle deposizioni di siffatti testimoni.
Origine e valore delle prove.—Questi testimoni esemplari, che avrebbero potuto degnamente figurare ai tempi beati della Santa Inquisizione, hanno poi talvolta degli scrupoli; non affermano con risolutezza di aver visto coi propri occhi, di aver sentito colle proprie orecchie; non si atteggiano a San Tommasi. No! Si accusa, ad esempio, lo Sparti di Misilmeri, ma tutti si riferiscono ai: si dice, si vuole... E la storia del modo di raccogliere le prove diviene edificante[311] nel processo di Lercara, nel quale insidiosamente si coinvolge il povero Bernardino Verro—che di già per lo stesso reato doveva rispondere nel processo De Felice e C.—Verro è accusato di aver provocato disordini che egli aveva cercato scongiurare; ed è accusato come sobillatore da un delegato Lenti; il quale si era convinto della reità dell’accusato per certe parole dettegli da un tal Corsaletti; il quale aveva acquistato la stessa convinzione da certe parole della propria moglie; la quale le aveva apprese dalla moglie del Commendatore Sartorio; la quale le aveva sentite dal proprio marito; il quale, infine, era il sindaco del paese preso di mira dai dimostranti...
Tutto questo, ch’è risultato dal processo, non è l’intreccio di una pochade. Pur troppo si tratta di un dramma reale, in cui il protagonista sulla base di tali prove viene condannato per sobillazione a sedici anni di galera!
Non fermiamoci a commentare; continuiamo la dolorosa e vergognosa rassegna.
Innocenti riconosciuti e... condannati.—Pur sorpassando su tutti gli scrupoli, pur violando ogni principio di diritto e tutte le forme di procedura, pure affidandosi a siffatte prove, che venivano da testimoni che già conosciamo, spesse volte non si sarebbe potuto condannare; e si condannò.
E si condannò Giuseppe Sparagno a tre anni di reclusione per avere favoreggiato la fuga di Bosco, Verro e Barbato; prima che costoro venissero giudicati, contro l’art. 225 del Codice penale che vuole—perchè sussista il reato di favoreggiamento—che il favorito abbia commesso un delitto e riportata[312] condanna e che il favoreggiatore abbia scienza del delitto commesso.
E si condannò lo Spatiglia accusato e processato per grida sediziose; ma all’udienza risulta che lo Spatiglia è sordo-muto, e allora le brave guardie, che lo avevano denunziato non si perdono di animo e cambiano l’accusa in partecipazione alle dimostrazioni in Misilmeri.
Le grida sediziose sono comode per fare condannare; e fanno condannare il povero Ciulla, per avere gridato in una via deserta di Monreale: Comprate i calendarî e il Siciliano! Egli era uno dei rivenditori del Siciliano; ma per sua disgrazia era inviso ad una certa guardia di pubblica sicurezza, che sentì il terribile grido e fece la denunzia. Si spera che venga accordata la medaglia al denunziatore.
E fu condannata la irresponsabile Rosalia Perrone per occultazione di armi: un vecchio e arruginito fucile, che appartenne al caro figlio morto da molti anni e che essa conservava come un prezioso ricordo. Il Presidente del Tribunale, perchè si tratta di una imbecille, seduta stante domanda la grazia sovrana: ma condanna. Oh! ma si può condannare quando si ha la convinzione che gli accusati sono innocenti? Ebbene: si può... dai tribunali di guerra. E se si possa ce lo dice l’avvocato fiscale militare nella requisitoria pei fatti di Monreale. Gli imputati erano 68 e il pubblico accusatore non esitò a fare questa confessione: «Ammetto che fra gli accusati ve ne sia qualcuno innocente; ma non si può provare, perchè la maggior parte—non tutte!—delle deposizioni dei testimoni a difesa furono meschine, vuote o reticenti.» Questo eccellente[313] funzionario, il sig. Mattei, stabilisce per principio che non l’accusa deve provare la reità dell’imputato, bensì l’imputato deve dimostrare, con prove sufficientissime, la sua non partecipazione ai disordini...
E si condanna l’accusato della cui innocenza si è convinti, per colpa di alcune testimonianze vuote o meschine...
Queste deposizioni potevano essere migliori e più esatte? Non potevano. Talora i testimonî che si presentavano all’udienza non erano quelli indicati dall’accusato; e quando un ignorante contadino di Monreale protesta contro l’equivoco col suo dialetto siculo, il Tribunale che comprende come se parlasse in sanscrito, sorride e condanna alla turca. In appresso si dirà più esattamente: condanna all’italiana!
E guai ad un testimonio sbagliato, che fa una deposizione vuota o meschina: la sua non può essere corretta o completata da quella di un altro. Agli imputati per economia di tempo e di denaro è stato concesso un solo testimonio a discarico. Nè gl’imputati hanno dalla loro il Presidente, che pensa lui—il bravo uomo!—a correggere e completare. Ciò fa soltanto quando si tratta dei testimonî dell’accusa; così nel processo pei fatti di Santa Caterina, essendosi il Colleoni, tenente dei carabinieri—quello che ordinò il massacro del cinque gennaio, per cui ricevette una medaglia—patentemente contraddetto, il Colonnello Orsini, da buon superiore, interviene e dà lui le soddisfacenti spiegazioni alle contraddizioni dell’inferiore, rilevate dalla difesa.[314] Nè questa può protestare, se no viene chiamata all’ordine in nome della disciplina militare!
Nè gli sbagli si commettono solo sul conto dei testimonî; si arrestano e si processano per isbaglio gli uni per gli altri. Quell’ottimo tenente Colleoni, che farà carriera—oh! se la farà,—ch’era arrivato a Santa Caterina la vigilia della strage e che non ebbe il tempo durante la notte di fare delle conoscenze, affermò in Tribunale che un certo Nicoletti aveva preso parte alla dimostrazione. Il maresciallo dei carabinieri, che viveva in Santa Caterina da molto tempo e che conosceva tutti invece disse, che c’era errore: il reo essere un fratello del Nicoletti; ch’era presente all’udienza e che se la svignò quando sentì, seduta stante, il Presidente del Tribunale ordinarne l’arresto. E in questo caso si osservi che il Presidente del Tribunale col suo scatto mostrò tutta la indignazione dell’animo suo; ma l’avere ordinato la sostituzione di un fratello all’altro nella gabbia degli accusati, seduta stante, dà la misura esatta di ciò che potevano essere e furono la procedura e la giustizia dei militari!...
Inezie. Perchè gl’integerrimi giudici dei Tribunali di guerra dovevano preoccuparsi della condanna di un innocente di più o di meno? Uccidete tutti, Dio sceglierà i suoi! rispondeva l’ordinatore della strage di San Bartolomeo a chi gli osservava che non potevansi sicuramente distinguere gli Ugonotti dai Cattolici. Poterono imitarlo con coscienza tranquilla i giudici militari: essi infine non davano sentenze di morte: appena appena mandavano in galera per dieci o per venti anni!
Questa storia dei processi innanzi i Tribunali di[315] guerra meriterebbe essa sola un volume tali e tanti sono gli episodî drammatici, e le iniquità. A me s’impone di terminarla e la chiudo con l’accenno a due altri notevoli processi.
Uno dei primi condannati fu Mariano Lombardino; e il suo caso, giusto perchè dei primi, fece molto rumore e molta impressione in Italia.
Lombardino era soldato, e al 2 gennaio trovavasi in licenza nella sua natia Gibellina. Un solo soldato del 10º fanteria, certo Corsi, disse di averlo conosciuto tra i tumultuanti, che tentarono di disarmarlo. Il Corsi evidentemente era in buona fede; ma potè ingannarsi in un momento di eccitamento eccezionale e fra migliaia di persone, che lo circondavano e lo investivano, fra tante fisonomie tutte a lui sconosciute. Era facilissimo l’errore, perchè Lombardino rassomigliava molto ad un certo Panzarella—proprio uno degli uccisi!—e la rassomiglianza era tale che una volta gli procurò un arresto per espiare una colpa commessa dal Panzarella.
Lombardino si protesta innocente con voce e con gesti, che commovono gli astanti e il suo difensore l’egregio e buon capitano Piccoli, fece sforzi eroici per salvarlo. Lombardino aveva citato parecchi testimoni a sua difesa per provare l’alibi; ma una donna viene condotta in camera di sicurezza e minacciata di processo per falsa testimonianza, perchè aveva deposto a favore dell’imputato. Tre altri testimoni, che possono provare l’alibi sono assenti e il Tribunale respinge il rinvio richiesto con calore dalla difesa; e lo respinge quando su Lombardino[316] pesava l’accusa di alto tradimento,—sulla fede di un solo testimonio—che viene punita colla fucilazione!
Il Tribunale, però, se è inesorabile non manca di umanità e trova modo di escludere l’alto tradimento e condanna a 20 anni di reclusione. Lombardino, che aveva pianto e protestato durante l’udienza, quando sentì pronunziare la condanna a ciglio asciutto esclamò: per quanto è vero Iddio sono innocente! e chinò il capo e non profferì più una parola. Il capitano Piccoli si dette dei pugni sulla testa.
Perchè fu così inesorabile e ingiusto il Tribunale? Ecco qua: era uno dei primi processi; non bisognava discreditare le istruttorie; si doveva dare un esempio; si trattava di un soldato... Eppoi, eppoi... Lombardino era stato dal rapporto dei carabinieri di Gibellina designato come individuo sospetto... perchè nulla tenente. Oh milioni di proletarî d’Italia: voi siete sospetti perchè nulla tenenti, onde la galera è per voi!
L’ultimo tra i processi minori, di cui giova intrattenersi è quello del Prof. Vincenzo Curatolo da Trapani. Il Curatolo, intimo del compianto deputato Friscia, fu tra i primi ad iniziare nel 1870 la propaganda socialista in Sicilia sia coi giornali, sia coi tentativi di associazione; l’averla continuata con ardore all’indomani della Comune lo rese oltremodo inviso alla borghesia di Trapani; egli però non si lasciò mai imporre dall’odio dei potenti, nè scoraggiare dalla pochezza dei risultati e rimase sulla breccia sino a tanto che negli ultimi tempi, insieme al Montalto, riuscì ad organizzare un vero partito socialista nella sua città natia. In Consiglio[317] Provinciale rappresentava la vicina Paceco, dove aveva interessi e amici numerosissimi.
Nel periodo dei tumulti, fu dei più attivi nel frenarli e nell’arrestare le conseguenze del contagio psichico e nei giorni 1 e 2 gennaio il Prefetto Palomba, preso da tale spavento che lo fece piangere innanzi a diverse persone, lo richiese di consiglio e di aiuto, e della sua opera pacificatrice si disse lieto e grato. Questa circostanza risulta dal rapporto di chi lo denunziò e dalla sentenza.
Il 3 gennaio l’Ispettore di Pubblica sicurezza Rinaldi lo invita a recarsi nel di lui ufficio; ma Curatolo rispose sdegnoso di non aver nulla da fare con l’Ispettore. L’indomani l’Ispettore si vendica del rifiuto arrestandolo, chiudendone la farmacia e trattenendone la chiave per dodici giorni. E l’Ispettore arrestandolo non nasconde che ciò fa pel rifiuto e di averlo punito siffattamente ancora si vanta!
La Camera di Consiglio non ebbe il coraggio di legittimare l’arresto una prima volta; si limitò invece a secondare la proposta del Pubblico ministero di rinviare la legittimazione dell’arresto ad un altro mese aspettando che si potessero rinvenire gli elementi di colpabilità sino allora mancanti. Trascorso il mese, sulla base degli stessi elementi negativi, la Camera di Consiglio del Tribunale Penale lo rinviava al Tribunale di guerra di Trapani.
Il giorno 12 Marzo doveva trattarsi la causa; ma fu rinviata, sicuramente per pressioni dell’autorità politica, perchè l’avvocato fiscale Cav. Anastasi aveva detto che egli non trovava alcun elemento che sorreggesse l’accusa ed il Presidente del Tribunale di guerra Colonnello Bussolino—quello stesso[318] che staffilò a sangue la magistratura ordinaria—aveva detto pubblicamente essere sicura l’assoluzione dell’imputato.
Innanzi al Tribunale di guerra la causa si trattò il giorno 20 marzo con un personale tutto diverso, a cui, affermavasi da tutti, era stata imposta la sentenza; e Vincenzo Curatolo, infatti, non ostante le risultanze del processo, nell’assenza di alcun documento che lo accusasse e sulla base della sola testimonianza di un confidente di questura che disse averlo visto in Paceco—il grande delitto!—il giorno 3 Gennaio, venne condannato a sette anni di reclusione!
La enormità e la iniquità di questo processo e di questa sentenza risultano a luce meridiana dai considerandi della sentenza stessa e dal rapporto dell’Ispettore di P. S. Rinaldi, che dopo averlo arrestato per una bizza personale, lo denunziò al magistrato—e volle egli stesso rilevare che denunziava lui solo—come responsabile dei reati previsti dall’art. 120 e 252 del Codice penale.
Il rapporto del 7 Gennaio al Giudice Istruttore del Tribunale Penale fa colpa al Curatolo di essersi sdegnosamente rifiutato d’intervenire nell’ufficio dell’Ispettore: e di avere inneggiato al socialismo mentre, arrestato, veniva condotto in caserma; di aver sempre di nascosto diretto il movimento; di essere uno dei capi agitatori. Il rapporto non nega che il Curatolo avesse consigliato pubblicamente la calma: ma soggiunse «il suo breve discorso fatto con molta arte, nel mentre non meritava interruzioni da parte dell’autorità di P. S., dall’altra eccitava vieppiù gli operai verso le classi più abbienti».[319]
Venne forse l’ordine di arresto da Palermo dove nelle perquisizioni ai membri del Comitato Centrale dei Fasci si erano per avventura trovati documenti compromettenti pel Curatolo? Niente affatto. È l’Ispettore Rinaldi che ci dà il testo di questo eloquente telegramma del Questore di Palermo: «Prego disporre accurata perquisizione nel domicilio del nominato Vincenzo Curatolo farmacista, costà in via Cortina, noto socialista E DISPORNE ARRESTO SECONDO RISULTANZE PERQUISIZIONE.» Dunque a Palermo non c’erano motivi di veruna sorta—non ne trovò il sig. questore Lucchese!—per il suo arresto.
Ma le risultanze della perquisizione, alle quali il questore Lucchese subordinava l’arresto, furono tali da far mantenere l’arresto già avvenuto? Meno che mai!
Narra il suddetto ispettore: «Furono sequestrate più (?) carte di NESSUNA IMPORTANZA». Fra le più carte di nessuna importanza ce n’erano di quelle importanti? Manco per sogno; ma il signor Rinaldi spiega la mancanza di documenti compromettenti supponendo che gl’interessati li abbiano messi in salvo; e questa supposizione,—che farebbe onore a Torquemada—lo autorizza a questa splendida illazione: «Tale sottrazione di documenti ad esuberanza prova, che negli stessi dovevano contenersi le disposizioni per una generale insurrezione, nonchè gli ordini impartiti ai varî Fasci per incominciare il movimento».
Del resto si poteva procedere senza cerimonie all’arresto perchè, dice l’Ispettore, «si assicurava che essendo il Curatolo consigliere Provinciale di[320] Paceco, ed anima di quel Fascio, gli abitanti di quel paese aspettavano da lui il segnale per scendere armati in città ed incominciare il saccheggio. Tale gravissimo fatto risultava non solo dalle riferenze d’ufficio, ma benanche da discorsi di cittadini onesti e stimati nel pubblico.»
Orbene non un solo di questi cittadini onesti e stimati andò a testimoniare contro il Curatolo... invece sindaco, deputati provinciali, assessori, consiglieri provinciali e comunali, molti altri eminenti cittadini quasi tutti avversari politici affermarono esplicitamente la legalità della sua condotta e l’opera sua eminentemente pacificatrice nei momenti del pericolo. Non monta: «la PROVA PIÙ SCHIACCIANTE contro il Curatolo», conchiude l’Ispettore Rinaldi, l’abbiamo nel fatto che «in Trapani avemmo due sere di disordini; arrestato il Curatolo, senza bisogno di altri mezzi, la calma rientrò in Città.»
Questo perfezionato allievo di Lojola diceva il vero, ma dimenticava una sola cosa: Curatolo venne arrestato dopo la proclamazione dello stato di assedio, quando dappertutto la calma rientrò senza arrestare le anime dei Fasci e solo perchè gl’ingenui contadini si convinsero, con quell’atto, che il governo riprovava le agitazioni e non le vedeva di buon occhio, come era generale credenza in seguito alla condotta tenuta dal Consigliere della Prefettura di Palermo mandato a Partinico.
In qualunque altro paese civile e libero il rapporto-denunzia dell’Ispettore Rinaldi sarebbe stato bastevole per lo meno a farlo destituire; in Italia valse ad indurre il Tribunale di guerra di Trapani,[321] presieduto da un Barbieri, a far condannare il Curatolo.
La sentenza non è che la parafrasi pura e semplice del rapporto; i suoi considerandi non sono, che supposizioni e insinuazioni. In quanto a fatti concreti così si esprime: «Che mente direttiva della organizzazione dei Fasci e di siffatti propositi»—precedentemente la sentenza aveva accennato ai fatti luttuosi accaduti in altre parti dell’isola e che non si erano verificati in Trapani per la pronta ed energica REPRESSIONE (?) delle autorità—«fosse il giudicabile Curatolo Vincenzo e fosse esso che dirigeva ogni movimento che si verificava e in questa città e nel vicino comune di Paceco, i cui moti DOVEVANO AVVENIRE contemporaneamente e confondersi in una sola azione È PROVATO DALLA CORRISPONDENZA, CHE GLI FU SEQUESTRATA, che lo compromette nel più assoluto modo, dalla sua posizione nel Fascio dei lavoratori di Trapani, da esso si può dire formato e moralmente presieduto, dalle sue relazioni coi capi dei rivoltosi in tutte le parti dell’Isola, dalle sue corse a Paceco fatte in momento opportuno, mal celate e poi negate, e finalmente dal grido di Viva il socialismo, emesso quando lo trassero in arresto, che fatto in quelle condizioni e con quell’espressione, non poteva non essere un grido sedizioso rivolto al pubblico, grido che rileva il di lui animo bramoso di disordini popolari...»
Constava al Tribunale di guerra che Vincenzo Curatolo nei momenti dal pericolo, e quando un animo bramoso di tumulti avrebbe potuto facilmente[322] provocarli, aveva rivolto al popolo parole di pace e consigli di calma, ma non ne tiene conto perchè, seguendo l’Ispettore Rinaldi, «delle disapprovazioni che l’accusato avrebbe fatte pei detti avvenimenti, non è il caso di occuparsene, nulla deducendo in di lui favore, ma solo addimostrando una non comune e provetta attitudine in lui di eccitatore occulto ma efficace, COME OFFRONO LA STESSA PROVA LE ESORTAZIONI ALLA CALMA COL RISPETTO DELLA LEGGE FATTE PALESAMENTE.»
Per tali FATTI COSÌ STABILITI il Tribunale di guerra visti gli articoli 120 e 252 del Codice penale condanna il Curatolo a sette anni di reclusione e alle spese!
Si è visto che la sentenza trova le prove dell’accusa sopratutto nella corrispondenza sequestrata al Curatolo, cioè tra le più carte giudicate di poca importanza dall’ispettore Rinaldi. Il quale così le giudicò per difetto d’intelligenza, poichè fu trovata una terribile lettera di Francesco Cassisa... la quale non potè valere, però a fare condannare questi dal Tribunale di Guerra di Palermo,—il quale pur distribuì generosamente migliaia di anni di condanne facendo una vera strage d’innocenti!
Da questo processo,—superato soltanto in mostruosità dalla sentenza—rimane provato all’ultima evidenza che dai Tribunali di guerra si ritenne reato l’avere avuto relazioni con persone incriminate—e con tale criterio si potrebbe mandare in galera mezza Italia, compreso il Parlamento; reato la visita al vicino paese, che si rappresenta in Consiglio Provinciale: reato il presiedere... moralmente un Fascio,[323] e di esserne stato l’anima;[63] reato il gridare: Viva il socialismo! con espressione, reato l’avere disapprovato pubblicamente e l’avere impedito nella misura delle proprie forze i fatti, che si ritengono criminosi.
Il processo alle intenzioni in base alle più scellerate supposizioni, la persecuzione contro il pensiero, e la condanna dell’esercizio del diritto di associazione e di riunione negli stretti termini della legalità—perchè i Fasci dei lavoratori furono sodalizî legali, che per tre lunghi anni si riunirono ed agirono in pubblico senza che mai le autorità politiche e giudiziarie vi avessero trovato da ridire—da nessun altro processo risultano lampanti quanto da quello istruito contro il Curatolo, perchè a confessione e del denunziatore e dei giudici, che condannarono, mancano in esso tutti gli elementi di un processo qualsiasi, che non siano il processo alle intenzioni, la persecuzione contro il pensiero, la condanna dei diritti sanciti dello Statuto. Ed è perciò che ho ritenuto doveroso occuparmene con particolarità per segnalare al giudizio severo ed imparziale del pubblico il governo che dispose e permise agli agenti suoi, che eseguirono e condannarono.
L’animo di qualunque italiano, che sognò e lavorò per la rigenerazione di una patria libera, e la cui libertà doveva venire a farne la grandezza[324] e la ragion di essere nel consorzio delle nazioni civili non può che rimanere profondamente sconfortato ed indignato dell’opera dei Tribunali militari in Sicilia ch’è la negazione assoluta di cinquant’anni di lotte, di sacrifizî, di eroismi contro la tirannide; quest’opera deleteria induce a melanconiche riflessioni. Oh! valeva la pena di abbattere il governo, che fu detto negazione di Dio e di far cadere tante vittime preziose sui campi di battaglia e sulle forche per arrivare a vedere funzionare come hanno funzionato i Tribunali militari in Sicilia e in Lunigiana nell’anno 1894 e in nome dell’Italia libera ed una? Non si direbbe che le libertà promesse dallo Statuto siano tranelli tesi alla buona fede degli italiani? Quanto più onesto e leale il governo borbonico, che senza ipocrisie proibiva di occuparsi di politica, e sotto il quale almeno erano sicuri di vedere rispettata la propria libertà coloro che ottemperavano scrupolosamente ai suoi ordini!
Lo sconforto sarebbe minore se dell’opera nefasta dianzi tratteggiata fossero responsabili soltanto i Tribunali di guerra. Si sa! i militari non comprendono il diritto, non conoscono leggi e statuti, non discutono ma ubbidiscono, come impone la disciplina, non conoscono altra ragione che quella che viene dalla forza. Ma il guaio maggiore è questo: nelle aberrazioni giuridiche, politiche e morali dei Tribunali di guerra c’è la solidarietà e la complicità necessaria dei magistrati ordinarî, che dovrebbero tutelare i diritti dei cittadini e fare rispettare le leggi e lo Statuto in alto e in basso. E questa solidarietà e questa complicità, per quanto possa riuscire[325] doloroso il confronto, bisogna metterle in evidenza.
Da parecchio tempo la magistratura italiana avea perduto nella coscienza pubblica quella stima e quella rispettabilità, che sono indispensabili al suo ufficio supremo in uno stato libero e bene ordinato e per cagioni molteplici, che sono state esposte e studiate da illustri magistrati, da giuristi e da scrittori politici di ogni parte. Ciò che maggiormente si rimproverava e si rimprovera tuttavia alla magistratura italiana si è il suo asservimento al potere, le cui conseguenze sono incalcolabili tutte le volte in cui essa dovrebbe colpire gli agenti del governo; giudicare nei conflitti tra il Fisco e i privati cittadini; istruire processi d’indole politica ed emettere le relative sentenze. Di tale asservimento, che riesce sempre di grave danno ai cittadini e di pericolo continuo alle pubbliche libertà, somministrai esempî in Corruzione politica e il fatto stigmatizzai severamente in Banche e Parlamento unendo la mia voce modesta a quella di tanti altri assai più di me autorevoli. E la iattura è tanto grave e antica, che parvero eroi—e furono esaltati ed eletti deputati in odio al governo—il Procuratore Generale Nelli e il Procuratore del Re Borgnini, che seppero resistere alle pressioni dall’alto nel famoso processo Lobbia—e preferirono dimettersi sdegnosamente anzichè sottomettersi—altri tempi e che sembrano leggendarî!—come di recente bastò che un alto magistrato integro, l’Eula, arrivasse al ministero, dopo avere pubblicamente affermato che la magistratura deve giudicare e non rendere servigi, perchè la nazione aprisse il cuore alla speranza di vedere[326] realizzata la più necessaria delle restaurazioni: quella dell’indipendenza della magistratura.[64]
Ma Eula, cadente per anni e per malattia, al ministero di grazia e giustizia passò come una meteora luminosa, che non riscalda e non vivifica, e gli ultimi episodî del processo della Banca Romana, le solenni e gravi dichiarazioni dell’attuale ministro Calenda dei Tavani in risposta ad interrogazioni degli on. Cavallotti, Imbriani e mie nonchè rialzare il prestigio della magistratura lo hanno ormai come distrutto!
Come e perchè il governo riesca ad imporsi ai giudici e ad ottenerne servigi e non sentenze sarebbe lungo l’esporre; basta in questo libro, in cui l’interessante quistione è toccata incidentalmente, ricordare che nell’ultima discussione sul bilancio del ministero di grazia e giustizia per l’anno 1894-95 l’on. Gianturco, che gode meritata fama per dottrina, per integrità di carattere e per avere occupato il posto di sottosegretario di Stato sotto l’Eula, segnalò al ministro l’arbitrio pericolosissimo che si esercita nelle promozioni, mercè le quali gli abili governanti profittando delle debolezze del cuore umano e dei bisogni di magistrati mal pagati, sanno piegarli alle loro voglie renderli docili e servizievoli quando occorre.[327]
Nè il ministro osò negare la esistenza e la gravità del pericolo.
I magistrati onesti e indipendenti non solo si vedono sopravvanzati nella carriera da quelli servili, ma vengono puniti coi traslochi da una sede più importante ad una di minore importanza ferendone la dignità e gl’interessi economici ad un tempo. E di questo mezzo illecito di cui si serve il governo per punire i magistrati ricordai in Banche e Parlamento alcuni casi, che si riferivano alla Sicilia (p. 337) ed altro con grave rammarico devo riferirne qui, che riguarda pure l’isola e i processi d’indole politica di cui mi sto occupando. Quel Procuratore del Re di Trapani, di cui si disse che era stato scelto dall’on. Crispi come successore del Lucchese al posto di fiducia di Questore di Palermo, venne invece anzichè promosso e premiato pei suoi meriti, traslocato d’improvviso in un Tribunale di poca entità della provincia di Messina, non ricordo bene se a Patti o a Castroreale. Perchè? La voce più accreditata sulla causa della punizione è la seguente: egli in una causa in cui stavano di fronte un maresciallo dei carabinieri ed un privato cittadino aveva reso giustizia al cittadino, e ciò facendo non solo aveva mancato di rendere un servizio al governo, ma aveva anche indispettito un deputato siciliano dei più reazionarî, che proteggeva il maresciallo e che negli ultimi tempi esercitava un insolito ascendente nelle sfere ministeriali...
In Banche e Parlamento, quasi presago dei futuri avvenimenti, avevo detto che in Sicilia più che altrove era notorio il servilismo della magistratura verso il governo. Tale servilismo nell’isola aveva[328] le sue non nobili ma continuate tradizioni—interrotte per un momento dal conflitto Tajani-Medici—delle quali il senatore Zini riporta parecchi dati, tra cui impudente una lettera del Procuratore Generale Morena, che parla come della cosa più semplice e corretta di questo mondo «di detenuti, che non sono a disposizione dell’autorità giudiziaria e sul conto dei quali egli confessa di non potere prendere alcun provvedimento perchè non può mettere la falce nella messe altrui (?!) e consiglia impertanto di rivolgersi al Prefetto o a S. E. il Ministro dell’interno.» (Dei criterî e dei modi di governo della sinistra. Bologna, 1880 p. 45).
Gli ultimi avvenimenti e i consecutivi processi della Sicilia hanno distrutto, se pur ne avanzava, l’ultimo residuo della buona fama della magistratura in quanto a senso di giustizia e ad indipendenza. Ed è da avvertire in proposito che le numerose assoluzioni dei membri dei Fasci, nel periodo precedente alla proclamazione dello Stato di assedio, che potrebbero invocarsi come una prova in contrario, perderono di efficacia perchè controbilanciate da altrettante condanne in casi perfettamente identici: sicchè le prime non servirono, che a rendere più evidente la ingiustizia delle seconde, la mancanza di un unico ed esatto criterio giuridico e il servilismo dei più.[65]
La magistratura ordinaria è doppiamente colpevole;[329] perchè da un lato si è spogliata indebitamente e volontariamente—dico: volontariamente, stando alle apparenze—dei propri diritti dichiarando la propria incompetenza nei casi, che vennero deferiti ai Tribunali militari e dall’altro si è prestata con inaudito sfoggio di servilismo ad istruire i processi sui quali poi hanno in ultimo giudicato gli stessi Tribunali militari.
Data la legittimità dei Tribunali militari, sulla quale non spettava alla magistratura ordinaria di minor grado di giudicare, certo è che essa doveva, a salvaguardia del proprio decoro e della propria autorità, non consentire all’ingiustificabile principio della retroattività così largamente applicato; e dove e quando la giurisdizione eccezionale militare avesse accampato pretese e diritti che non le spettavano, alla magistratura ordinaria incombeva assoluto l’obbligo di resistere e di mostrarsi vigile custode delle leggi e dei diritti dei cittadini e di sollevare quei conflitti, che in ultimo avrebbero dovuto essere decisi dalla Suprema Corte di Cassazione di Roma.
La magistratura ordinaria invece venne meno al proprio dovere e senza che in modo alcuno possa scusarsi. Non resistette all’invadenza di chi in nome dei pieni poteri accordatigli credette potere impunemente calpestare statuto e leggi; non sollevò alcun conflitto; essa stessa invocò il principio della retroattività; essa stessa lo applicò, dichiarando, non richiesta, la propria incompetenza e deferì al giudizio dei Tribunali militari gli accusati il cui reato era stato consumato molto tempo prima della proclamazione dello stato di assedio quale fu il caso dell’ex-Presidente[330] del Fascio di Palazzo Adriano che, per uno dei tanti pretesti accampati nel periodo della provocazione in agosto 1893, venne processato e il giudizio venne rinviato a richiesta dell’accusato, il quale poi inopinatamente con senso di stupore generale, venne deferito al Tribunale Militare di Palermo. Questa febbre di servilismo arrivò al punto di rendere dimentica la magistratura ordinaria della più elementare osservanza delle procedure e delle competenze in vigore anche sotto il regime eccezionale della sciabola: e così si vide il Tribunale penale di Trapani deferire al Tribunale militare la conoscenza di alcuni reati non contemplati negli editti del generale Morra e ricevere la più umiliante delle lezioni dallo stesso Tribunale militare di Trapani, che dichiara la propria incompetenza e rinvia al Tribunale penale il processo. Un militare, il colonnello Bussolino, non poteva mostrarsi più severo verso il magistrato ordinario insegnandogli le regole della procedura; e il rossore dello schiaffo assestato ci vorrà del tempo perchè scompaia.
Grave è inoltre la colpa della magistratura ordinaria relativamente all’istruzione dei processi. Dato pure e non concesso che fosse stata legale la istituzione dei Tribunali militari e che si fosse potuto applicare l’anti-giuridico e mostruoso principio della retroattività, ne derivava che la magistratura ordinaria non avrebbe dovuto menomamente impicciarsi dei reati e dei processi nei quali veniva riconosciuta la competenza della giurisdizione eccezionale militare; così facendo si sarebbe potuta accusare la magistratura di vigliaccheria e non altro. Essa invece ha tolto l’incomodo ai Tribunali militari—violando[331] il Codice penale militare—d’istruire i processi e glieli ha presentati belli e completi rendendosi non solo complice di tutte le enormità di detti processi, ma principale responsabile di tutte le flagranti irregolarità, che vennero esposte in questo stesso capitolo sulla condizione sospetta dei denunziatori e dei testimoni e sul valore delle prove raccolte.
Onde su di essa ricade la maggior parte della colpa delle sentenze inique dei Tribunali di guerra, perchè questi giudicarono quasi sempre sulle orme delle requisitorie dell’avvocato fiscale e alla sua volta l’avvocato fiscale non fece che copiare le requisitorie del Procuratore del Re colle quali si mandavano gli accusati innanzi ai primi. I militari, in fatto di diritto e di applicazione delle pene, dovevano e potevano mostrarsi, essi che non li hanno mai studiati, più meticolosi e meno severi dei magistrati? Non era possibile sperarlo.
Ond’è che l’on. Lucchini, penalista illustre e Consigliere di Stato, commentando la sentenza Molinari e Gattini, non potè a meno, di fronte alle declinatorie, all’abdicazione della magistratura ordinaria, di constatare che si è messa in evidenza la sua ignoranza e il suo servilismo e si è resa complice dello strazio della libertà e della giustizia (Appendice alla monografia di Brusa: Della giustizia penale eccezionale p. 53). E più aspro certamente sarebbe stato il giudizio dell’antico professore dell’Ateneo bolognese, se avesse dovuto enunziarlo a proposito della condotta della magistratura siciliana.[66] La[332] quale è stata tale che al mitissimo insegnante della università di Torino ha strappato questa sentenza: «Le condanne, se grazia sovrana non interverrà, rimarranno quali testimoni e accusatori di una giustizia, la quale parrà una FORSENNATA e che si mostrerà a tutti VELATA PER LE PATITE OFFESE: di UNA GIUSTIZIA RESA SERVA DELLA POLIZIA PREVENTIVA.» (Brusa p. 35).
Ed ora allo esame della condotta della più alta magistratura italiana: la Suprema Corte di Cassazione.
All’indomani della sentenza della Cassazione nel ricorso del Procuratore Generale del Re Comm. Bartoli—contro il giudicato della Sezione di accusa, col quale nel processo della Banca Romana si mandarono assolti Pietro Tanlongo e Michele Lazzaroni—in Italia ci fu una generale esultanza e l’animo di tutti si aprì alla speranza. Il supremo magistrato aveva reso giustizia; e pur rispettando la sentenza della Sezione di Accusa in nome della legge scritta, di cui esso dev’essere sempre ed esclusivamente l’indefesso tutelatore, aveva trovato modo con parole elevate in nome dello interesse morale di stigmatizzarla. Si sperava che il responso della Corte di Cassazione dovesse e potesse servire di rampogna[333] ad alcuni magistrati inferiori e d’incoraggiamento ad altri.
In Sicilia e in Lunigiana sappiamo già che il nobile esempio non giovò ai magistrati inferiori; oggi sappiamo del pari che la stessa Cassazione non continuò a battere la via sulla quale si era messa nello scorso anno, e non ci resta che lo sconforto di dovere constatare che il supremo magistrato italiano è disceso al livello dei magistrati inferiori, anzi forse tanto più in basso quanto più alto dovrebbe essere il suo ufficio.
Il Prof. Impallomeni chiudeva il suo ricorso in Cassazione dell’on. De Felice Giuffrida e Compagni con questa perorazione, che giova riprodurre integralmente: «Eccellenze, nel disgregamento morale e fra le passioni che travagliano le società odierne, le coscienze non si possono far serene che in un centro solo di equilibrio e di sicurezza: nell’amministrazione della giustizia, affidata alla rettitudine di magistrati indipendenti.»
«I rancori, le ire di partito passano, le onde agitate delle azioni e delle reazioni sociali si ricompongono in calma, ma le offese alla giustizia restano ferite irrimediabili alla compagine sociale. Un grande ufficio di riparazione è a voi affidato; ufficio ad un tempo di riconciliazione e di pacificazione degli animi: che voi compirete quando risolleverete la bandiera del diritto, abbassata nella causa presente, in cui una condanna non giunse al suo segno, se non passando sopra lo Statuto prima, e poi sopra il Codice penale.»
In verità dopo la sentenza della Cassazione sul ricorso Molinari e Gattini, che dette luogo alle critiche[334] severissime del Brusa e del Lucchini,—per non citare quelle unanimi della stampa politica quotidiana,—un linguaggio siffatto—che del resto può considerarsi come la parafrasi felice dei considerandi della stessa Cassazione nella sentenza sul ricorso Bartoli nella causa Tanlongo e Lazzaroni—potrebbe giudicarsi o la manifestazione di una ingenuità superlativa o una delle tanti e volgari tirate retoriche di avvocato esercente, che non crede affatto in ciò che scrive. Esclusa questa ultima interpretazione nel caso dello egregio prof. Impallomeni rimane la prima; e si può anche dire che nell’animo suo albergasse la speranza della resipiscenza. Ascoltò la Cassazione questo linguaggio degnissimo che racchiudeva un savio consiglio, utile più alla conservazione dell’autorità del supremo magistrato anzichè alla causa dei condannati dal Tribunale militare di Palermo?
Oramai la risposta della Cassazione è nota ed è noto che essa non s’inspirò allo Statuto, alla legge, alla giustizia; ma lasciò passare trionfalmente l’interesse della politica dell’ora che volge e respinse il ricorso De Felice, come tanti altri ne aveva respinti. La sua opera nella quistione vitale della competenza e della revisione delle sentenze dei Tribunali militari deve essere esaminata e giudicata al lume dei fatti e del diritto; ed essa risulta uguale, se non peggiore, a quella del resto della magistratura, per incoerenza, per servilismo, per ingiustizia.
Il primo errore e la prima colpa della Cassazione furono commessi nello statuire sulla legalità dei Tribunali militari. Essa non ebbe gli scrupoli della[335] Corte dei Conti—e questa differenza dev’essere la sua maggiore umiliazione.
Essa li trovò legittimi, legali, anche quando evidentemente esorbitavano proclamando la propria competenza pei reati commessi prima della proclamazione dello Stato di assedio!
La Cassazione, però, non si mantenne logica e coerente; perocchè se nei casi di Sicilia l’applicazione del diritto bellico si è fatta correttamente come in guerra guerreggiata anche alle persone estranee all’esercito, non c’era ragione del suo intervento, perchè una persona non può essere giuridicamente duplice nei rapporti con gli stessi reati a lei imputati; non è e non può essere prima pareggiata al militare per la giurisdizione di merito e poi restituita al novero degli estranei alla milizia per la decisione formale sulla incompetenza del giudice di merito.
La Cassazione doveva astenersi dal conoscere delle sentenze pronunziate da Tribunali estranei alla sua giurisdizione, non provocata neppure da conflitti insorti fra essi e i Tribunali comuni. Perciò la Cassazione intervenne senza regola, intervenne quando accomodava: e le sue decisioni, quando parzialmente riformarono le sentenze dei Tribunali militari non possono essere considerate che come grazie parziali fatte da chi non le poteva e non le doveva fare». (Brusa e Lucchini, p. 28, 29 e 55).
Alla Cassazione incombeva, però, un obbligo superiore: quello di annullare puramente e semplicemente le sentenze dei Tribunali militari distruggendone la usurpata giurisdizione e stabilendone la illegalità. La Cassazione doveva e poteva fare[336] rispettare lo Statuto e le leggi anche senza avere la precisa attribuzione delle Supreme Corte federali degli Stati Uniti; poichè non ha sostanziale fondamento ciò che disse l’on. Sacchi nella Camera dei Deputati, che la Cassazione Italiana, cioè, non abbia la missione di contenere le leggi nei limiti della costituzione oltre quella di contenere i provvedimenti esecutivi: nei limiti della legge; e non ha fondamento «giacchè una legge che non sia nei limiti della Costituzione non è legge; e tutti i magistrati dal Conciliatore alla Corte di Cassazione hanno insita al loro ufficio la facoltà di sindacare la costituzionalità degli atti della pubblica autorità, perciò stesso che il loro mandato è quello di fare applicare le leggi, e i provvedimenti emanati in conformità alle leggi.» (Impallomeni, p. 47).
Poteva, doveva farlo la Cassazione—e non lo fece—per non lasciare tutto all’arbitrio del potere esecutivo, gli averi, la libertà e la vita dei cittadini.
«Chi non vede che col sistema della Cassazione—rispettando ed accettando cioè la legalità dei Tribunali militari—si condannano potenzialmente a perpetua impotenza le norme di competenza, stabilite dal Codice di procedura penale? Ogni volta, che vi saranno delle bande armate, dei moti insurrezionali, basterà che il potere esecutivo dica essere necessario sospendere la competenza ordinaria perchè si creda essere nel diritto di farlo; per modo che i Tribunali e le Corti di Assise potranno essere competenti a conoscere di simili reati sempre..... meno quando avverranno. Vi saranno sempre le autorità giudiziarie del regno pronte a dire, come ha detto la Corte di[337] Cassazione: noi ce ne laviamo le mani, è affare che non ci riguarda, decidano in altro luogo se le leggi bastano; quando lassù crederanno che non bastano, noi non abbiamo che a sottometterci ai decreti che verranno imposti. Ma allora, domandiamo noi, a che serve la legge? a che serve la divisione dei poteri? qual’è la differenza, che passa tra un regime assoluto e un regime costituzionale?» (Impallomeni, p. 39).
Di più: quando la Cassazione intervenne e dichiarò la propria competenza—e non poteva essere competente e non doveva intervenire se i Tribunali di guerra fossero stati legali e costituzionali—lo fece in modo scorretto e sconveniente e misconoscendo la missione commessale dalla legge. Questa, infatti, è tassativa nello stabilire che essa debba esaminare le quistioni di diritto e non le quistioni di fatto; essa ci sta per separarle e nella separazione sta la sua ragione di essere. Or bene la Cassazione precisamente in questa occasione, in cui poteva affermarsi nella sua più grande maestà come uno dei poteri pubblici dello Stato, venne meno al proprio compito esaminando la questione di fatto, la opportunità dei provvedimenti presi, e non se tali provvedimenti per quanto opportuni, per quanto anche necessarî, siano stati conformi allo Statuto e alle leggi, sicchè il supremo magistrato desumendo la legittimità di siffatti provvedimenti dalla ipotetica loro necessità e convenienza politica, svisò la propria funzione, si sostituì al Parlamento, rese un servizio al governo, che incoraggiato dal precedente, segnalando come necessario qualunque illecito ed incostituzionale[338] provvedimento, sa che verrà giustificato ed approvato dal corpo che avrebbe dovuto precisamente richiamarlo alla osservanza della Costituzione e delle leggi (Brusa, p. 10, 11 e 34; Lucchini, p. 57; Impallomeni, p. 40).
Epperò, tutto ben considerato, se ne deve conchiudere con amarezza, che il popolo non può riporre più la sua fiducia nel supremo magistrato, che dovrebbe avere il compito di difenderne i diritti e fare rispettare la Costituzione e le leggi del potere esecutivo, come fece la Cassazione francese anche in momenti non propizî alla libertà e alle franchigie costituzionali (Impallomeni, p. 32 e 33). E la conclusione dolorosa è assai umiliante per l’Italia, la cui inferiorità di fronte alle altre nazioni, in fatto di rispetto ai diritti dei cittadini da parte del potere esecutivo, e nella pratica del regime costituzionale, rimane ognora più assodata e confermata; e questa inferiorità viene sopratutto assodata e confermata per opera della Suprema Corte di Cassazione che è venuta meno al suo compito ed ha rinnegato la propria ragione di essere.
Intanto nel periodo fortunoso dei fatti eccezionalmente disonesti e scandalosi, come la Suprema Corte di Cassazione designò quello della scoperta degli scandali della Banca Romana, si trovò un Ministro, il senatore Santamaria, che, nauseato dal contegno della magistratura, la qualificò un punto interrogativo e non avendo il coraggio di interrogare la sfinge provvide se non altro a sè stesso, e sdegnoso si ritrasse. E allora—fu già ricordato—una eco onesta e coraggiosa di questo sdegno si ebbe nel responso della Cassazione. Pare che con quell’atto si[339] sia esaurita la vigoria del supremo magistrato, che quando si trovò nella situazione di dovere solennemente affermare la propria indipendenza di fronte al governo piegò e si sottomise e la sua voce si trovò all’unisono con quella del Ministro, che in Parlamento, dimentico di rappresentare la giustizia, non seppe che difendere e giustificare le pretese e gli atti della reazione.
E da questo stesso ministero nell’ora triste e pericolosa di decadenza e di reazione che attraversiamo, in risposta ad una interrogazione dell’onorevole Imbriani, l’Italia apprese che se il ministero avesse manifestato un desiderio alla magistratura, questa avrebbe trovato nella procedura i mezzi per soddisfarlo! (Seduta della Camera dei deputati del 7 aprile 1894).
La dipendenza della magistratura in quell’infausto giorno venne ufficialmente affermata; la nomina della famosa Commissione dei tre all’indomani della sentenza nel processo Tanlongo e Lazzaroni, è servita a riconfermarla. La nomina di tale commissione se è stata una indecorosa canzonatura dal punto di vista della restaurazione della moralità, è riuscita, però, ad esautorare la magistratura. Quale può essere il suo prestigio nel giudicare gli altri se essa stessa è sotto giudizio? Il giudizio sull’opera dei Tribunali militari e della magistratura ordinaria, non può essere pertanto completo senza la conoscenza di alcune cifre e di alcuni confronti.
I Tribunali militari di Palermo e di Trapani e quelli di Caltanissetta sino al 30 maggio—non ho i dati di quello di Messina—distribuirono 3203[340] anni di detenzione e di reclusione a 630 individui, oltre le pene per le contravvenzioni al disarmo. In tutto si può approssimativamente calcolare che i Tribunali militari di Sicilia distribuirono circa 5000 anni di prigione a contadini che protestarono contro la fame e contro l’oppressione, e a giovani non rei di altro che di onesta propaganda socialista. Ebbero sette anni di reclusione coloro che furono considerati anime dei Fasci; ebbe sedici anni di reclusione Bernardino Verro per un discorso sovversivo; ebbero venti anni di reclusione donne ingenue, che credettero lecito gridare Viva il Re! e abbasso il Sindaco!
Da un’altra parte sta questo: un Tenente Blanc dal Tribunale penale di Padova ritenuto responsabile di omicidio colposo e di abuso di autorità fu condannato a sei mesi e venti giorni di carcere militare ed a cinquecento lire di multa; e si spera che la Corte di Appello di Venezia, che si mostrò altra volta tenerissima degli ufficiali di Cavalleria riduca la pena....
I signori Tanlongo e Lazzaroni accusati di un grappolo di reati e della scomparsa di ventitre milioni dalla cassa della Banca Romana vennero assolti dal Giurì di Roma. Era giusto che Tanlongo e Lazzaroni uscissero a libertà quando entravano in prigione De Felice e Petrina che la loro popolarità acquistarono smascherando i ladri.
Queste condanne e queste assoluzioni si spiegano e si completano, e darebbero occasione, se questo fosse un libro sistematico, a svolgere ampiamente e confortare la opinione di coloro i quali asserivano che i Tribunali e la cosidetta giustizia funzionano attualmente nello interesse esclusivo[341] della borghesia per assicurare il trionfo di quelli, che Pietro Ellero—un Consigliere della Corte di Cassazione di Roma—chiama i vermi della cleptocrazia. Queste condanne e queste assoluzioni ribadiscono la tesi del Vaccaro, che crede: «ufficio delle leggi penali non essere stato sin qui quello di difendere la società, cioè tutte le classi, che la compongono; ma particolarmente gl’interessi di coloro in favore dei quali è costituito il potere politico, cioè dei proprietarî.»[67]
[61] La quistione delle istituzioni dei Tribunali militari in conseguenza della proclamazione dello Stato d’assedio oltre che nelle discussioni parlamentari fu esaminata dal punto di vista politico e specialmente giuridico in modo esauriente da Brusa: Della giustizia penale eccezionale. Torino 1894; Impallomeni: Cenni sul ricorso in Cassazione dell’on. De Felice Giuffrida e C. Palermo 1894; A. Pierantoni: La costituzione e la legge marziale, La legge e non l’arbitrio, Roma 1894. Una fiacca difesa dello Stato di assedio ed i Tribunali militari tentarono A. Muratori e Torquato Giannini: Lo Stato d’assedio e i Tribunali militari. Firenze 1894. Quando citerò tali autori mi riferirò alle sovraccennate pubblicazioni.
[62] In molti punti di questo capitolo e del seguente ho copiato integralmente o riassunto alcune pagine delle monografie dei professori Brusa e Impallomeni. Della loro esposizione e dei loro giudizî di preferenza mi son valso per la grande autorità loro nelle discipline penali e perchè nulla hanno di comune coi socialisti e coi repubblicani. Alle loro parole talora ho apportato queste modificazioni: il primo si riferisce al processo Molinari e il secondo al processo De Felice e C. Io le ho applicate ai processi tutti che si sono svolti in Sicilia innanzi ai Tribunali di guerra per la identità delle situazioni tra i primi e gli ultimi.
[63] Come anima di un Fascio, in mancanza di altro motivo venne condannato l’egregio giovane Eugenio Bruno da S. Caterina. Ma il Tribunale militare di Caltanissetta lo condannò a sei mesi.
[64] Tra i casi veramente tipici e recenti dell’asservimento della magistratura si deve registrare quello confessato dal Prefetto Municchi—ex magistrato—nella causa Nasi-Cavallotti. La ingenuità colla quale il Municchi, che passa per una cima, confessò di essersi prestato da magistrato alle voglie dell’on. Morana, ex-sottosegretario agl’interni, è prova, che il fatto è normale e notorio per quanto brutto.
[65] Ricordo con vivo compiacimento il Tribunale penale di Caltanissetta, che durante il 1893 ed anche dopo proclamato lo Stato di assedio, in parecchie occasioni, seppe con maggiore costanza dimostrare la propria indipendenza.
[66] Come attenuante per la magistratura siciliana qualcuno mi ha esposto questo tipico argomento: i processi che si svolsero innanzi i Tribunali militari furono istruiti... come sappiamo, perchè la magistratura credeva che una amnistia sarebbe venuta in tempo a troncarli. Quando essa si accorse che si voleva andare sino in fondo non potè più rifare sul serio ciò che era stato imbastito quasi per burla..... Ed avvenne quello che avvenne e di cui si avrà più completa conoscenza nel seguente capitolo.
[67] Genesi e funzioni delle leggi penali. Roma 1889. Questa tesi viene sostenuta con parole analoghe da Pellegrino Rossi, Pietro Ellero, Mausley, Letourneau, De Greef e da altri illustri scienziati; dal diritto penale venne applicata al diritto civile da Menger, Salvioli, Bechaux, Loria, De Championniere ecc., che ritengono tutti gli aforismi giuridici essere stati esclusivamente redatti a vantaggio dei ricchi e dei più forti e a disprezzo della giustizia e dell’equità.
Nel testo l’ho presentata colle parole del Vaccaro, perchè la scienza in questo quarto d’ora è sospetta, e perchè il Vaccaro non è solo un cultore della scienza, ma è anche il Segretario del Ministro della Presidenza e perciò non può considerarsi come un pericoloso sobillatore... L’egregio Prof. Alimena metterebbe meno impegno a combattere il Vaccaro se dovesse scrivere l’ottimo suo libro sui Limiti modificatori dell’imputabilità dopo le condanne di Sicilia e di Padova e le assoluzioni di Roma.
Di questo processo si potrebbe dire per eccellenza quello che il Carrara affermava dei processi politici: «la giustizia non vi ebbe parte.»
Quella politica che già fin dai singoli processi per i tumulti del dicembre ’93 e gennaio ’94 s’era mostrata conturbatrice del giudizio; quella politica che aveva esercitato tutta la sua bassa influenza nel processo contro il Curatolo—del quale si parlò avanti—venne, nel processo De Felice e compagni, a spiegare intera la sua mostruosa gravezza; così che, questo, tutto riassume e comprende le brutture e le violazioni degli antecedenti processi svoltisi avanti ai Tribunali di guerra.
Per una fatalità, l’istruzione di esso fu iniziata e compiuta in un antico palazzo medievale—fosco di molte truci memorie—che porta ancora nella piccola torre merlata il vecchio orologio a campana che sonò tante ore di agonie tremende.
È il palazzo dei Manfredi Chiaramonte, ove per[343] due secoli infami i Tribunali del S. Uffizio compirono la tenebrosa opera loro! e dove oggi—da magistrati che pur videro infrangersi contro a una civiltà nuova l’ultimo avanzo della temporalità della Chiesa—potè essere ordito, malvagiamente, un processo su delazioni segrete,... di quel segreto che fu anima dell’Inquisizione.
Consapevole com’ero di tutti gli elementi che potevano comporre quel processo, e dei mezzi adoperati a raccoglierli, e del criterio seguito nel coordinarli; delle intenzioni, insomma, che guidavano coloro che lo avevano imbastito e imposto, scrissi nella prima edizione di questo libro—tre mesi avanti che cominciasse il dibattimento—le seguenti parole:
«La grandiosità artificiale del processo contro De Felice, Bosco e C. è una vera montatura teatrale, che mira a giustificare le misure prese e l’allarme destato; ma se il processo verrà a termine, se si svolgerà innanzi ai giudici naturali e non verrà soppresso da una comoda e pietosa amnistia che gioverà a coloro che lo hanno imbastito e non agli accusati, si vedrà che esso sarebbe una colossale bolla di sapone, se non fosse una grande infamia nella quale si tenta coinvolgere quanti ebbero innocenti relazioni con De Felice, Bosco e compagni, quanti ebbero parte nella organizzazione dei Fasci colla ferma intenzione di mantenersi nei più stretti limiti della legge. Il processo, se sarà conosciuto nei suoi dettagli, riabiliterà la fama dei giudici dei peggiori tempi della tirannide. E allora si vedrà quale opera nefanda di servilismo e di complicità hanno fatto certi giornali, che con singolare compiacenza[344] hanno riferito, fingendo di averle dalle solite fonti ineccepibili e autorevoli—ch’erano poi quelle delle questure—le notizie sull’alto tradimento, sull’oro francese, sui depositi delle armi, sui cannoncini (che servono a sparare le così dette botte!), sul cifrario e sulle misteriose corrispondenze col medesimo spiegate, sulla constatata relazione tra i fatti di Massa e Carrara e quelli di Sicilia e di questi coi capi dei Fasci...»
Previsione triste, la quale pure venne superata dai fatti! così che veramente, questo processo, e per la sua durata; e per gli incidenti; e per il numero e la qualità dei testimoni di accusa e di difesa; e per le risultanze sorte dalla grande libertà di parola e di apprezzamenti a tutti accordata; e per l’enorme contraddizione tra quelle risultanze e la sentenza—non impreveduta, certo—ma che avrebbe dovuto essere imprevedibile, questo processo, dico, che trasse tutta la sua esistenza dalle accuse della polizia fondate su delazioni di confidenti segreti, non può essere chiamato altrimenti che mostruoso.
Dai 7 d’aprile, ai 30 di maggio: due mesi di discussioni e di lotte tra gli accusati, la difesa, il Presidente, i testimoni, l’Avvocato Fiscale, provarono l’istruzione del processo tutta una farsa indegna, la quale però finì in tragedia per la condanna che mandò in galera dei giovani valorosi che lasciarono nella squallida miseria le loro famiglie.
Il processo mostruoso si svolse nell’ex convento di S. Francesco di Assisi—nel 1848 sede di quel parlamento Siciliano che doveva adattare ai tempi la costituzione del ’12—e nella stessa Sala dove fu dichiarata decaduta la dinastia dei Borboni![345]
L’evocazione di questi ricordi di glorie infelici—conquistate con tanto sangue in nome della libertà,—faceva sentire più forte la melanconia di quel grande inverosimile apparato di forza, che dalla via del Parlamento non era interrotto fino nell’aula del Tribunale. C’erano poi soldati, carabinieri, questurini, delegati, scaglionati da per tutto nelle vicinanze del Palazzo e si sentiva subito, anche da chi l’ignorava, che in esso si perpetrava qualcosa d’inusitato e di contrario alla libertà, di inviso al popolo e che premeva molto al governo che si compisse a malgrado di tutto e contro tutti.
Innumerevoli guardie di P. S. venivano appostate lungo la strada che, dalla Vicaria alla via del Parlamento, percorrevano le carrozze cellulari, scortate da drappelli di carabinieri.
Ammanettati ben bene, gli accusati, erano condotti nella grande gabbia che ha racchiuso briganti famosi e delinquenti d’ogni sorta.
Nell’aula non era già dato a chicchessia di penetrare. Gli agenti di polizia squadravano d’alto in basso, e negavano o accordavano l’ingresso secondo il loro talento, onde accadeva poi che una quantità di guardie travestite venivano comandate a far la comparsa di pubblico nell’aula grande, chè altrimenti sarebbe rimasta presso che deserta.
Entravano liberamente Signori e Signore dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, che avevano biglietti per posti distinti. Venivano volentieri a godere dello spettacolo di quel processo!
Pure qualche volta accadde a una dama di commoversi; altre però fecero mostra di una durezza fenomenale.[346]
Una contessa, che ama le bertucce, un giorno scendendo per l’ampie scale, ebbe tanta gentilezza d’animo da dire, ridendo, che quegli uomini dentro la gabbia le erano sembrati degli scimmioni.
E la cosa fu tanto orribile che un onorevole principe, il quale le stava a lato, disse a quella dama delle parole così severe che somigliavano a un rimprovero.
Non ugualmente, da quei posti riservati poterono assistere sempre i congiunti degli imputati, perchè le spie assicuravano giudici e poliziotti che essi scambiavano segni misteriosi e pericolosi coi giovani baldi rinchiusi nella gabbia;—e non erano altro che dei saluti furtivi ed affettuosi!
Forse, furono ritenute anche pericolose le lagrime che qualche volta, sgorgavano dai bruni occhi di Maria De Felice, proprio malgrado, quando il padre levavasi fiero e sorridente a protestare contro una calunnia, o a schiacciare cogli articolati stringenti un basso testimonio di accusa.
Gli imputati—da prima malvisti e odiati anche—destarono poi nel pubblico interesse e simpatia vivissima: fu un crescendo, mano mano che al dibattimento venivano sfatate le accuse vili che i loro nemici avevano fatto circolare sapientemente.
Perocchè il governo e le classi dirigenti, con uno sfacciato lavorio di denigrazione, erano riusciti a rendere odiosi i socialisti del processo mostruoso; nei giornali, alle Camere, nei crocchi, le calunnie più inverosimili si erano spacciate contro di loro. Gl’imputati non erano soltanto responsabili degli eccidî, degli incendî, delle devastazioni di Sicilia, ma erano anche i traditori della patria, che volevano[347] disfare l’opera secolare a cui consacrarono braccia, mente e cuore tanti martiri e tanti eroi; erano i traditori della patria, che avevano trescato coll’eterno nemico d’Italia, il clericalismo e ch’erano stati comprati dall’oro straniero. E in essi, più che gli utopisti imprudenti, che sognavano la redenzione economica dei lavoratori, lo ripeto, non si vedevano che i traditori della patria.
Tale l’ambiente morale creato non solo in Palermo, ma in tutta Italia. Era stato creato colle menzogne e colle calunnie più scellerate; ma queste venivano proclamate con tanta sicurezza e con tanta insistenza da coloro che si presumeva dovessero conoscere la verità—dall’infimo giornaletto di provincia sussidiato dal Prefetto, al grande giornale della capitale, la cui ufficiosità non era discutibile; dal delegato di pubblica sicurezza al primo ministro del regno—che la pubblica opinione venne traviata e le infamie, per un momento, acquistarono credito presso gli uomini indipendenti e di mente eletta, sinanco tra gli amici politici dei prigionieri.[68]
Ma è tempo di fare, per così dire, la cronaca e la descrizione del processo mostruoso e comincio dalla lista degli accusati, dei giudici, dei difensori, dei testimoni e degli accusatori.
Degli accusati non faccio la biografia; sono giovani tutti, meno il Bensi, e non ebbero campo di fare qualche cosa notevole pel proprio paese o per la libertà; quasi tutti furono giornalisti intelligenti oratori e propagandisti instancabili e fortunati dell’ideale socialista. Emerge Giuseppe De Felice e per la sua vita avventurosa, e perchè è Deputato al Parlamento, e perchè è onorato dall’odio personale di Francesco Crispi, e perchè in fine, a torto o a ragione, viene ritenuto il Capo dei Fasci e della cospirazione: da lui, perciò, prende nome il processo mostruoso.
Gli accusati nell’atto di accusa e nella requisitoria del Pubblico ministero sommariamente vengono qualificati come appresso—e la qualifica è bene conservare a documento della fenomenale leggerezza e della malignità di chi istruì il processo e di chi fece da pubblico accusatore.
Cipriani è notoriamente conosciuto quale un internazionalista anarchico ed un ardente rivoluzionario.
Gulì Emmanuele è un anarchico siciliano così ritenuto nelle denuncie, così definito dai coimputati nei loro interrogatorii.
Petrina un rivoluzionario di tempra adamantina, così negli elogi che in diverse lettere gli fa Cipriani.
Montalto il più serio del partito tra quelli del Comitato, secondo egli stesso si qualifica in una lettera del 23 maggio 1893 diretta al farmacista Curatolo di Trapani.
Il Ciralli è un fanatico gregario, mentre il Cassisa è un arrabbiato contro l’attuale ordine di cose tanto da scrivere in una lettera del 19 marzo 1892 diretta a Montalto, essere[349] una vergogna che il municipio di Trapani preparasse un’accoglienza al Duca degli Abruzzi che chiama farabutto savoiardo, che non ha altro pregio che appartenere a casa Savoia.
Il Pico è un entusiasta travolto nella corrente dal De Felice, perchè elevato a segreto ambasciatore: come prova una sua lettera ed egli lo ammette nel suo interrogatorio.
Il Verro è un rivoluzionario opportunista ed il Barbato un rivoluzionario convinto che non disdegnerebbe di cogliere la prima favorevole occasione.
Il Bensi Gaetano, bolognese è un opportunista che per la rivoluzione fa causa comune con chicchessia. Difatti egli in una lettera dell’8 dicembre 1893 diretta a De Felice scrive che: nel fascio già costituito entrano anarchici, collettivisti, socialisti.
E più sotto: Oggi a Ravenna vi sarà una riunione regionale, «speriamo che i bravi anarchici vi si trovino.»
Bosco sa mantenere tutte le apparenze per dirsi socialista evoluzionista, non si tradisce scrivendo, ma parlando ed agendo è un vero campione degno di De Felice ch’è un rivoluzionario deciso secondo egli stesso si analizza nei suoi interrogatorî, e non ne fa un mistero.
Sono imputati di cospirazione per commettere fatti diretti a far sorgere in armi gli abitanti del Regno contro i poteri dello Stato, di eccitamento alla guerra civile ed alla devastazione in qualsiasi punto del Regno con la consecuzione in parte dell’intento: fatti avvenuti nei mesi di novembre e dicembre 1893 e gennaio 1894 in Sicilia, articoli 136, 120, 252.
Tra gli accusati c’è un assente. A. Cipriani, che come usa presso i Tribunali di guerra non venne condannato in contumacia.
Il Tribunale era così composto.
Presidente: colonnello del genio cav. Giussani—Giudici: tenente colonnello del 57 cav. Bianchi—tenente colonnello del 3. bersaglieri cav. Borgna—capitano d’artiglieria De Boyen—capitano di fanteria cav. Minneci—capitano di fanteria Cortella—capitano d’artiglieria Pontiglione.[350]
Da prima funzionò da pubblico ministero l’avvocato fiscale Soddu-Millo, poi—ammalatosi—venne sostituito definitivamente dal sostituto Viesti.
Sull’opera del Tribunale non ritornerò; esporrò qui la impressione che ne ebbe il pubblico in generale.
Il Presidente, colonnello Giussani, concesse grande libertà di parola non solo ai testimoni a difesa, ma anche agli accusati tanto da sembrare interessato a vederne risultare luminosamente l’innocenza.
Quale fosse il pensiero degli accusati sulla loro posizione di fronte al tribunale militare lo lascerò dire al Dr. Barbato che nella sua splendida orazione in cui non fece la sua auto-difesa ma espose le fatali ragioni storiche del socialismo, così disse:
«Quanto a noi, abbiamo semplicemente due doveri in questo processo, secondo me. Riaffermare la nostra fede, e lo abbiamo fatto. Fornire i documenti della nostra moralità extra legale, e lo abbiamo fatto. I miei compagni hanno creduto di avere anche un terzo dovere, quello di difendersi giuridicamente. Io affermo che questo diritto noi non l’abbiamo; non perchè si dubiti della lealtà vostra, non per le ragioni giuridiche che si sono messe avanti ne’ parlamenti, ma perchè voi non siete i nostri giudici naturali.»
«E giudici naturali non esistono, per noi: il codice non ci riguarda. Io sono lieto di trovarmi dinnanzi a voi, perchè ci avete dato agio di mostrarvi chi siamo, mentre i così detti giudici naturali questo agio non ce l’avrebbero dato.»
«Sicchè quando vi dico che nel mio animo c’è riconoscenza per voi, riconoscenza sincera, dovete[351] credermi. Voi con molta probabilità, anzi con certezza, manderete a casa, non certo me, ma quelli tra i miei compagni che sono i meno odiati, mentre sono sicuro che i giudici naturali avrebbero sacrificato tutti insieme a me, in omaggio a quella libertà che ha dato feudi, ville, palazzi ai vecchi lupi, manette e piombo ai figli della plebe cenciosa che ha liberato l’Italia dallo straniero e che libererà l’Italia dalla schiavitù del capitale. Ma io dubito che voi appunto non vogliate dare il vostro contributo alla civiltà in cui viviamo. Quando si vive in un dato periodo di civiltà, ogni uomo leale che la ritiene buona sente il dovere di darle, il suo contributo: quella di oggi è ancora quella che innalzava i roghi e i patiboli.»
«Non si tratta di codici. Nè voi, nè io c’intendiamo di codici. Si tratta della convinzione che nei vostri animi può esserci rispetto a questi elementi distruttivi del presente.»[69]
E il Dr. Barbato non s’ingannò: i meno odiati, Ciralli e Cassisa, vennero assolti; gli altri tutti condannati, non perchè dimostrati autori dei reati a loro imputati, ma perchè rappresentanti di un idea, che il Tribunale aveva la consegna di combattere. Parve a tutti, che esso, abbia condannato, per disciplina.
I difensori furono:
Truglio, tenente del 38º fanteria, per De Felice—Caldarera,[352] tenente del 22º artiglieria, per Ciralli—Calcagno, tenente del 22º artiglieria, per Cassisa—Lelli, tenente del 57º fanteria, per Bosco—Palizzolo, tenente del 22º artiglieria, per Petrina—Orioles, capitano del 57º fanteria, per Verro—Piccoli, capitano del 22º artiglieria, per Barbato—Trulla, tenente del 38º fanteria, per Benzi—Ponti, tenente del 57º, per Montalto—Palizzolo, tenente del 22º artiglieria, per Pico—Trulla, tenente del 38º, per Gulì.
Non c’è parola di elogio che basti per coloro che ebbero il compito della difesa, ingrato, perchè si sapeva inutile ogni sforzo. In questo e negli altri processi i militari della difesa mostrarono intelligenza, coraggio, indipendenza, eloquenza; essi sollevarono numerosi incidenti e somministrarono elementi preziosi per il ricorso in Cassazione; scattarono spesso contro le calunnie e le menzogne dei testimoni dell’accusa, che non di raro s’imbrogliarono, si contraddissero, si ritrattarono. Essi infine meritarono il saluto seguente, che in nome di tutti i suoi compagni rivolse loro Giuseppe De Felice: «mando un caldo saluto di affetto e riconoscenza ai nostri egregi, cari, simpatici difensori. Essi che accettarono titubanti le nostre difese perchè ci credettero per un momento colpevoli, li avete sentiti, hanno col maggiore entusiasmo sostenuta la nostra difesa perchè ci sanno innocenti. Essi dubitarono della nostra fede, noi non dubitammo mai della loro lealtà, vennero sconosciuti al carcere, uscirono fratelli nostri. E noi li ringraziamo come fratelli; l’opera loro non può essere che quella di fratelli. E ci confortò l’idea che, arrivati a noi in mezzo al dubbio, sono usciti pieni di entusiasmo e di affetto per[353] questi giovani che hanno lasciato le dolcezze della vita per farsi chiudere in carcere, animati da un desiderio infinito d’amore. Grazie, grazie dal profondo del cuore, qualunque sia l’esito del dibattimento!... Nè noi siamo qui per domandare pietà per noi o per le nostre famiglie, ma per manifestare al paese che giovani leali lottano lealmente, senza transigere mai colla lealtà del cuore. Vi ringraziamo!...»
Gli ufficiali preposti alla difesa dei predestinati alla condanna, nel senso più elevato della parola fecero il loro dovere!
Supero la ripugnanza, che destano certe persone e presento ai lettori il Comm. Lucchese, il deus ex machina del processo mostruoso, l’artefice e lo strumento principale delle vendette del governo e della borghesia e che gli odî dell’una e le paure dell’altra condensò nei suoi rapporti e nelle sue deposizioni.
Il passato del comm. Lucchese non è bello. All’epoca del processo Notarbartolo quel passato venne rievocato dalla Tribuna Giudiziaria, autorevole rivista di Napoli—la quale... non venne incriminata. Poscia fu esposto succintamente dall’On. Altobelli nella sua testimonianza innanzi al Tribunale di Guerra, in questo processo—udienza del 16 maggio—a domanda del tenente Truglio: e infine da me, in Parlamento, costrettovi dalle denegazioni dell’onor. Crispi....
Ora quale parte abbia potuto rappresentare il Lucchese nel processo De Felice si può argomentarlo da questi due rapporti a sua firma:[354]
R. Questura di Palermo
5 gennaio 94
Il Comitato Centrale agiva d’accordo col Comitato internazionale socialista-anarchico residente all’estero.
I presidenti dei Fasci sono scelti fra gli ammoniti ed i facinorosi.
Fu istituito un comitato d’azione per preparare meglio la rivoluzione.
Sul principio il Comitato si tenne separato dagli anarchici: e si unì poi a loro nel novembre del 93.
Fu progettata la rivoluzione in Palermo, che fu poi sventata dall’opportuno arrivo della forza. Si verificò invece il movimento preveduto nei Comuni dell’Isola.
Lo scopo del sodalizio era di eccitare nel popolo l’odio contro le istituzioni e le classi abbienti.
Si fa rilevare l’acquisto d’armi e munizioni fatto dai contadini a Palermo su vasta scala, e molte riparazioni alle vecchie armi.
La flagranza del delitto di cospirazione è continua e provata dalle continue riunioni del Comitato, e specialmente da quella del 3 gennaio u. s.
I fatti successi poi nei comuni costituiscono il reato di associazione a delinquere.
R. Questura di Palermo
Verbale 9 gennaio 1894
Lo scopo del partito socialista si desume:
1. Dal punto storico dello sviluppo dei fasci:
2. Dallo spoglio dei giornali cittadini e specialmente dai fogli del partito, come: la Giustizia Sociale e il Siciliano;
3. Dai documenti sequestrati, costituendo essi un corredo di prove chiare, complete ed inoppugnabili.
Perchè l’organizzazione potesse concertarsi e rinsaldarsi, oltre allo Statuto unico per i fasci, occorrevano:
1. Un centro direttivo nella Capitale dell’isola, celebre per le patriottiche iniziative:[355]
2. Mezzi economici sufficienti alla propaganda colla stampa, coi viaggi, con attiva corrispondenza, sussidi e feste;
3. Un numero di persone capaci di correre qua e là, affrontare i rigori della legge e di sostituire nei grandi centri l’azione che nei piccoli centri è affidata e devoluta ai pregiudicati ed ai facinorosi.
I Fasci erano composti per 2/3 di povera gente e per 1/3 di delinquenti.
Se il manifesto del 3 non è dichiarazione di guerra, ha però l’aspetto di un ultimatum da potenza a potenza.
Gli appelli alla calma erano platonici ed apparenti.
Il socialismo che per altri è una fede ed una scuola; per essi (i membri del Comitato) è uno strumento ed un mestiere.
Questore Lucchese—Palermo
Il Lucchese completò l’opera sua nella udienza del 20 Aprile, quando innanzi al Tribunale, disse che in Palermo si vedevano gironzare molte facce nuove venute per fare le squadre e la rivoluzione tra gli ultimi di dicembre e i primi di gennaio; che si erano fatti straordinarî acquisti di armi.
Messo alle strette s’imbroglia e si contraddice; si rifiuta per non violare i segreti di Ufficio, a scoprire la fonte delle sue notizie; ma oltre ai comuni confidenti di polizia, insinua che ebbe tutto comunicato da un membro del Comitato Centrale, completando la campagna da lui condotta contro uno dei tre membri del Comitato non arrestati immediatamente e che lasciava comprendere di non volere arrestare.
La testimonianza orale di questo Comm. Lucchese fu tale, che la difesa domandò la sua incriminazione per applicazione dell’art. 214 del Codice penale. Quando il Tribunale si ritirò per decidere, furono molte le discussioni e i commenti; l’incriminato[356] andò al banco della Stampa per giustificarsi; fu tale, però, l’accoglienza che se ne allontanò subito. Nessuno s’illuse sulla decisione che avrebbe presa il Tribunale; ma nessuno poteva aspettarsi una ordinanza come quella che lesse il Presidente, poichè essa consacrava una enormità giuridica e morale colle seguenti parole finali: «Il Tribunale dichiara veridica la deposizione del teste, la quale non può essere infirmata dalla cartolina scritta dal Pico e respinge l’istanza della difesa». Tali parole furono accolte nell’aula da un mormorio prolungato, che in quel momento, a chi vi assisteva, potè sembrare un fremito di ribrezzo del popolo.
Per intendere tale impressione, ed anticipando la narrazione si deve aggiungere che di questa cartolina di Pico sarebbe vero autore morale lo stesso Lucchese: se non la dettò, la lesse, la conobbe, l’approvò!
I testimoni. La loro sfilata è immensa; tra quelli di accusa ho notato, senza avere avuto la pazienza di rilevare la condizione di tutti: sette prefetti, un ex prefetto, un consigliere delegato di Prefettura, tre questori, sei ispettori di pubblica sicurezza; e poi Delegati, ufficiali dell’esercito di ogni arma e di ogni grado, sindaci e proprietari, avversarî notissimi dei Fasci; e poi questurini e carabinieri; e poi pochissimi lavoratori, che o depongono su circostanze inconcludenti o smentiscono ciò che risultava avevano affermato nel processo scritto...
Quanta fosse la indipendenza di questi funzionarî-testimoni si può detergerlo dal caso occorso al Comm. Bondi, ex-prefetto di Catania e Messina: egli fu messo a disposizione del ministero per punirlo, si[357] dice, di avere deposto in parte favorevolmente agli accusati.
Tra i testimoni a difesa stanno deputati di ogni colore—da Pierino Lucca a Prampolini, da Imbriani a Tasca Lanza, da Cavallotti a Paternostro, da Florena ad Altobelli,—consiglieri provinciali e comunali, proprietarî, avvocati, medici, ingegneri, farmacisti, commercianti—insomma il fior fiore delle intelligenze e del carattere di ogni angolo della Sicilia e di altre regioni d’Italia.
Da un questore Lucchese e da quella razza di testimoni d’accusa non furono raccolte che testimonianze e prove nelle quali c’era tutto meno che la verità e la serietà; dell’una e dell’altra non traspare neppur l’ombra della preoccupazione. E la magistratura tutte le gratuite e calunniose asserzioni, tutti gli elementi innocenti accettò come prove irrefragabili della colpevolezza degli imputati; le accettò senza alcun beneficio d’inventario.
Gli elementi più serî, a prima vista, sono le lettere di Cipriani a De Felice e a Petrina; molte rimontano al 1890, al 1888; ma di tutte l’uno e l’altro fecero un minuzioso esame, che distrusse le induzioni dell’accusa, come si vedrà, non rimanendo di assodato che questo solo: Cipriani desiderava la rivoluzione.
Si parlò di un terribile appello dello stesso Cipriani ai Siciliani; ma era tanto criminoso e pericoloso che la Giustizia Sociale lo aveva a suo tempo pubblicato senza essere sequestrata e processata.
Si fece una colpa a De Felice di un discorso pronunziato... in ottobre, a Casteltermini; ma vi fu denunzia e processo a suo tempo e la Camera di Consiglio[358] del Tribunale penale di Girgenti non trovò luogo a procedere. Il pubblico ministero appellossi... dopo proclamato lo stato di assedio e iniziato il processo mostruoso.
A dimostrare l’accordo per la rivoluzione tra De Felice e i clericali si invoca una lettera di presentazione dell’Avvocato D’Agata di Catania all’avvocato Menzione di Napoli; ma non si procede contro chi l’ha scritta, non si procede contro colui cui è diretta e se ne fa una colpa al deputato socialista, che... non la presentò.
De Rosa, ex prefetto di Caltanissetta, trova l’indizio grave della colpabilità di De Felice nella visita da lui fatta ai prigionieri di Valguarnera nelle carceri di Caltanisetta e non si trattava che di un’inchiesta legittimissima, fatta alla presenza del Direttore delle Carceri, e la cui relazione fu pubblicata dal Siciliano, per conto del quale venne fatta.
Lo stesso De Rosa, parlò di un patto di morte sottoscritto—da contadini, che non sanno leggere e scrivere!—tra i membri dei Fasci della provincia, che reggeva, e tacque prudentemente dello schiaffo assestatogli dalla magistratura nel processo di Milocca in cui figurava lo stesso tremendo patto.
Bondi, ex prefetto di Catania, desume le intenzioni rivoluzionarie di De Felice da un suo discorso al Teatro Nazionale di Catania, che le autorità politiche non interruppero, le giudiziarie non incriminarono e la stampa borghese locale non trovò biasimevole.
Lo stesso Bondi attribuì ad un discorso di De Felice i tumulti di Catenanuova e i resoconti parlamentari[359] in quel giorno provarono che il De Felice era a Roma.
Novari, tenente dei carabinieri, dice violentissimo un discorso dallo stesso De Felice nella stessa Catenanuova dove si portò molti mesi dopo ch’era stato pronunziato, e contraddice e smentisce il maresciallo dei carabinieri, che lo aveva ascoltato e non vi aveva trovato da ridire; e il superiore dichiara inesatto e incompleto il rapporto del suo subordinato per giustificare la propria asserzione. Si fa colpa al De Felice di avere partecipato al Congresso socialista di Zurigo ed egli documenta che si trovava in Italia.
Si dichiarano rivoluzionarî nel significato volgare De Felice, Bosco, Petrina sulla base di elementi di questo genere: perchè in una lettera di un Barbagallo il primo vien detto tenace sostenitore dei più sacri diritti popolari; perchè in un’altra lettera da Lugo lo si dice caldo oratore del partito rejetto, caldo sostenitore dei diritti finora conculcati, illustre condannato della borghesia; perchè Bosco scrive a Petrina senza il giornale (L’Isola, da me diretta) il movimento operajo è ammazzato... E da tali elementi si argomenta che la propaganda socialista ha false apparenze!
Non basta, non basta! Ecco un dialogo istruttivo all’udienza del 28 Aprile:
Difensore Piccoli: Da che cosa arguisce il teste, che il Fascio di Piana dei Greci fosse così terribilmente provocatore?
Zumma, Delegato di P. S.: Dalla compattezza dei soci, i quali si fecero crescere tutti i baffi in seguito ad ordine del Barbato, il quale disse che sarebbero stati[360] espulsi dal Fascio quelli che non avrebbero portato i baffi...
Il resoconto nota, che quando venne denunziato questo terribile indizio dei baffi il pubblico scoppiò in ilarità. Si rideva; ma con siffatti elementi si tolsero la libertà e i diritti civili a tanta generosa ed intelligente gioventù.
Ed ora viene il meglio. Un Marzullo, ispettore di P. S. in Palermo afferma che gl’imputati accordavano largizioni, sussidî, assegni a coloro, che lavoravano per la causa comune. Un Delegato, il Gallegra, riferisce che si è fatta una propaganda contro la monarchia e che i collettivisti avevano predicato la divisione della proprietà.[70] Un terzo ispettore, il Castellini, riconosce che il vero scopo del Comitato dei Fasci non fu mai il miglioramento morale e materiale dei lavoratori, ma il solo proprio tornaconto; che promettevano ai gonzi la divisione dei beni e che intanto fanaticando le masse ignoranti e spillando denari se la godevano da signori... De Felice, Bosco, Barbato e Verro, nulla tenenti, spendevano e spandevano come grandi signori in pranzi e bagordi senza sapersi ove trovavano il denaro....
Tutto ciò si legge testualmente nei rapporti di questi bravi funzionari, che devono applicare le leggi antianarchiche; e tutto ciò porta la stigmata della viltà, perchè venne scritto il 26 e 27 gennaio, quando lo stato di assedio era in vigore, quando gl’imputati erano in carcere; e venne scritto per uso e consumo della magistratura inquirente, che voleva del[361] buono in mano per mandare in galera i socialisti. Ci fu un eroe, però, che non aspettò lo stato di assedio per denunziare i pericolosi sobillatori e le più pericolose cospirazioni: è il delegato di Bisacquino. Ecco il rapporto dell’ottimo signor Morandi, mandato in ottobre al suo superiore, il sottoprefetto di Corleone, in tutta la peregrinità del suo stile:
«Notizie sulla cospirazione del Comitato centrale esistente in Palermo, inspirata dai componenti di esso, da notizie partecipate da un gregario fin dall’ottobre 1893.
«1. La congiura che ha la sua manifestazione a mezzo dei Fasci dei lavoratori socialisti ha per obiettivo una azione politica, protetta e promossa dalla Francia e dalla Russia, che hanno di mira lo smembramento della Sicilia dal resto d’Italia;
«2. La Sicilia sarebbe invasa dalla Russia e tenuta da essa come base d’operazione sopra Costantinopoli;
«3. Si promette alla Sicilia un governo libero, indipendente, senza oneri, con l’obbligo però di tenere, nei punti in cui vorrebbe la Russia, delle guarnigioni militari;
«4. Non più tardi del maggio 1894 la Francia simulerà un passaggio delle Alpi per invadere il Piemonte, nel mentre che la Sicilia farà l’insurrezione socialista, protetta al di fuori dalla Francia, la cui flotta terrebbe a bada quella italiana e quella inglese, ecc.;
«5. Per aver vivo lo spirito di ribellione in Sicilia si forzeranno i soci dei fasci allo sciopero, permodochè esasperati dalla miseria, l’impeto della rivolta sia indomabile;
«6. I Fasci di Sicilia attendono due navi di fucili a retro-carica, munizioni e bombe cariche di dinamite;
«7. Si tenterà ancora la rivoluzione dei fasci e di altri sodalizi sovversivi delle altre regioni d’Italia, e quando il governo cercherà di riparare per la Sicilia, la Francia tenterebbe una spedizione per invadere Roma;
«8. Tutto avrà luogo con rapidità fulminea, che in ciò le potenze nemiche posano la maggior fiducia per completamente riuscire.[362]
«9. Si fa assegnamento sulla non intera compattezza dell’esercito italiano, tanto più che la bassa forza ritiensi voglia partecipare nelle aspirazioni comuni ed unisone alla redenzione del proletario (!);
«10. Il Consiglio generale di tale congiura è composto di varii deputati siciliani, fra i quali Colajanni, De Felice Giuffrida ed un Granduca (?);
«11. Per ora si è concertato un moto rivoluzionario da verificarsi, o nell’atto in cui venissero sciolti i fasci, o nel prossimo inverno, perchè i socii del fascio potessero avere agio di approfittare coi saccheggi, e così poter campare fino all’epoca in cui insorgesse con la Sicilia il resto dell’Italia. Tale rivolta che precorrerebbe la generale, si limiterebbe alla sola provincia di Palermo, essendo questa ben preparata con armi in parti nostrane, in parte a retro-carica e a Wetterly, e già i soci del fascio attendono in segreto alla formazione delle cartucce;
«12. Si è stabilito che la corrispondenza dei cospiratori di tutti i fasci, venga affidata ad appositi pedoni espressamente scelti fra i più scaltri e fidi gregari, escluso il mezzo postale ed il telegrafo, con eccezione di quest’ultimo nei casi impellenti, ma con la preintelligenza fra i corrispondenti di specificare l’opposto di quello che si dovrebbe manifestare.
Questo rapporto è un brano di romanzo di Ponson du Terrail? è una farsa? è una realtà terribile e dolorosa? La ritenne cosa comica il sottoprefetto di Corleone, che non volle mandarla all’on. Giolitti come desiderava l’autore; e cosa lontanissima dalla serietà la ritenne l’avvocato fiscale Viesti in una interruzione fatta durante la mia deposizione. Altri invece, vi prestò piena fede; e il suo autore quando il 21 aprile fu richiesto in Tribunale se era sicuro che ciò che aveva scritto corrispondesse al vero, rispose: ne ho la certezza metafisica! E a domanda analoga aggiunge imperterrito: il trattato rivoluzionario fu sottoscritto in ottobre 1893.[363]
Ebbene: Prefetti, Sotto-prefetti, Questori, Ispettori, Delegati, Carabinieri—che tanto gravi accuse lanciarono—d’onde e come ne acquistarono la certezza più meno metafisica?
La grande sorgente delle notizie è la vaga ed indeterminata voce pubblica; le esatte e metafisiche informazioni vengono da misteriosi quanto comodi confidenti. Qualche volta si tentò determinare meglio chi fosse la voce pubblica; e il tentativo non poteva riuscire più infelice pei suoi portavoce.
Viene un ricco proprietario di Palermo, il Barone Valdaura, chiamato dall’accusa e dichiara di saper nulla di nulla, meravigliandosi di vedersi citato. Un delegato Zummo riassume la voce pubblica di Piana dei Greci nel D. Carnesi, ma questi quantunque nemico personale di Barbato, interrogato, risponde che nulla disse mai direttamente al Delegato, che avrà saputo qualche cosa dai discorsi che correvano.
La voce pubblica afferma che Petrina in un dato giorno si trovava in Palermo a cospirare col Comitato dei Fasci, ma il signor Restivo viene a deporre, che proprio in quel giorno il Petrina stava nel suo ufficio di Procuratore del Re in Messina, per cose che interessavano la giustizia, e si può non credere ora alla ubiquità di Sant’Antonio? Nè sono le sole autorità governative a trincerarsi dietro la inviolabilità del segreto di ufficio; l’espediente per fare accettare come oro di coppella le proprie invenzioni è comodissimo e vi ricorrono anche i privati. Migliore, sindaco di Belmonte Mezzagno, ne dice tante e così grosse a carico degli imputati, negandosi a fare i nomi dei confidenti dai quali le[364] aveva apprese, che il Tribunale si vede costretto per salvare la decenza, ad incriminarlo. Un Vernaci di Parco assicura in nome della voce pubblica che il Fascio locale aspettava comunicazioni per discendere armato a Palermo; ma incalzato dalla difesa a dare migliori prove dell’asserto conclude: Ma..... non so..... l’ho inteso a dire..... Però non mi risulta affatto.....
«Bel modo di mandare in galera i galantuomini!» esclama dalla gabbia il povero Nicola Petrina fremendo al pensiero che nella terza Italia si fosse tornati ai tempi della onnipotenza delle delazioni segrete.
Se la voce pubblica e i confidenti—risulta dal dibattimento—non sono che la espressione genuina della menzogna viene invece dimostrato a luce meridiana la provocazione poliziesca, la corruzione e la falsità di molti e gravi testimoni dell’accusa.
Premetto che tali arti nefande dei peggiori tempi del dispotismo non furono messe in opera soltanto nel processo De Felice. Un delegato di Pubblica sicurezza si traveste da detenuto per carpire rivelazioni a Molinari in carcere.
Un Macciscali, nel processo pei tumulti di Salemi, fu corrotto con promesse di denaro e d’impunità per fare false testimonianze. Parecchi testimoni risultarono mendaci e reticenti nel processo pei fatti di Valguarnera e furono corrotti per fare condannare i cittadini egregi, che militavano nella opposizione municipale.
Ma tutto ciò che negli altri processi fu incidente, nel processo mostruoso divenne sistema. E il punto di partenza del medesimo è tipico: il Questore[365] Lucchese chiama Bosco nel suo gabinetto e gli dice: ma non sentite dolore di tanti eccidî? Se ne sentite affrettate la convocazione del Comitato Centrale dei Fasci, riunitevi, portate una parola di calma!
Bosco, l’ingenuo! si commove e affretta la riunione, quantunque un telegramma del corrispondente del Siciliano da Roma, avvisasse dei pericoli; e il Comitato mandò quella sola parola di calma che poteva mandare.
Ebbene nella riunione affrettata, voluta e consigliata dal questore di Palermo, si trova uno degli indizî più forti delle intenzioni criminose degli imputati! Nè si dica che il crimine fu trovato nelle parole del manifesto.
No! Lo esclude la magistratura, che mandò assolti Leone e De Luca, che lo avevano sottoscritto.
Passo sopra alle dinamite, col bollo anarchico e di provenienza costituzionale, che la questura scovò a Catania[71] e vengo alla creazione di lettere e di telegrammi che dovevano, nella intenzione degli autori, nuocere agli imputati. A carico di De Luca, e dopo la sua liberazione, si creano lettere di indubitabile altissima origine portanti la intestazione: Comitato rivoluzionario e firmate tout bonnement: «Francesco[366] De Luca». Ma il tranello è così volgare ed evidente che il De Luca dopo essere stato arrestato per la seconda volta, col lusso di un Maggiore dei Carabinieri mandato a posta da Palermo a Girgenti, viene subito rimesso in libertà.
La lettera di presentazione al direttore del Vero Guelfo di Napoli non fu ritenuta sufficiente a provare l’alleanza dei socialisti coi clericali; allora si crea una lettera dei clericali.... di Venezia, che la dirigono a De Felice in... carcere e nella quale il tema discusso è la rivoluzione; e di rivoluzione e di sbarchi parla un telegramma anonimo da Palermo inviato all’on. Cavallotti e che l’occhio vigile del Generale Morra di Lavriano lascia allegramente passare mentre sequestra il discorso del Procuratore generale e i telegrammi commerciali con linguaggio convenzionale.
Di testimoni mendaci, reticenti, interessati a mentire a danno degli imputati si sa qualche cosa; di più se ne saprà del caso della Baronessa di Valguarnera, che a dire il falso se non fu indotta dalle promesse del delegato Munizio, vi fu certo dalla speranza di salvare dalla prigione il marito fratello al Cottonaro. Il Polizzi, della stessa Valguarnera, narra una circostanza a carico di De Felice in quattro modi diversi e non sa dire mai la verità, neppure per isbaglio! come disse il Presidente del Tribunale di Guerra.
E vengo alla storia edificante di Pico e di Laganà.
Pico è un disgraziato studente di Francofonte. Lo arrestano, lo intimidiscono, lo seducono promettendogli la libertà immediata se si fa accusatore dei suoi amici. Pico, come suggestionato, cede e la sua deposizione diviene il perno dell’accusa. È Pico che[367] scrive a suo padre, mentre era trattenuto in questura: «Ho conferito col signor Questore; è una persona oltremodo cortese e gentile. Egli mi ha promesso che domani verso le 10 probabilmente sarò fuori e in libertà. Intanto ha fatto sì che io sia trattato bene, ecc., ecc.»
Le promesse sono invenzioni di Pico, anche colla buona intenzione di tranquillare la famiglia? No; esse portano il bollo morale della questura: Lucchese confessò innanzi al Tribunale, che lesse la cartolina prima di spedirla. E Pico, contro i regolamenti, in prigione viene chiamato col falso nome di Araldi. Ma Pico si ravvede, si pente dell’infamia commessa resta in prigione e si guadagna una condanna, che può valere a riabilitarlo.
Giorgio Laganà, è un povero sarto di Napoli, pochi giorni prima della proclamazione dello stato di assedio va a Palermo a nome degli amici del Continente per mettersi di accordo coi siciliani per la rivoluzione. Non c’erano accordi di sorta alcuna da prendere e tornato a Napoli, dopo l’arresto di De Felice e Compagni, viene ghermito della polizia, che lo induce a nuove delazioni contro il Comitato centrale dei Fasci. E Laganà accetta; e Laganà piangendo fa la storia della propria delazione innanzi al Tribunale di Napoli il 12 marzo 1894: «i delegati, che lo arrestarono, egli narra, mentre aveva fame e freddo lo rifocillarono, lo sedussero promisero e dettero soccorsi alle sue figliuole, che avevano più fame di lui!» E basta con queste menzogne, con queste insinuazioni, con questo fango...
La sorgente delle accuse contro gl’imputati del processo mostruoso era impura; ma i rivoli che furono[368] raccolti nell’atto di accusa della Camera di Consiglio del Tribunale penale di Palermo prima e poscia nella requisitoria dell’avvocato Fiscale presso il Tribunale militare—che ne fu la copia, giacchè l’avvocato Fiscale dichiarò che non avrebbe tenuto conto delle risultanze del dibattimento orale bastandogli il processo scritto.—vennero maggiormente intorbidati e inquinati da uno spirito più che farisaico, loiolesco.
L’on. De Felice, forse per sentimento cavalleresco o per abilità, attribuì all’atto di accusa e alla requisitoria, che ne fu la parafrasi, dei meriti che non ha; può essere un laberinto all’interno, come egli la qualificò, ma non è certo un magnifico edificio all’esterno. L’una e l’altra, e con esse la sentenza furono vuote, fiacche, sconnesse. La logica adoperata avrà potuto essere efficace per convincere i militari, che nè la logica nè il diritto hanno studiato; avrebbe fatto sorridere qualunque giurista, qualunque pensatore uso a ragionare sui dati di fatto e ad indurre dai medesimi. Con sì strana logica si generalizza da un singolo caso, si esagerano i fatti reali, degli stessi fatti reali si sconvolge l’ordine di successione, si stacca una frase da un discorso e da una lettera alterandone, mutandone il significato, si induce da una ipotesi, si asserisce gratuitamente, si mutila, si contorce, si adultera ogni pensiero e s’interpreta capricciosamente ogni fatto purchè si possa rivolgere contro gl’imputati.
Per esempio, il solo Cassisa scrive a Montalto chiamando il duca degli Abbruzzi un farabutto savojardo? E nell’ordinanza si afferma che non ci fu[369] mai inaugurazione di Fasci senza un discorso violento contro i farabutti di Casa Savoia. Nella sola Valguarnera vi furono rapine? Le rapine, per aggravare le tinte, si dicono avvenute dovunque ci furono tumulti.
A Gibellina si uccide il pretore, a Pietraperzia si devasta? Si dimentica di ricordare che l’uccisione e la devastazione seguono al massacro dei contadini e che rappresentano, perciò, la esplosione di una indignazione se non giusta, certo spiegabile.
Si trova uno scritto di De Felice in cui si parla di regicidio? Si tace di tutto il resto dello scritto, ch’erano gli appunti per un discorso sulla rivoluzione francese, e si afferma che il deputato di Catania professa ed approva il regicidio. E questa abile ma disonesta tattica si eleva a sistema, presentando, tra le migliaia di lettere sequestrate agli imputati, solo quelle, che potevano loro riuscire nocive e sopprimendo le altre che avrebbero potuto costituire la loro difesa.
Ancora. I socialisti si riuniscono a banchetto all’Acquasanta, e la polizia illegittimamente vuole intervenirvi provocando.
Petrina, ironicamente, parla da commendatore alla Tanlongo in senso monarchico; e la polizia induce che se mutossi discorso è segno che il soggetto della discussione precedente era criminoso. Cipriani risponde a De Felice questo e quest’altro? e il pubblico accusatore induce che De Felice avrà dovuto scrivergli in questo o quell’altro senso.
Le gratuite asserzioni poi abbondano. Si afferma, senza un solo minimo elemento di dimostrazione,[370] che nel Comitato interprovinciale dei Fasci c’era un misterioso sotto-comitato di azione, più misterioso del Consiglio dei Dieci. Il popolo grida: Viva il Re! Abbasso le tasse! e il pubblico accusatore asserisce che quei gridi erano una lustra, e che in fondo si voleva e si preparava una rivoluzione politica generale. E così di seguito.
L’ordinanza, la requisitoria, la sentenza talora si contraddicono, e che, nell’insieme, l’orditura dell’accusa sia stata sfasciata, distrutta vittoriosamente dal dibattimento pubblico, risulta all’evidenza da questa circostanza capitale: l’avvocato fiscale sentì il bisogno di dichiarare che non intendeva avvalersi delle risultanze del dibattimento e che gli bastavano quelle del processo scritto. È enorme, ma... naturale! Il processo scritto gli bastava, perchè il processo orale aveva annientato il primo; ma al processo orale, abbandonati i metodi da Sant’Uffizio, si accorda oggi la preminenza per unanime consenso dei giuristi, non escluso Francesco Crispi, e col processo orale, l’on. De Felice con logica stringentissima fece l’auto-demolizione dell’accusa.
La demolizione già apparve evidente assai prima che il dibattimento fosse terminato; e quindi l’avvocato fiscale Soddu-Millo, forse convinto di non potere sostenere l’accusa e non essendogli lasciata la libertà di ritirarla—così è lecito supporre—a mezzo processo, aiutato da un lieve incomodo, si dette per ammalato e si fece sostenere dal Cireneo... Viesti. Onde il De Felice, con ammirabile ironia, «manda un saluto al Cav. Soddu-Millo, che ebbe la rara fortuna di ammalarsi in tempo!...»
La inconsistenza e la irragionevolezza della ordinanza,[371] della requisitoria e della sentenza risultano meglio collo esame critico delle principali accuse, cui furono fatti segno i Fasci e il Comitato Centrale.
L’avvocato fiscale facendo sue le calunnie della polizia volle disonorare la massa dei Fasci mettendo in luce la preponderanza numerica, che vi avevano i delinquenti. Non accettò la proporzione del Commendatore Lucchese, che poteva essere denunziata soltanto da un ignorante qual’è il questore di Palermo; ma fece della statistica giudiziaria e portò i delinquenti dei sodalizî odiati a 1645.
Il De Felice abilmente accettò la cifra, la mise in rapporto con l’altra ammessa dall’accusa del numero dei socî dei Fasci, e facendo le proporzioni coi deplorati della Camera dei Deputati, indusse che tra i lavoratori la moralità era quindici volte maggiore, che tra i deputati. E il confronto sarebbe riuscito più concludente in favore dei Fasci se posto tra questi e i commendatori e cavalieri del regno d’Italia; con questa differenza che i delinquenti operai per piccoli reati vanno in galera; i commendatori delinquenti vanno fino in Senato.
L’esame delle statistiche giudiziarie, del resto, che ho intrapreso per alcune località della Sicilia, quando seppi delle stolte asserzioni del Prefetto De Rosa, mi convinsero che durante il 1893 nelle provincie dove erano numerosi i Fasci, o non vi fu aumento della criminalità o non superò quello del resto d’Italia, dovuto alle generali cause sociali.
A Corleone, poi, secondo l’avv. Riolo, la costituzione del Fascio fece diminuire la delinquenza; e così avvenne in altri luoghi.
Da questa accusa generica e che riguardava la[372] collettività passiamo a quella speciale, che si fece pesare sui membri del Comitato Centrale: l’accusa di alto tradimento fondata sull’oro straniero—leggi, francese—e sulla cessione di una parte del territorio a ipotetici futuri nemici del regno.
Si rise della cessione di un porto della Sicilia alla Russia, stipulata nel trattato di... Bisacquino; e della cessione della Sicilia... all’Inghilterra; ma l’Italia tutta si indignò contro il Deputato di Catania e i suoi complici, che si erano lasciati corrompere dall’oro straniero. Questa calunnia fa capolino in numerosi rapporti della polizia e nelle testimonianze dei più alti accusatori.
Il Prefetto De Rosa, accettando per Vangelo le sciocchezze dei carabinieri di Acquaviva, fa dire a Bosco che denari non ne mancavano, perchè ne venivano dalla Francia, dalla Germania, ecc. Si afferma che Bosco e De Felice lasciarono somme a Balestrate e a Monreale; che una amica di Barbato, aveva accennato a soccorsi francesi; che fossero stati pagati i viaggi di Cottonaro da Valguarnera... Al questore Lucchese risulta che i fondi vengono dall’estero, specialmente dal partito socialista germanico; all’ispettore Marzullo consta che i membri del Comitato erano sovvenuti largamente da mano ignota. Di grosse somme venute dall’estero parla l’ispettore Gallegra; e supera tutti l’ispettore Castellini, che precisa che il denaro col quale Bosco, Barbato e C.i se la scialavano in pranzi e bagordi veniva dalle 32000 lire che De Felice portò dal suo convegno col Cipriani a Marsiglia.
Che cosa rimase di tali turpissime accuse? Nulla: documenti e testimonianze irrefragabili distrussero[373] la indegna calunnia. Comincio dai piccoli. Consta a me che Cottonaro da Valguarnera era tanto fornito di mezzi, che viaggiava a piedi e mangiava per carità altrui.
Il lusso di Bosco fece ridere tutta Palermo. Lo stesso Bosco in data 11 novembre 1893 scrive a Montalto in Trapani: «Di mezzi noi ne abbiamo meno di te; perchè, eccettuato Baucina che paga solamente le passività del giornale, tutti gli altri sono socialisti da burla. Il solo Tasca diede 500 lire per la cassa centrale e 100 per gli arrestati. La cassa centrale serve per le spese di posta e di telegrammi, non indifferenti dati i momenti che attraversiamo.»
Egli vendette alcuni vestiti per potere scappare!
Quanti ne avesse il Montalto si rileva da sue lettere da Palermo a Curatolo. Il 27 maggio 1893 gli scrive:
«Andrò al Congresso di Reggio Emilia ricorrendo per denaro agli amici, naturalmente a titolo di prestito.»
E in data del 25 gli aveva scritto: «... le cambiali fatte per sostenere il giornale Il Mare scadono e non so come far fronte....»
Ci saranno almeno le 32000 lire date da Cipriani a De Felice. Sì! Cipriani ne aveva tanti quattrini da dare agli altri, che ne chiede a Bensi, il quale gli manda lire 60, sequestrate dalla polizia; ne aveva tanti che domanda cento lire a De Felice.... per venire in Sicilia!
Della calunnia non rimane traccia alcuna; rimane invece assodata questa dolorosa verità: gli accusati sono nella miseria e nella più squallida miseria[374] rimasero le loro famiglie. La calunnia era tanto ignobile, che quando Bosco, accompagnato da un suo amico va a protestare presso il Questore Lucchese contro la voce dell’oro straniero, specialmente francese, che gli agenti spargevano e che la stampa raccoglieva, il questore ipocrita lo rassicura. L’accusa infine, era tanto falsa, che l’Avvocato fiscale nella sua requisitoria la ritirò, per non coprire di ridicolo sè stesso. Ma la calunnia aveva circolato liberamente per sei lunghi mesi ed aveva fatto la sua opera!
Se l’accusa battè in ritirata su questo punto, insistette maggiormente nella imputazione di cospirazione politica per alcuni e di eccitamento alla guerra civile per tutti; precisamente i reati pei quali furono condannati i socialisti del processo mostruoso.
Furono condannati sì; ma contro ogni norma di diritto e contro tutte le risultanze di fatto.[72]
Anzitutto perchè ci sia la cospirazione, secondo il Codice penale, occorre il concerto stabilito e conchiuso, l’unicità dello scopo, la risoluzione di agire al fine di far sorgere in armi gli abitanti contro i poteri dello Stato e i mezzi idonei per raggiungere lo scopo. Tutto ciò, naturalmente, viene ammesso dall’ordinanza, dalla requisitoria della sentenza.
Esistevano, risultarono del processo questi estremi, che costituiscono la cospirazione? No!
L’esame dei documenti, che l’accusa ritenne decisamente[375] compromettenti, esclude il concerto stabilito e conchiuso; e questi documenti vengono rappresentati dalle lettere di Cipriani e di De Felice e dal famoso cifrario.
Cipriani scrive a De Felice: «Se mai farai o tenterai qualche cosa, spero penserai a me.» Avrebbe potuto scrivere ciò se fosse stato a parte di una cospirazione e se cospirazione vi fosse stata?
Cipriani continua: «Dimmi qualche cosa.» Dunque egli non sa nulla! Cipriani gli annunzia «che sta sulle spine e che ha bisogno più di frenare se stesso, anzichè di frenare gli altri.» Non è evidente che De Felice lo aveva pregato di frenare gli altri?
C’è di più. Cipriani domanda a De Felice: «Perchè non scrivi? Eppure se i giornali non mentiscono vi sarebbe di che.» Non prova questo che il più temuto fautore della cospirazione apprende le notizie dai giornali piuttosto che dal complice?
La premura, la diligenza di un altro complice, viene luminosamente dimostrata da questo altro brano di una lettera dello stesso Cipriani a De Felice:
«Scrissi a Bosco e non si è neanche degnato di rispondermi. Poverino!» E questa lettera porta la data del 1º gennaio, cioè della vigilia della rivoluzione!
Quando si pensa alla importanza assegnata dal processo al Cipriani non si può fare a meno di sorridere pensando all’accordo singolarissimo, che esisteva tra questi non meno singolari cospiratori! Quanto poi i tumulti di Sicilia fossero la conseguenza della coordinata direzione dei cospiratori[376] con non minore evidenza emerge da ciò che il De Felice scrive a una sua amica:
«Giungono notizie di gravi disordini dalla provincia.» Dunque quei disordini erano per lui cosa nuova; e lo erano ancora il 1º gennaio, quando gliene scrive, provando che non erano stati da lui preparati.
Questo il contenuto dei più terribili documenti dell’accusa: si pensi cosa erano gli altri!
Uno ce n’è, però, che mostra le ree intenzioni di De Felice: il cifrario. Sia: De Felice lo compilò per servirsene a fini criminosi. Ma oltre l’intenzione, che non è punibile se rimane esclusivamente tale senza un principio di esecuzione, c’è un dato che può giovare all’accusa? Se ne servì mai il suo autore? Mai. Ne fu trovata copia corrispondente presso altri complici? Nessuna. Fu adoperato pei casi di Sicilia? Neppure: De Felice lo lascia a Roma, dove viene sequestrato, dopo ch’era stato arrestato a Palermo.
Se il concerto sfuma, non possono restare i mezzi idonei per raggiungere i fini della cospirazione.
Quali sono i mezzi idonei e determinati? Le armi e il denaro.
Che siano indispensabili i mezzi idonei e determinati risulta dai precedenti giudiziari. Il giurì di Bologna nel 1874 assolse Costa e gl’internazionalisti pei moti d’Imola e di Persiceto, perchè fu riconosciuta la inidoneità dei mezzi. Il giurì è di manica larga? Ma il suo responso venne corroborato dalla sentenza della Corte di appello di Trani (18 marzo 1875) relativa ai moti del Barese. Dunque secondo il Codice e secondo la giurisprudenza perchè il[377] reato di cospirazione ci sia occorrono i mezzi idonei: armi e denaro.
In quanto alle armi, nel nostro caso, le hanno cercate dapertutto e non le hanno mai e in nessun luogo trovate. Il questore Lucchese in un rapporto del 16 dicembre scrive:
«Il mio studio è rivolto a scovrire dove trovasi un deposito di armi e di materie esplodenti.» Ebbene egli studia ancora e non ha ancora trovato il deposito.
Sappiamo che non è stata più fortunata la polizia nella ricerca del denaro: ha cercato l’oro francese, e non ha trovato che la miseria grande onesta dei cospiratori.
E in quanto a questi mezzi idonei e determinati—alle armi e al denaro—la situazione viene brillantemente riassunta da una lettera di Cipriani nella quale egli dice: «Siamo senza un fucile, senza un centesimo!»
Qualche cosa, però, trovarono gli agenti della polizia, i magistrati, l’avvocato fiscale, i giudici del tribunale militare: un delegato trova certi pericolosi bastoni bianchi, un altro le coccarde dei socî dei Fasci; quello di Monreale trova l’acqua calda; l’eroe di Bisacquino scopre un vetterly; il comodo e misterioso signor Peter promette armi a De Felice.... già in carcere; l’avvocato fiscale vede i mezzi nella organizzazione dei lavoratori.
Contro i battaglioni serrati e contro i cannoni dovevano riuscire efficacissimi tali mezzi idonei e determinati; Turpin per distruggere gli eserciti non potrebbe inventarne di più terribili.
Non se ne accontentò che in parte il sapiente[378] Tribunale di guerra—che in fatto di efficacia dei mezzi distruttivi se ne doveva intendere—e sentenziò: «è vana la ricerca delle armi, inutile il provare la mancanza di depositi di armi, vana la ricerca della maggiore o minore vendita di esse, perchè le risoluzioni si fanno anche senza armi, come s’è visto nei tumulti nei quali combatterono con bastoni e con sassi.»
Combatterono!
Il Tribunale non poteva mostrarsi più sapiente nelle storiche e politiche discipline confondendo i tumulti con le rivoluzioni; inchiniamoci riverenti innanzi a lui e procediamo oltre.
E procediamo oltre concedendo ciò che in verun modo è dimostrato: concediamo che ci sia stata la cospirazione con tutti i suoi estremi: concerto, unità d’intenti, mezzi idonei e determinati per conseguirli. Anche in questo caso nè il processo era giustificabile, nè la condanna era conforme a giustizia secondo i Codici.
Un’alinea dell’art. 134 del Codice Penale stabilisce: «va esente da pene chi receda dalla cospirazione politica prima che si cominci l’esecuzione del delitto e prima che sia iniziato il procedimento.»
Ora dato che cospirazione ci fosse stata, l’esecuzione non era cominciata per confessione stessa del magistrato ordinario che istruì, e del Tribunale militare che giudicò, poichè non venne imputato agli accasati alcuno degli attentati politici previsti dagli articoli 104, 117, 118, 120 e 128 del Codice penale e vi fu il recesso prima che fosse iniziato il procedimento, col manifesto del 3 gennaio.
L’ordinanza della Camera di Consiglio che sentiva[379] di non potere rinviare i socialisti innanzi il Tribunale militare non considera il manifesto come un recesso, ma lo chiama un’abile ritirata e ne adultera il significato considerandolo come un recesso dall’attentato, giammai dalla cospirazione, tanto più che gli accusati sono rimasti più affratellati che prima.
E che cosa significa recesso dall’attentato se di attentato non furono mai accusati gl’imputati? E perchè non smettere ogni ipocrisia dichiarando con franchezza che lo affratellamento equivale a cospirazione? Tali loiolesche distinzioni non possono che disonorare sempre più una magistratura, che ha perduto ogni prestigio e che è venuta meno alla sua funzione, non sapendo che rendere servigi al governo. Il compianto Eula oramai, si affretterebbe sdegnato ad uscirne.
E non si può che disprezzare di più questa magistratura che il recesso dalla cospirazione tramuta capricciosamente in recesso dall’attentato e che il contorcimento illegittimo aggrava colla menzogna, perchè insinua con volgare indeterminatezza di frasi e di pensiero che il manifesto, l’abile ritirata, sia stata suggerita dalle energiche misure del governo, dallo Stato di assedio e dall’arrivo delle forze militari.
No, o illustri Iaghi della magistratura: la vostra rimane una menzogna.
Il manifesto precedette la proclamazione dello Stato di assedio e lo sappiamo dalle spie del governo, che ci dissero dell’animata discussione tra De Felice, che voleva favorire il movimento e gli altri membri del Comitato, che volevano e riuscirono a fare accettare al primo il consiglio della[380] calma; il manifesto non potè essere imposto dal timore dell’arrivo delle forze militari, perchè queste non furono in Sicilia che verso la metà di gennaio, quando già gli accusati erano in prigione da parecchi giorni, sotto processo e predestinati alla condanna.
Rimanga dunque a voi tutta l’onta dell’opera vostra o magistrati degni di una istituzione che muore!
Non contenta del contorcimento tormentoso del significato dei fatti, per farli entrare nelle maglie del Codice penale; non contenta del mendacio per togliere ad essi il valore, che non osano negare; la magistratura di Palermo completò l’opera sua colla manifesta contraddizione nelle accuse. Temendo che la preda potesse sfuggirle pel capo della cospirazione, le imputa anche lo eccitamento della guerra civile.
L’accusa contemporaneamente portata su di alcune delle vittime designate non la esamino dal lato giuridico, poichè qui è evidente che se c’era cospirazione politica non ci potea essere eccitamento alla guerra civile: un reato esclude l’altro; ma passando sopra alla contraddizione in cui incorsero e istruttoria, e requisitoria e sentenza che tra i due reati contraddicentesi videro un nesso come tra causa ed effetto, bisogna dimostrare che di eccitamento alla guerra civile, da per sè solo, non erano colpevoli gli accusati.
Anzitutto, si rilevi che si volle trovare un substratum per l’accusa nelle ripetute dichiarazioni in favore della rivoluzione senza considerare che, dinanzi alla filosofia della storia ed alla politica, questa[381] parola ha un significato ben diverso da quello connesso all’atto materiale, che si compie per rovesciare un governo. Si dicono convinti rivoluzionarî tutti i socialisti marxisti, che rifuggono dai tumulti e dalle violenze; e tali si dicono impunemente nei discorsi, nei giornali, nei libri. Perchè non processare tutti coloro che rivoluzionarî in tale senso si proclamano? E in tale senso il più grande reo in Italia fu Giuseppe Ferrari, che scrisse sinanco la Filosofia della rivoluzione e che invece di essere tradotto sullo sgabello degli accusati, venne innalzato agli onori del Senato, non ancora prostituito.
Nel De Felice non solo si volle colpire il rivoluzionario, ma anche colui, che non ha fede nel parlamentarismo.
Ciò fecero, perchè i giudici non frequentarono mai Montecitorio; se lo avessero frequentato o non avrebbero imputato a colpa del rappresentante di Catania questa sua mancanza di fede nel parlamentarismo, o avrebbero fatto una retata di deputati di lui più scettici e avrebbero dovuto sopratutto fare il processo alla memoria di Agostino Depretis.
Ma De Felice non è semplicemente questo sereno osservatore del corso degli avvenimenti, che inneggia alla rivoluzione come complemento necessario, fatale, di una serie di trasformazioni economiche, politiche e morali; no, egli ha predicato la rivoluzione materiale e immediata: lo ha fatto a Pedara. Egli a Pedara ripetè i versi popolari:
Oh! perchè dunque non si processa l’autore di[382] questi versi incendiarî e si lascia Olindo Guerini ai suoi studî prediletti? perchè non si processa Giosuè Carducci che versi più pericolosi scrisse prima che ponesse piede a Palazzo Madama? Perchè non si allontana dall’insegnamento inteso a formare le madri italiane, Ada Negri, che ha eccitato alla ribellione contro il mondo borghese, mondo d’oche e di serpenti, mondo vigliacco? perchè non si mandarono e non si mandano in galera le migliaia d’italiani, che ripeterono e ripetono le fatidiche parole di Beppe Giusti sull’invocato Dies irae?
Ma vedi caso strano: dovunque vanno i pericolosi eccitatori, dovunque esercitano indiscutibile e forte influenza, ivi si conserva la calma e non viene turbato l’ordine. Dunque eccitarono alla calma! Gli eccitatori, i sobillatori hanno pronunziato centinaia di discorsi; ma non si trova da incriminare che quello di Casteltermini, per cui la Camera di Consiglio del Tribunale penale di Girgenti non trovò luogo a procedere, e l’altro di Pedara... pei versi dello Stecchetti. E chiunque ha parlato alle masse, improvvisando, forse anche Rugero Bonghi—non si dica poi se parla Francesco Crispi—raramente evita gli scatti improvvisi, le frasi roventi, gli appelli all’azione energica salutare, necessaria. E l’applauso caloroso, sincero, spontaneo che accoglie le parole vibrate dell’oratore lo eccitano, lo trascinano irresistibilmente verso maggiore accentuazione di frasi. Solo i magistrati italiani ignorano questi elementi notissimi di psicologia popolare e questi fenomeni di contagio psichico, che talora trascinano i più miti.
Si svolgono numerosi i processi innanzi i Tribunali militari e fra tanti sobillatori non se ne trovano[383] che due soli socialisti, aderenti o dirigenti il moto dei Fasci: l’avv. Sparti a Misilmeri, che fu assolto; B. Verro per Lercara, che venne condannato colle prove che furono esposte nel precedente capitolo.
La connessione diretta tra lo eccitamento dei sobillatori e i moti di Sicilia si volle maggiormente riconoscere nell’azione di De Felice, e con una smemorataggine sorprendente si dimenticò che il colpevole nel periodo più agitato e dei più frequenti tumulti, dal 20 Novembre al 28 Dicembre, non si mosse da Roma.
E c’è di più. Il manifesto del Comitato centrale col quale si consiglia la calma non è atto isolato o semplicemente palese e destinato ad ingannare le vigili autorità politiche; no, dal processo risulta che altri manifesti precedettero il primo e nello stesso senso e che le lettere private sono inspirate agli stessi sensi.
L. Macchi, vice presidente del Fascio di Catania, ritenuto il più fedele interprete di De Felice, in data del 31 Dicembre, prima della riunione del Comitato, aveva diramato questa lettera caratteristica:
FASCIO DEI LAVORATORI
CATANIA
Catania, 31 dicembre 1893.
Egregio Compagno,
L’inaugurazione del Magazzino Cooperativo della Scuola Industriale è stata rimandata alla seconda domenica di gennaio.
Il presidente mi scrive da Palermo che egli deve fermarsi sino a tutto il giorno 3 in quella città, in seguito ai deplorevoli e dolorosi fatti accaduti in diversi Comuni della Sicilia.
Dopo la riunione del Comitato, egli sarà qui e stabiliremo tutto di accordo con lui.[384]
Colgo quest’occasione, intanto, per pregarvi, anche a suo nome, avendomene egli dato speciale incarico, di consigliare a tutti la calma più assoluta.
Come vedete, sono moti dovuti alla fame ed all’influenza dei partiti locali, non agl’ideali, e il Fascio dei lavoratori di Catania non può che sconsigliare moti incomposti.
Compagni,
Siate calmi! È questo il momento di dimostrare all’Italia che noi siamo tutt’altro che sobillatori.
Il Vice Presidente
Luigi Macchi.
E in una lettera di Cipriani a De Felice si legge: «fa, come consigli nella tua lettera, di evitare scatti inopportuni, le generali impazienze, le manifestazioni intempestive.»
Come i magistrati, l’avvocato fiscale e il Tribunale militare che ripetutamente supposero ciò che aveva dovuto scrivere De Felice a Cipriani, non si accorsero—qui, che la cosa era evidente—che De Felice aveva sconsigliato quegli avvenimenti di cui si volle renderlo responsabile?
Da tutto ciò emerge che il manifesto del 3 gennaio nè era un atto isolato, nè una manifestazione pubblica intesa a mascherare macchinazioni segrete: il consiglio alla calma rispondeva a tutto il metodo adottato ed era stato manifestato in pubblico e nelle lettere intime più efficaci, perchè non si vede in esse alcun arriere pensèe.[73]
Per quanto sinceri e ripetuti, questi consigli alla calma e non all’eccitamento, certo è che essi non raggiunsero l’intento e che furono accompagnati o seguiti dai noti tumulti. Ma si potrà renderne responsabili coloro che li biasimarono? Ciò è semplicemente enorme; e si troverà più enorme il fatto quando si penserà alla minima responsabilità diretta dei Fasci, dimostrata in un precedente capitolo, che fa supporre dovere essere nulla o incalcolabile quella del Comitato centrale, che poca o nessuna azione esercitava in molti punti e su quei Fasci nati da recente, male organizzati, acefali o in via di dissoluzione, che parteciparono ai tumulti.
Fosse pure stata energica ed indiscussa la influenza esercitata dal Comitato centrale sui Fasci e sulle masse non si può menomamente renderlo responsabile di ciò che avvenne, perchè è noto che quando esistono certe condizioni di animo e certe altre cause efficienti le parole più autorevoli non vengono, non possono venire ascoltate. Chi, come opportunamente ricordò De Felice, più adorato di Garibaldi dai suoi volontarî? Eppure egli impone alle sue schiere—e chi scrive ebbe la fortuna di trovarsi vicino a lui sulla spianata di Aspromonte e rammenta il tono imperioso e solenne della sua voce—di non far fuoco nel caso che venissero attaccati dalle truppe del Generale Pallavicini, e non viene ubbidito. Non poteva esserlo; perchè era umano che chi aveva il fucile in mano lo adoperasse contro l’aggressore: l’istinto supremo della propria conservazione lo esigeva o spiegava la disubbidienza verso l’idolo dei volontari che avevano preso per divisa: o Roma o morte.[386]
Uguale fatalità s’imponeva in Sicilia: i consigli alla calma non furono ascoltati, perchè date le condizioni delle masse, non potevano esserlo. C’erano altri e più poderosi agenti di sobillazione, che non permettevano fosse ascoltata la voce dei socialisti coscienti; il grido degli affamati, degli oppressi, dei malcontenti la copriva.
Quali fossero le cause vere della sobillazione era noto ai magistrati, all’avvocato fiscale, al Tribunale, al Re, oltre che ai suoi ministri responsabili.
Il Re, nel ricevere la commissione parlamentare a Capo d’anno, aveva manifestato il suo dolore per le sofferenze del popolo siciliano sobrio, nobile, generoso derivanti dalla crisi agraria.... Il colonnello Pittaluga, un valoroso dei Mille, aveva saputo discernere tra responsabilità politica e responsabilità giuridica dell’on. De Felice, e aveva saputo additare le cause complesse—precipua quella economica—«che avevano acuito la sensibilità nervosa del popolo, rendendolo pronto all’incendio, come il filo elettrico è pronto a ricevere la scintilla». Gli odî e le ire dei partiti locali erano comparsi sulla scena in modo ineccepibile nei singoli processi e per numerose testimonianze nel processo mostruoso. La sentenza che chiude mostruosamente il processo De Felice e C.i riconosce «che le popolazioni erano incolte, impoverite: i lavoratori rozzi, ignoranti, abbrutiti dalla miseria.....»; questa stessa sentenza, infine, constata «che le masse spinte alla guerra civile non avevano senso politico, agognavano il benessere, tanto vero che portavano i ritratti dei sovrani ed erano tenute allo scuro del fine ultimo dei cospiratori e non si ebbe un[387] solo grido, che accennasse ad abbattere i poteri dello stato».
Dopo queste testimonianze, confessioni e constatazioni, con quale logica, con quale lealtà, con quale senso di giustizia si fece risalire la responsabilità dei moti apolitici, ad una organizzazione e ad un Comitato essenzialmente politico, la cui azione non fu dimostrata in verun dei singoli fatti dolorosi, che funestarono la Sicilia?
Eppure si condannano gli accusati! E il Tribunale di guerra condanna tagliando colla spada tutte le più gravi quistioni giuridiche, respingendo tutte le pregiudiziali sollevate, quantunque convinto che solo alcune di esse non avevano fondamento. Dunque lo avevano le altre? E il Tribunale di guerra condanna colla logica ottentotta che si può riconoscere in questo brano della sentenza: De Felice e C.i volevano avvalersi del disagio economico, delle cattive amministrazioni locali, dell’istintivo odio dei lavoratori contro i proprietari; e la loro intenzione si argomenta dalla costituzione dei Fasci!
E difatti, che bisogno avevasi di costituire i Fasci «quando avrebbero potuto servirsi, pel vantaggio dei lavoratori, delle società operaie esistenti?» Sono parole testuali della sentenza! E il Tribunale di guerra condanna avvolgendosi in una serie inestricabile di contraddizioni giuridiche e di violazioni della legge e sostituendo alle prove le supposizioni e le gratuite asserzioni; affermando pienamente constatate tutte le accuse, ritenendo che i capi dei fasci erano facinorosi disposti a tutto, creando di sana pianta un Comitato esecutivo dei Fasci quale emanazione diretta dal Comitato centrale, stabilendo[388] che programma dei Fasci era la rivolta e la guerra civile, e che c’era l’ordine diretto del Comitato centrale di far sollevare in maggio le masse preparate e pronte!
Questa sentenza è al disotto di ogni discussione e disonorerebbe qualunque magistrato, anche dei peggiori tempi della servitù: il Tribunale militare potè emetterla, perchè la disciplina nell’esercito sostituisce tutto: prove, ragionamenti, giustizia; e il Tribunale dovette ricevere l’ordine di condannare. Dovette essere ben grande l’amarezza di G. De Felice nel sentirsi condannare da un Tribunale militare italiano, quando era stato assolto il suo antenato, che portava il suo stesso nome, dal Tribunale statario borbonico sedente in Siracusa nel 1837 e sotto il regime dello Stato di assedio! Ma allora in Sicilia comandava Del Carretto: oggi in Italia governa Francesco Crispi.....[74]
Questa sentenza che chiude il processo mostruoso è tale che la Suprema Corte di Cassazione non sapendo, non volendo o non potendo riformarla ed annullarla l’addita all’amnistia. La quale non potrebbe e non dovrebbe farsi attendere, non già nell’interesse dei condannati, ma in quello dei giudici, delle istituzioni e della società borghese. È la borghesia la vera colpevole di questo processo ed a suo beneficio l’amnistia dovrebbe venire.
E infatti questo Tribunale militare, secondo la[390] profonda osservazione di Barbato doveva lealmente condannare per dare il suo contributo a ciò che crede sacro e immortale, e che pur si sfascia e muore.
È questo organismo in isfacelo, che per istinto di conservazione attacca e condanna l’idea avversaria in tutti i suoi gradi di esplicazione, in tutte le forme sotto le quali si manifesta, particolari e generali, teoriche e pratiche. Si vuol colpire l’idea nemica, infatti, e nella esplicazione generica dello affratellamento dei sodalizî dei lavoratori e nel patto di Corleone; si vuol colpire l’idea giudicando criminoso il programma dei Fasci e l’arma dello sciopero, che esso ingenuamente credette legittima; e che tutto ciò si abbia voluto colpire lo dice la sentenza, la quale si scandalizza che nei discorsi degli accusati «si spiegavano le teorie del socialismo e si propugnava l’emancipazione morale e materiale dei lavoratori».
Di questa confessione bisogna lodare i giudici, che si ricordarono di essere militari e vollero chiarirsi leali facendo conoscere almeno le loro intenzioni ed avvisando gl’italiani contristati che nel processo mostruoso non si ricercarono e si condannarono i fatti costituenti il crimine, ma il pensiero, le idee, le tendenze nuove in nome e in difesa del presente, che passa e lotta contro il futuro, che irresistibilmente diviene.
La tristezza dell’animo in chi si fa a riandare le vicende e l’esito del processo mostruoso non viene temperata che dalle letture delle dichiarazioni e delle autodifese degli accusati, che seppero elevarsi nelle sfere serene della filosofia della storia: che[391] ammoniscono i giudici sulla fatalità degli avvenimenti; che infusero in tutti la coscienza di un avvenire migliore per equa distribuzione di ricchezze; che seppero rendere simpatica la propria causa anche a coloro, che da principio più fieramente l’avversavano. Ed è meraviglioso, a questo proposito, che seppe farsi ascoltare con benevolenza il Gulì, che fece la difesa dell’ideale anarchico nel momento in cui l’anarchia era più odiosa ed odiata.
Le conseguenze immediate della sentenza avrebbero dovuto fare ravvedere qualunque governo meno cieco e meno votato alla reazione che non sia il libero governo costituzionale d’Italia. In Palermo dove l’ambiente era dapprima più avverso agli accusati la impressione fu profonda e generale.
Tutte le forze militari disponibili furono spiegate per mantenere in freno la popolazione fremente; fu vietato l’accesso al pubblico nella sala del Tribunale, e i condannati sotto scorta numerosa furono fatti uscire da una porta ignorata, dalla quale uscirono pure i giudici per sottrarsi ad inevitabili e gravi manifestazioni di biasimo. Questi giudici, che furtivamente si allontanano dal Tribunale, non si direbbe che si sentono rei? Il colonnello Giussani divenuto inviso, fu ripetutamente fischiato, e lo si allontanò per un po’ da Palermo.
La polizia impose che si tenessero aperti i negozî che si sapeva si sarebbero chiusi in segno di protesta; ma l’Università venne chiusa; alle grandi prigioni avvennero dimostrazioni notturne, e canto di inni ch’erano un saluto ai prigioneri che ascoltavano; in teatro si va coi garofani rossi all’occhiello e si fa dal pubblico una di quelle mute proteste, che solo[392] Palermo sa fare, uscendo in massa ad un dato segnale.
E il pensiero e il sentimento della gioventù si riassume nel simpatico episodio del baldo e intelligente Aurelio Drago, che fu condannato dal Tribunale di guerra a sei mesi di carcere, perchè il giorno della sentenza, si fece innanzi alla truppa mentre passavano i condannati, ed impose all’ufficiale: Scopritevi! oggi è giorno di lutto per la libertà!
In Italia non fu minore la impressione; e fu vivissima se si tiene conto dell’infrollimento, dello accasciamento degli italiani. Non si trovarono giornali, compresi gli ufficiosi, che poterono lodare o giustificare giudici e sentenza; e tutti manifestarono lo stupore, il rammarico la indignazione. Innumerevoli e vivaci furono le proteste e agitazioni; i condannati venne deciso, che verrebbero portati dapertutto nelle elezioni comunali e provinciali: De Felice e Petrina vennero già eletti in Messina con una splendidissima votazione, sotto il regime dello stato di assedio! e Bosco e gli altri, benchè non fossero nelle liste, ottennero moltissimi voti.
Riuscirà il governo ad arrestare queste proteste coi minacciati processi per apologia di reato contro coloro che propugneranno le candidature dei condannati? Se pur riuscisse la enormità e novità del procedimento rivelerebbe l’anormalità e il pericolo della situazione!
Il processo ai socialisti, che si è trasformato in processo al governo ed alle classi dirigenti e che ha servito alla più vigorosa e larga propaganda del[393] socialismo avrà pure conseguenze che sorpasseranno quelle del primo momento.
Previdi nella prima edizione che immediatamente si sarebbe avuto aumento di malandrinaggio e di odio fra le classi sociali sottolineate da qualche schiopettata per vendetta, aumento di miseria fra i lavoratori e di dissesto nelle finanze comunali; e sinora le tristi previsioni si sono avverate.
In quanto al resto, alla quistione politica generale i più avveduti sanno e sentono che il socialismo non muore; che esso risorse più forte e più vigoroso in Francia all’indomani del trionfo di una reazione; risorse sempre dopo che se n’erano cantati i funerali. E risorgerà in Sicilia dove la corrente scientifica, dei professori e dei giovani delle Università, che agiscono per altruismo, si fonderà coll’elemento di azione, coi contadini e cogli operai che agiscono per soddisfare impellenti bisogni e che hanno già acquistato coscienza, sebbene vaga, dei diritti e della forza propria.
E tristi conseguenze si avranno inoltre dagli ultimi avvenimenti: nel popolo si sarà fatto strada la convinzione che i metodi del regime borbonico continuano, e si sarà perduta la fiducia nei mezzi legali, mentre il socialismo dinastico avrà fatto il suo tempo e non troverà che sorrisi di scherno. Oh! non si vedranno più nelle sale delle associazioni i ritratti del Re e della Regina accanto alla immagine di Cristo! E i contadini non reclameranno più pane e giustizia al grido: Viva il Re! dopo la esperienza che in nome del Re non si dette loro che piombo, manette e domicilio coatto.
Il popolo in Sicilia per un periodo non breve ha[394] avuto la forza e il potere nelle mani; ha devastato qualche volta i beni di coloro che crede a torto o sono realmente suoi nemici, ma ne ha rispettato le persone e non si è vendicato sulla loro vita. Sarà altrettanto mite altravolta? Sarebbe desiderabilissimo che lo fosse e sarebbe anche vantaggioso pel popolo stesso; ma qua e là, nelle grotte che servono di abitazioni, nei sotteranei delle miniere, nei tukul sparsi per la campagna si sentono sommessi e compressi accenti d’ira, che fanno paura. Chi conosce la situazione confessa che è probabile lo scoppio di una vera Jacquerie e presente che i lavoratori in un dato momento prenderanno alla lettera il ritornello del poeta catanese e falceran le teste a lor signori!
[68] Ricordo tra i tanti innumerevoli casi a mia conoscenza questo episodio mio personale. La sera del 5 gennaio 1894 appena arrivato in Palermo, uno dei miei più cari amici, costernato mi avvicinò e mi disse: Pur troppo è vero che Peppino (De Felice) è venduto alla Francia! Ier l’altro, nel momento in cui fu arrestato gli si trovarono addosso somme vistosissime ed una corrispondenza denunziatrice con uomini politici francesi!—Impossibile! risposi secco e risoluto.—E l’amico mio di rimando:—L’ho saputo da un ufficiale dei carabinieri, che procedette all’arresto e alla perquisizione!—E ci volle la smentita recisa degli avvocati Marchesano e Crimaudo, che all’uno e all’altra avevano assistito, per convincerlo che l’ufficiale dei carabinieri aveva mentito.
[69] Devo alla cortesia dell’egregio stenografo, sigr. Francesco Militello Quagliana, gran parte dei resoconti delle udienze; nonchè alla redazione del Giornale di Sicilia molto materiale che mi è servito per questo e per altri capitoli; e a tutti porgo i più vivi ringraziamenti.
[70] Notevole esempio di quanto i nostri funzionarî di polizia siano profondi nelle discipline economiche!
[71] In fatto di dinamite ricordo il comicissimo sequestro di alcune cartucce, ch’erano avanzate nei lavori di una galleria e il di cui proprietario ritenendo pericoloso tenerle in casa le depositò in una campagna e denunziò il luogo del deposito alle autorità con una lettera anonima. Le brave autorità scrissero a Girgenti, d’onde venne, credo un Procuratore del Re per sequestrare il corpo del reato con grande solennità. Il fatto avvenne a Campobello di Licata.
[72] Nello esame di queste due accuse mi avvalgo, spesso letteralmente, della splendida auto-difesa del De Felice e della memoria dell’Impallomeni, lucida e strettamente giuridica.
[73] Verso la fine di Dicembre Garibaldi Bosco mi scrisse una vibratissima lettera, che esibii al Tribunale di guerra, nella quale sdegnosamente protestava contro le calunnie borghesi, che attribuivano al Comitato centrale i tumulti.
[74] Le enormità giuridiche di questa sentenza voglio sottoporle al lettore colla sintesi severa e serena che ne ha fatto lo scienziato e non l’uomo di parte: «La cospirazione, fondata sulla manifestazione di semplici aspirazioni politiche in una corrispondenza fra assenti, rilevante la mancanza di qualunque accordo preso; la complicità in eccitamento alla guerra civile fondata sulla formazione dei Fasci dei lavoratori, pubblicamente costituiti, esistenti in virtù del diritto statutario, e non incriminati, come anche sulla propaganda socialista fatta nei limiti delle leggi, e sulla semplice possibilità di prevedere i disordini lamentati nell’isola, creandosi così una complicità colposa; dichiarati quelli complici in eccitamento alla guerra civile per avere a tali disordini, nella inesistenza di autori dello eccitamento, creandosi così una complicità senza una reità principale; affermata la cospirazione e la complicità in eccitamento alla guerra civile, come due delitti commessi per la realizzazione di un comune disegno ostile alla sicurezza dello Stato, identificando così l’eccitamento alla guerra civile con lo eccitamento all’insurrezione, e trasformando in un delitto politico un delitto contro l’ordine pubblico: ecco per sommi capi, gli elementi coi quali fu intessuta una sentenza, che condanna a spegnersi nelle galere la vigorosa giovinezza di chi vivamente e attivamente desiderò un’avvenire migliore alla classe dei sofferenti, ma che perciò non volle, nè la sentenza potè dire di aver voluto, i tristi lutti, avveratisi per opera di turbe suscitate dalla fame, dalle oppressioni locali, e dalla diffidenza in un Governo sordo per trentaquattro anni alle voci dei mali sollevantisi da mille parti. E questo, ritenuto da un tribunale di guerra, in tempo di pace istituito senza mandato legislativo, di derogare alla organizzazione giudiziaria del Regno e di creare Tribunali straordinarî; da un tribunale, che la propria giurisdizione elevò sulla ordinanza di un magistrato dichiaratosi incompetente, in una causa colla quale agli imputati, oppressi dal peso di fiere accuse, non fu concesso l’ausilio della difesa civile, facendosi al Codice penale per l’esercito del libero e civile Regno d’Italia l’ingiuria di supporre che avesse negato quel diritto di difesa, che i rescritti di Re Borbone dichiaravano di accordare in omaggio alla civiltà dei tempi.»
Così l’Impallomeni. (pag. 4).
Di ciò che si è fatto in Sicilia—dal giorno della proclamazione dello Stato di assedio in poi—risponde politicamente il ministero; ma la responsabilità diretta, materiale e morale, spetta al generale Morra di Lavriano e della Montà.
Se i poteri del Regio Commissario straordinario fossero durati poco tempo—pel solo tempo necessario ad assicurare l’opera del ristabilimento materiale dell’ordine—è assai probabile, che sul di lui conto non ci sarebbe stato molto da ridire e si sarebbero soltanto ricordate le sue benemerenze, siano pure immeritate ed immaginarie; ma la durata eccessiva e la estensione stessa dei poteri che gli erano stati accordati, fecero sperare, autorizzarono anzi, ad aspettare da lui, oltre la repressione, un’opera eminentemente civile d’iniziamento, se non altro, di restaurazione morale, di giustizia politico-amministrativa, di miglioramento economico della condizione dei lavoratori.
A quest’opera il generale Morra venne meno completamente,[396] e la sua azione invece fu talmente diversa da quella che avrebbe potuto e dovuto essere, ch’egli ne raccolse larga messe di biasimo e di disonore.
Il giudizio severo non solo viene giustificato dallo esame dei fatti imputabili al Commissario, ma sopratutto dal sistema prezioso dei paragoni, dal confronto con ciò che persona di grado uguale al suo ha dichiarato che avrebbe fatto se fosse rimasto al suo posto; dal confronto di ciò che altri ha fatto realmente in analoghe condizioni dolorose.
Ciò che si avrebbe dovuto e potuto fare in Sicilia venne detto dal generale Corsi, che col comando del XII Corpo di armata trasmise i poteri militari al generale Morra.
Certamente non sarò io che troverò tutto da lodare e crederò che possa in tutto soddisfare ciò che espone il generale Corsi, in quanto a riforme economiche, amministrative, politiche e morali da attuarsi immediatamente in Sicilia, (p. 356 e 357): nè dimenticherò che egli, conservatore, non vede con simpatia tutto ciò che sa di libertà, e non nasconderò che egli ha idee erronee sullo sciopero e sui rapporti economici che possono correre tra lavoratori e proprietari e sui modi di trasformarli e di migliorarli.
Bisogna, però, riconoscere che non ostante i suoi errori e i suoi pregiudizî il generale Corsi era animato da uno squisito senso di umanità e di equità. Se ne giudichi da questo brano del suo libro, che sembra precisamente il programma di azione immediata di un generale italiano, munito di poteri straordinarî e mandato in una regione per ristabilirvi l’ordine materiale e morale ad un tempo:[397] «La suprema autorità militare nell’isola—egli scrive—tutto ben ponderato, aveva compreso sin dal primo momento che l’opera sua doveva essere sopratutto e in sommo grado civile, cioè di pacificazione e concordia tra le classi sociali, che gli agitatori (?) traevano a nimicizia. Quei tanti ufficiali, che si spandeano pei paesi dovevano essere altamente pacieri, apostoli di fratellanza tra genti divise, che si guardavano in cagnesco, esigenti gli uni, ripugnanti gli altri; dovevano mantenersi rigorosamente neutrali, benigni con tutti, di modo che non sembrasse che le truppe fossero adoperate a sostegno degli interessi dei possidenti e contro le giuste rivendicazioni dei proletarî.
«Dovevano insomma far la parte, che avrebbero dovuto fare i buoni cittadini se avessero saputo, o potuto, o voluto farla.» (Sicilia p. 366 e 367).
Questi nobili intendimenti del generale Corsi erano conosciuti in alto e avrebbero dovuto indicarlo come Regio Commissario straordinario, se in Sicilia davvero si avesse voluto fare opera civile di pacificazione e di giustizia! Si dirà che al Corsi non vennero affidati i pieni poteri, precisamente perchè il suo onesto pensiero era conosciuto?
Non voglio divagare nel campo delle ipotesi, che potrebbero riuscire di disdoro a chicchessia: ma che tale ipotesi abbia qualche fondamento si può argomentarlo dalla denunzia—fatta dall’on. Saporito-Ricca—della citata circolare dell’antico Comandante del XII Corpo di armata, nella quale si prescriveva di non adoperare le armi contro nessuno in nessuna occasione. Certo è poi, che il generale Morra adottò e svolse un programma del tutto opposto a quello[398] del suo predecessore: programma di odio, come per rinfocolare quello grande già esistente: programma d’iniquità, parteggiando per i proprietarî e per le classi dirigenti contro i lavoratori.
Esagero, calunnio? Si ascolti non la mia, ma la voce del giornale ufficioso più autorevole che ci sia in Italia e che nella sua amarezza lascia comprendere che se in alto si è soddisfatti dell’opera soldatesca del generale Morra, nelle sfere ministeriali, invece si è assai malcontenti della sua opera civile. «Il paese—dice la Tribuna—attendeva da lui un principio di pacificazione. Era in condizioni di ottenerla. Tutte le vie gli erano aperte: autorità altissima, eccezionale, senza opposizioni burocratiche, senza difficoltà e opposizioni locali, perchè i Consigli comunali erano o sciolti o in sua potestà: con un popolo in parte fatto docile dai suoi soldati, in parte dal lato dei proprietari, ancora sotto la paura delle recenti ribellioni, il generale Morra poteva mettersi in mezzo, arbitro e paciere, e svolgere tutto un programma di trattative e di accordi.
«Hanno detto che il male maggiore della Sicilia era la tirannia dei subbaffitti, contro la quale ferocemente i contadini si ribellavano: ed egli poteva e doveva andare man mano sui luoghi e istituire Commissioni di probiviri e veder di comporre, di accomodare, di migliorare i contratti agrari.
«Egli doveva e poteva percorrere l’Isola città per città, paese per paese, studiare le ragioni particolari di avversione, di opposizione, le cagioni dalle quali le ribellioni, gli incendi, le uccisioni erano scaturite, e udire, e prendere consigli e rimediarvi e provvedere.[399]
«Era questa opera nobile e santa.»
«L’ha compiuta; ha tentato neppure di compierla il generale-dittatore?
«Imponiamoci, guardando alle cose siciliane, una doverosa serenità; facciamo un bilancio spassionato delle condizioni dell’isola.
«L’ordine è ristabilito in Sicilia; era difficile ottenerlo senza che la libertà dovesse coprirsi d’un velo.
«Ma la questione siciliana non era soltanto contenuta in questa semplice enunciazione: ristabilire l’ordine materialmente.
«Conveniva e conviene rimuovere le cause dei tumulti siciliani, le quali ormai sono note; conveniva e conviene migliorare le condizioni dei lavoratori siciliani.
«Ma questo è avvenuto, che come il generale Morra si è manifestato impari alla missione che gli era stata affidata, così questa legge dei latifondi siciliani è rimasta indiscussa per la chiusura della Camera.
«E la questione della tranquillità pubblica in Sicilia è rimasta risolta solamente a mezzo.
«L’ordine regna in Sicilia, ma un po’ come a Varsavia. Le popolazioni sono quiete, ma attendono ancora che siano mantenute le promesse del Governo intorno al miglioramento delle condizioni dei contadini.» (n. 194, 15 luglio 1894).
Ho voluto riprodurre quasi integralmente questo giudizio, che venendo da un giornale tanto temperato e quasi assiduamente laudatore del governo[400] di Francesco Crispi, (assai lodato nello stesso articolo) non può essere menomamente sospettato di partigiana avversione contro il generale Morra e riesce perciò assolutamente caratteristico. E il generale Morra va tanto più severamente biasimato per quello che non ha fatto, in quanto che i poteri veramente straordinarî che gli vennero accordati e dei quali usò ed abusò, sconfinarono sino ad assumere facoltà legislative—come venne rilevato, con parole severe di biasimo, dal Prof. Brusa (Della giustizia ecc. p. 14).
Egli molto poteva, e se nulla fece, segno è che non volle o non seppe fare. E in quanto al saper fare, si avverta che consigli opportuni e suggerimenti adatti alle circostanze del momento, richiesti o spontanei, non gli mancarono: dunque non volle!
L’opera civile del generale Morra dissi che risulta veramente deplorevole non solo dal confronto col programma del generale Corsi e dalle deluse speranze su ciò che si poteva attenderne; ma anche e sopratutto dal paragone con ciò che ha fatto il generale Heusch in Lunigiana in condizioni analoghe e con poteri uguali.
Questo paragone venne fatto, con quello squisito senso artistico che gli è proprio, dall’on. Cavallotti: il quale nella tornata del 25 maggio della Camera dei Deputati, in mezzo alla più viva attenzione dei suoi colleghi al seguente richiamo del Presidente:—«Onorevole Cavallotti, le ripeto di moderare le sue parole. Ella fa requisitorie che non hanno ragione d’essere, e stabilisce coincidenze che proprio non hanno fondamento.»[401]—
Rispose:
«Io non faccio requisitorie, racconto fatti, e non ne parlerei se essi non fossero come il commento di tutta l’opera del generale Morra, troppo diversa da quella del suo collega della Lunigiana. A me, di cui non può essere sospetta la parola; a me, che ritengo illegittimi, perchè non conferiti da nessuna legge i poteri di entrambi i commissarî straordinarî, a me è debito di giustizia, d’altronde già resa dal sentimento pubblico, il riconoscere tra i due la differenza che passa tra chi non si è reso nessun conto del suo mandato e chi, soldato di cuore, investito di dolorosa consegna ha saputo dal male cavare un bene, e profittarne per fare opera di cuore. Invece di farsi compatire coi decreti allegri sulla proroga delle cambiali, invece di appartarsi dal paese e dalla vita delle classi popolari, invece di passare tutti i santi giorni nei salotti dell’aristocrazia a far la vita galante e il cicisbeo alle signore».... Qui il Presidente interrompe con un nuovo richiamo.
—«Eh, onorevole Presidente—continua il Cavallotti—ci vuol altro che richiami! Io vengo da Palermo, dove le son cose notorie, e dove ho raccolto informazioni d’ogni parte, nelle classi più diverse della città. Invece di segregarsi dal popolo, invece di mettersi a parte da tutto il resto della vita cittadina, il generale Heusch capì che là dove ei recavasi erano cause di malessere che non si curano con anni di galera, capì che il suo posto era fra il popolo, fra operai e padroni, fra minatori e proprietari di cave; entrò nelle case e nei tugurî, visitò, studiando, ogni angolo della provincia,[402] portò da una classe all’altra parole di conciliazione e di pace. Ecco perchè egli lascia circondato di simpatie e di rispetto la terra a cui il suo giungere non fu lieto.
«Il generale Morra s’illude molto se crede di avere salvato, coll’opera sua la Sicilia.
«A me basta notare che quando a certe opere si vogliono chiamare soldati si debbono chiamare almeno soldati che abbiano fatta veramente la loro carriera nell’esercito, vissuto la vera vita militare, assorbitene le rare e maschie virtù. E per opera come quella che in Sicilia richiedevasi, ci voleva un uomo che avesse mente e cuore per intenderla. Ecco perchè, concludo, dei due commissari, uno lascia ricordi benedetti da cuori italiani, sull’altro rimane la responsabilità dei mali che non seppe curare, degli odii e dei rancori profondi che egli lascia dietro di sè.»
E pur troppo non è questo il solo confronto che fa torto al Generale Morra: l’Italia nova dovrà ricordare con vergogna che un Satriano, domata la rivoluzione nel 1849, promulgò poco dopo editti contro l’usura e per il censimento dei demanî comunali e dei beni degli enti morali. Ciò che fece un proconsole borbonico non volle fare l’inviato dall’organizzatore principale della spedizione dei Mille. E ciò che avrebbe dovuto e potuto fare—con feroce ironia contro sè stesso—lo dice il generale Morra nella sua circolare del 12 Agosto ai Prefetti della Sicilia, nello annunziare la cessazione dello Stato d’assedio.
Gl’Italiani e la storia sono e saranno inesorabili verso il generale Morra, non solo per quello che[403] non ha fatto, ma ancora e di più per quello che fece, poco, sì, ma cattivo assai.
Date le cause dei tumulti di Sicilia, s’intende che chi voleva fare opra degna di lode e duratura doveva porre ogni suo studio nella loro eliminazione e nella riparazione.
Si sa che in Sicilia sono pessimi i rapporti tra capitale e lavoro, tra proprietarî e proletarî, e che ai lavoratori poca parte si concede di quello che a loro spetterebbe. I lavoratori a migliorare la loro misera condizione stimolati più dal bisogno impellente che dal giusto apprezzamento dei vantaggi che possono venire dalla cooperazione, in qualche luogo si erano riuniti in cooperative di consumo, sottraendosi ai gravosi ed esosi balzelli sui consumi nell’applicazione dei quali le classi dirigenti posero tutta la loro buona volontà per mostrarsi inique. Orbene, chi lo crederebbe? Il generale Morra non solo dispiega il suo furore reazionario contro gli odiati Fasci dei lavoratori e contro i sodalizî, che facevano della politica democratica, ma se la prende anche con quelle cooperative di consumo, che egli avrebbe dovuto promuovere con ogni sforzo, se non in nome di un alto senso politico, almeno sotto l’impulso di un cuore un po’ umano.
Nell’odio suo contro i Fasci arrivò a permettere ed a lasciare impunite le usurpazioni indecenti e lo sperpero di ciò che apparteneva ai poveri lavoratori. Così a Mazzara del Vallo gli agenti della questura—dopo un mese dallo scioglimento volontario del Fascio—vanno a perquisire le case dei socî, che in seguito ad indicazione del Consiglio direttivo, erano in possesso dei mobili del disciolto sodalizio[404] e li sequestrano indebitamente e, più disonestamente, prima li adibiscono ad uso della polizia, del municipio e dei soldati, e poscia li vendono all’asta e si arbitrano distribuirne l’irrisoria somma ricavatane, non ai loro legittimi proprietarî, i socî del Fascio, ma ai poveri del paese.
I poveri contadini di Caltavuturo non sanno ancora come fu impiegata la meschina somma ricavata dalla vendita all’asta dei mobili del Fascio fatta da un delegato di Pubblica Sicurezza.
Da quest’odio ingiustificabile contro tutto ciò che ha relazione coi Fasci e che si traduce talora, come a Mazzara, in danno economico dei lavoratori, ne derivò anche la persecuzione contro le cooperative di Consumo.
Una ce n’era a Campobello di Licata, e che si era costituita con grande stento, riunendo i magrissimi risparmi dei poveri lavoratori, e che riusciva invisa oltremodo ai maggiorenti del paese—e si dice anche, per loschi motivi personali. Appena proclamato lo stato di assedio venne disciolta e si sequestrarono.... il pane, il vino, l’olio, la pasta. L’inaudita violenza sarebbe stata completa se, come qualcuno voleva, quei generi fossero stati lasciati a muffire ed a guastarsi in un qualsiasi locale; e si deve all’intervento di un bravo capitano di fanteria se questi nuovi e strani sostituti della dinamite furono consegnati ad un giovane egregio, il Catanzaro, che li ha venduti e ne ha depositato l’equivalente in una cassa di risparmio.
I fatti di Campobello ebbero una coda dolorosa: il pretore, Annibale Mattioli, mosso a pietà dalla condizione dei lavoratori e dai soprusi che subivano,[405] rivelò il suo pensiero nel casino dei cosiddetti civili. Non lo avesse fatto: fu telegraficamente traslocato come sobillatore.
Pregai il generale Morra perchè volesse consentire la ricostituzione della cooperativa, che riusciva utilissima ai lavoratori; denunziai il provvedimento impolitico ed inumano alla Camera; ma ebbi in risposta, e dal primo e da chi si eresse a suo difensore in Parlamento, l’on. Filì-Astolfone, che non si poteva perchè la Cooperativa di consumo di Campobello era una dipendenza del Fascio locale.
Questo motivo, per quanto balordo, non era però che un mendace pretesto; infatti anche dove la Cooperativa preesisteva al Fascio e non era connessa al medesimo la sua sorte non fu diversa. A Caltavuturo la Cooperativa sorse nel 1890 ed era consolidata e prospera nel 1893 quando, in seguito all’eccidio del gennaio vi si costituì il Fascio. La cooperativa riusciva assai giovevole ai miseri contadini ed era perciò antipatica ai galantuomini; perciò il generale Morra si affrettò a discioglierla per dare soddisfazione, come sempre, agli oppressori contro gli oppressi.
I contadini ripetutamente si rivolsero a me per ottenere una giusta riparazione, ed io alla mia volta ne scongiurai amici e congiunti dell’on. Crispi—reputando oramai inutile rivolgermi al Regio Commissario—ed un provvedimento, ad onore del vero, non tardò. Ma qual provvedimento! venne promossa la liquidazione giudiziaria della innocente ed odiata cooperativa di Caltavuturo...
Ancora. La miseria è grande in Chiaramonte Gulfi—che ho dovuto ricordare per il numero considerevole[406] delle vendite d’immobili all’asta pubblica nello interesse e ad istanza del fisco—i lavoratori credono poterla diminuire costituendosi in Cooperativa di consumo conformandosi alle più rigide prescrizioni delle leggi vigenti.
Lo statuto viene redatto, e ad evitare ogni sorta d’inciampi si rivolgono al sottoprefetto di Modica chiedendo il permesso per la riunione dei socî. Con sorpresa mista ad indignazione i lavoratori appresero dal Sindaco che il sottoprefetto in data 18 luglio gli aveva scritto non poter consentire alla domanda «perchè vigendo tuttora l’editto del R. Commissario straordinario per la Sicilia, che sospende il diritto di riunione e di associazione, non potevasi autorizzare la riunione dei socî della cooperativa...»
Non è dunque evidente nel generale Morra il sistematico proponimento di avversare tutto ciò, che può mirare, negli stretti limiti della legge, al miglioramento economico dei lavoratori? Probabilmente, se egli lo potesse, metterebbe agli arresti di rigore il generale Heusch, che in Lunigiana da Regio Commissario si è fatto promotore di una Cassa di soccorso e pensioni degli operai invalidi—uno scandalo!—che gli ha procurato gli elogi calorosi del più antico e instancabile sostenitore della cooperazione; ma il generale Heusch, come scrisse l’on. Prof. L. Luzzatti, «ha asserita la responsabilità morale e sociale della ricchezza e della coltura e la legge di solidarietà, che le collega nel bene come nel male alla miseria e all’ignoranza;... ha seminato l’amore e raccolto la previdenza; ha raccolto fiore che raramente spunta dallo Stato d’assedio,[407] persino la riconoscenza, poichè il lavoro non è ingrato quando il capitale non è implacabile» mentre il generale Morra ha seminato l’odio ed ha ribadito l’oppressione...
In Sicilia, si sa, non si soffre soltanto in basso: soffre anche il commercio, come soffre la piccola e media proprietà. Il generale Morra, previdente e provvidente, si commosse pel primo e gli assestò un colpo per stramazzarlo a terra, ferendolo nella parte più vulnerabile—il credito—coi suoi famosi editti sulle cambiali, riusciti un capolavoro d’ignoranza giuridica e di sovvertimento, deplorevoli pel contenuto, e stranamente sibillini nella forma, tanto da esigere a pochi giorni di distanza il commento straordinario dello stesso straordinario loro autore. Il Commercio serio ed onesto, sdegnato, protestò pel non richiesto editto; solo qualche giuocatore di baccarat, che discende da magnanimi lombi, invece avrà potuto attestare al Regio Commissario la propria riconoscenza. Il Commercio onesto e serio avrebbe potuto giovarsi dalla rimozione di alcune stupide pastoie postegli collo Stato di assedio e il generale Morra non fu sordo alle sue preghiere: dopo sei mesi si accorse che l’Italia non correva alcun pericolo consentendo ai negozianti la trasmissione dei telegrammi in linguaggio convenzionale. Sia lode a lui!
C’era un campo in Sicilia in cui si avrebbe potuto mietere allori in gran copia da chi si fosse proposto di fare opera di sincera riparazione: quello delle amministrazioni comunali. La circolare che nei primi giorni della sua dittatura emanò il Regio Commissario fece sperare che egli si sarebbe messo sulla buona strada, poichè nella medesima[408] si davano norme e criterî retti per la revisione dei bilanci e dei tributi comunali, affinchè gli uni e gli altri commisurati ai mezzi disponibili rispondessero all’interesse generale delle popolazioni. E ciò che si avrebbe potuto e dovuto fare ha ripetuto nella citata circolare del 12 agosto.
La circolare giustificò i moti siciliani e li spiegò, senza bisogno di ricorrere ai sobillatori e alle cospirazioni alla Gaborieau; e fece di più: insegnò che le intenzioni buone, senza i fatti corrispondenti, costituiscono la più deplorevole delle ipocrisie. E i fatti non potevano essere più inconsultamente scellerati.
Ecco la ragione del severo giudizio:
Dalla circolare del generale Morra di Lavriano, da accenni e telegrammi dell’on. Crispi, dai telegrammi dei Prefetti e sotto prefetti nei momenti del pericolo e quando in Sicilia non c’erano ancora truppe a sufficienza, emerge che il Presidente del Consiglio e il Regio Commissario Straordinario, che il governo insomma, in alto e in basso, riconosceva ciò che deputati e pubblicisti avevano denunziato, e cioè: che la causa determinante dei moti di Sicilia doveva riconoscersi nella partigiana, dissennata e iniqua amministrazione dei municipî, infeudati da anni a consorterie locali che ne usavano ed abusavano in tutti i modi sotto l’egida dei Prefetti, ed anche di deputati, ai quali in contraccambio delle protezioni accordate rendevano con zelo servizî polizieschi ed elettorali.
Un governo perfettamente conscio di tale stato di cose, che avrebbe dovuto fare immediatamente, fulmineamente? Tener conto della indicazione causale,[409] provvedendo al sintomo più minaccioso e più doloroso: dare addosso alle camorre locali, alle mafie amministrative, disoneste e prepotenti!
Ebbene, il governo italiano ha fatto cosa che sembrerà in appresso inverosimile, impossibile e che è rigorosamente vera: ha messo la sua fiducia in quelle consorterie, che avrebbe dovuto punire; dove non c’è delegato di pubblica sicurezza ne ha lasciato la funzione ai sindaci malvisti e che si sanno odiati; e sindaci ed assessori hanno consigliato e fatto eseguire gli arresti dai carabinieri e dalle truppe ai loro ordini; essi, proprio essi! hanno imbastito processi mostruosi di cui per un pezzo si dovrà vergognare l’Italia; e per loro suggerimento sono stati deportati giovani d’illibata condotta, rei soltanto di avere militato nelle fila della opposizione amministrativa e di avere svelato le turpitudini commesse dai feudatari municipali. Così, coloro che avrebbero dovuto essere puniti, coloro che si videro minacciati dall’ira popolare—ex lege, in mancanza dell’azione punitrice legale—sono stati messi in condizione di fare le proprie e spietate vendette sugli avversarî accusatori.
E il generale Morra non si contentò di lasciare al loro posto quegli amministratori, che avrebbe dovuto punire quale causa vera e diretta dei tumulti, ma si rese loro complice, e somministrò loro gli strumenti per consolidarsi al potere, fare le proprie vendette e continuare nella dilapidazione e nella oppressione dei lavoratori, e dei vinti avversarî.
Qualche Consiglio comunale fu sciolto in sulle prime; e questa parve soddisfazione accordata a coloro che avevano protestato in tutti i modi e che[410] avevano reclamato l’opera risanatrice di un regio commissario. Ma la resipiscenza verso il male non tardò, e dove i regî commissarî mostrarono onesti propositi di riparare ai mali furono rimossi o costretti a dare le dimissioni, perchè avevano osato disturbare le antiche disoneste e prepotenti camerille amministrative.[75]
Era noto del pari, che le disoneste camerille locali si mantenevano al potere mercè la falsificazione delle liste elettorali, nelle quali indebitamente erano iscritti gli amici fedeli, i complici, i dipendenti e ne erano cancellati quanti erano in odore di avversarî. Il generale Morra volle che tale stato di cose non fosse menomamente modificato. Curò, anzi, che s’impedisse qualche levata di scudi da parte degli elettori stanchi delle pessime amministrazioni; e dai suoi Commissarî straordinarî fece fare più che una decimazione, una vera strage di elettori di parte popolare, e chiamati sobillatori.
La strage fu parziale da principio, e limitata alle località nelle quali era avvenuto lo scioglimento del Consiglio Comunale e dove si sapeva che i sobillatori avevano grande seguito.
Così a Piana dei Greci fu mandato quel regio[411] Commissario, che si rese celebre a Misilmeri e di cui si occupò l’on. Comandini nel Corriere della Sera, il quale cancellò 527 elettori dalla lista, radiando come analfabeta, a quanto si dice, anche un Professore di lettere in un Regio Ginnasio di Palermo!
Poscia la misura divenne generale coll’invio dei Commissarî speciali per la revisione delle liste elettorali; commissarî che spiegarono a preferenza la loro azione dove democratici e socialisti preponderavano. In tal guisa a Catania, patria e collegio dell’on. De Felice, si cancellano cinquemila elettori sopra novemila iscritti: cifra quest’ultima niente affatto esagerata per una città di oltre centomila abitanti; mentre nelle cittadelle dei conservatori—Aci Reale, Bronte, Castelvetrano, ecc., ecc.—gli elettori oltrepassavano ogni misura; arrivavano anche ai 25 e al 30 per cento della popolazione, quanti non avrebbero potuto essere col suffragio universale; mentre a Catania vennero cancellati dalle liste elettorali professori di Università, medici, ingegneri, avvocati, proprietarî... E la censura sapientissima non tollerò che la mostruosa epurazione, come veniva chiamata, fosse denunziata e discussa in pubblico.[76]
Con questi savi provvedimenti il generale Morra avrà pensato di riparare alle malversazioni, alle corruzioni[412] elettorali, alle ingiuste ripartizioni dei tributi, a tutti i mali delle amministrazioni locali denunziati e non contraddetti nè in Parlamento nè fuori.
Certo è che egli ne ha annunziati e disciplinati non pochi; e tanto ha disciplinati alcuni municipî, che alcuni si sono fatti spontanei iniziatori della sottoscrizione di un indirizzo—che suona protesta contro le irriverenti parole pronunziate dal Cavallotti nella Camera dei deputati—proclamante la benemerenza del generale Morra di Lavriano e della Montà per la sua opera civile di rigenerazione nella desolata Sicilia!
Quest’opera civile poteva rimanere incompleta se non si pensava alla base: alla coltura cioè, e alla educazione. In Sicilia il numero degli analfabeti era ed è grandissimo, quale in nessun’altra nazione civile di Europa; ebbene, si rimedia assecondando le aspirazioni dei grandi proprietarî della sala Ragona, che acclamarono alla proposta di sopprimere la istruzione obbligatoria; incoraggiando quel bravo consigliere di Prefettura, che in Mazzarino proclamò che il dogma della nuova Italia da ora in poi dovrebbe essere quello della ignoranza obbligatoria ed in conformità chiudendo tutte le scuole, ch’erano state scandalosamente aperte dai Fasci, tanto deleterie pei lavoratori quanto le cooperative di consumo.
Il libero insegnamento scientifico è uno scandalo e il generale Morra chiama nel suo ufficio due professori della Università di Palermo—Schiattarella e Salvioli—e fa loro intendere e si fa promettere che nelle lezioni non ci doveva entrare la sobillazione, se no... Si sa che un poco di domicilio coatto[413] fortifica lo spirito e prepara nobilmente ad impartire una scienza sana ad usum delphini, a base di catechismo e di cristianesimo annacquato e corretto, di completo gradimento di Monsignor Celesia e degli altri vescovi, che generosamente si scagliarono contro i socialisti relegati, processati, imprigionati!
La mente eletta e l’animo nobile del generale Morra non si rivelarono soltanto nelle cennate circostanze e nei modi summenzionati; altre occasioni egli ebbe di mettere in evidenza la equanimità, la delicatezza dei sentimenti, il tatto squisito. Il premuroso sindaco di Catanzaro manda—spontaneamente s’intende—un telegramma al colonnello Giussani Presidente del Tribunale militare, in difesa del Questore Lucchese e in danno di De Felice e C.?
E il generale Morra lo lascia pervenire al suo indirizzo. Da Catanzaro mandano poco dopo un telegramma al Giornale di Sicilia, che dà notizia delle proteste del Consiglio Comunale contro l’operato del sindaco, e che gioverebbe agli stessi accusati? E il generale Morra si affretta a sequestrarlo. Ciò per la equanimità.
Quanto al tatto squisito, il generale Morra distribuisce lodi e dà banchetti in quali occasioni e per quali motivi? Lasciamolo dire a Felice Cavallotti.
Il generale Morra «è l’autore di quel saluto di congedo agli ufficiali in partenza, che dopo avere nell’isola, tra dolorosi frangenti, mostrato pur cuore di soldati italiani, mentre partivano pensosi ed afflitti delle cose vedute, si udirono in un discorso gonfio di rettorica vanesia decretare allori da essi nè bramati nè sognati nè chiesti, i tristi allori della[414] guerra civile, come tornassero da Filippi o da Farsaglia.
Di più: «il giorno che nell’aula di un tribunale si domandano 23 anni di galera, per delitto di lesa patria, contro un deputato italiano, fino a ieri circondato dall’aura popolare, rappresentante di una illustre città, onorato della fiducia di due collegi dell’isola sua... il giorno che tanti anni di galera si domandano contro un deputato e contro altri cittadini italiani, alle cui virtù morali e civili lo stesso rappresentante, non dirò della legge, che non lo è, ma dell’accusa, ha dovuto rendere omaggio, è sempre un giorno doloroso per chiunque abbia cuore italiano, per chiunque abbia senso di gentilezza italiana.
«Ebbene, è deplorevole che questo sentimento elementare non sia stato capito dal signor generale Morra di Lavriano, il quale ha creduto delicato, opportuno, gentile, scegliere proprio il giorno, in cui si pronunziava quella enorme requisitoria... (Interruzioni) per indire, proprio in quel giorno, in via eccezionale un solenne festoso banchetto ai notabili e all’alta società di Palermo. (Rumori). Io mi domando a quale altro generale che non fosse il generale Morra di Lavriano sarebbe venuta in mente un’idea così peregrina, coprendo un ufficio che per la sua stessa anomalia di fronte alla legge esigeva per lo meno un tatto squisito, e in un momento nel quale la pacificazione degli animi è il bisogno supremo dell’isola.
«Io nato in Milano, sotto il felice governo di Casa d’Asburgo, ben so che i generali austriaci sceglievano i giorni delle condanne di patrioti per indire[415] feste e banchetti, a provocazione e sfida del sentimento cittadino. E se mal non ricordo, devo aver letto in un bellissimo libro del deputato Bufardeci, qui a me vicino, libro scaldato da quella fiamma giovanile che pare oggi essersi riconcentrata nell’animo dei vecchi, che il maresciallo Del Carretto sceglieva il giorno della esecuzione di Mario Adorno e del suo figlio giovanetto in Siracusa per celebrare l’eccidio con una festa da ballo. Ma è deplorevole che, dopo 34 anni che l’Italia fu redenta, reminiscenze e confronti simili si ridestino da generali italiani!»
E chi infine oserebbe mettere in dubbio la delicatezza dei sentimenti del Generale Morra di Lavriano e della Montà, che all’indomani della sentenza che manda l’on. De Felice per diciotto anni nella reclusione, espelle da Palermo la gentile Maria, colpevole di non sapere nascondere il cordoglio ineffabile per la condanna del padre e di destare la simpatica commiserazione in una cittadinanza cavalleresca e pietosa?
Un ultimo accenno all’opera civile del generale Morra.
Perchè essa fosse riuscita proficua, opportuna, apprezzata sarebbe stato necessario che egli avesse percorso la Sicilia, per conoscerne de visu i mali, che egli avesse avvicinato i sofferenti e gli oppressi ed avesse ascoltato dalla loro viva voce i reclami e le proteste, che si fosse frammischiato col popolo e col popolo avesse vissuto. Il Generale Heusch gli dette l’esempio in Lunigiana di ciò che avrebbe dovuto fare; ed anche qualche suo subordinato, il simpatico colonnello Pittaluga, gli additò la via[416] da battere. Ma tali esempî non erano degni di lui; egli invece di visitare i tugurî, di informarsi delle sofferenze del popolo, di studiarne le cause, preferì passare da una casa principesca all’altra, da questa a quell’altra villa per gradire banchetti lauti, per assistere a sfarzose soirèes, che riuscivano un insulto alla miseria grande delle moltitudini: insomma tutto fece meno che muoversi da Palermo e adempire il proprio dovere.
Principi, marchesi e baroni si tennero onorati delle visite dell’ospite eminente e vollero mostrarsi riconoscenti: cospirarono—è la parola adatta—per fargli concedere la cittadinanza onoraria di Palermo; ma la città di Palermo, giammai vile e servile, sventò la indecorosa manovra, e colla sua attitudine impose il rispetto che si doveva ad un paese che tale onorificenza solo a Garibaldi ha voluto concedere.
Solo per un momento il Morra vuol rendersi popolare e va al Foro italico per assistere... alla benedizione delle capre!
Finalmente esce da Palermo, dove si godette i suoi veri ozî di Capua, e va a fare la sua visita di congedo alla Sicilia. Va e passa in rassegna le truppe per informarsi, forse, se le cartucce sono sufficienti e se i fucili sono pronti per ripetere la cura del piombo al popolo. Vero è che egli raccoglie ciò che merita: accoglienze strettamente e glacialmente ufficiali dai suoi dipendenti, talvolta urli e fischi dagli imperterriti Gavroche isolani, che non sanno valutare e temere abbastanza i benefizî e i pericoli dello Stato di assedio: ma in compenso lo conforta il brindisi laudatorio dell’on. Marchese di San Giuliano...
Il generale Morra lasciando l’Isola, nella sua circolare[417] ai prefetti, osò scrivere questo periodo sbalorditoio, ch’è meritevole di essere tramandato ai posteri, come l’indice più esatto della sua incoscienza: «Durante questo periodo eccezionale sprezzando fatiche e disagi mi sono dedicato con vero affetto alla non facile impresa della pacificazione degli animi per varie cause eccitati, e allo studio arduo dei principali bisogni delle popolazioni siciliane....»
E l’ironia amara per quest’opera incivile del Regio Commissario straordinario in Sicilia potrebbe continuare, se non fosse tempo di ricordare che di quest’opera sua c’è chi è direttamente e politicamente responsabile di fronte al paese: l’on. Crispi.
Si mentirebbe e si calunnierebbe il Presidente del Consiglio dei ministri se si dicesse che egli sia rimasto contento e soddisfatto del modo come il generale Morra ha adempiuto alla delicatissima e grave missione affidatagli. Si assicura che egli si sia accorto in tempo della cattiva scelta fatta e che non abbia nascosto il suo malumore. Un sintomo del suo malumore si volle scorgere nella insolita fiacchezza colla quale difese egli nella Camera dei deputati il regio Commissario dagli attacchi dell’on. Cavallotti.[77]
Ma se l’on. Crispi si accorse in tempo che il Generale[418] Morra non rispondeva alle esigenze imperiose della difficile situazione, perchè non lo rimosse dall’ufficio? Forse temette di attentare alla reputazione della propria infallibilità? Più verosimilmente ubbidì ad ordini che vennero dall’alto protettore del Morra. Nell’uno e nell’altro caso sul capo del governo che scelse un uomo inadatto al compito e lo mantenne, quando si manifestò tale apertamente, ricade la responsabilità intera dell’errore commesso. In un modo solo potrebbe farselo perdonare: disfacendo l’opera del generale Morra e cominciando dalla pacificazione degli animi, che non potrà iniziarsi efficacemente se non coll’amnistia: amnistia, suggerita dalla suprema Corte di Cassazione, e moralmente necessaria ai giudici anzichè ai condannati.
[75] In Palermo fece rumore il caso di Parco. L’amministrazione fu sciolta perchè furono dimostrate fondate le accuse portate contro di essa dal Fascio. Vi fu mandato come regio Commissario il sig. Benedetto Carrozza, che conoscendo i fatti cercò riparare al dissesto economico e ai disordini amministrativi; ma i rei seppero ingraziarsi il generale Morra, e il regio Commissario di Parco si dimise, per provvedere al proprio decoro e forse anche alla propria libertà: venne indicato come sobillatore!
[76] Il caso di Catania fu portato alla Camera dei Deputati. Conservo relativamente ad essa un articolo che voleva pubblicarsi in un giornale locale—e di cui fu vietata la pubblicazione,—come il documento più prezioso dello sconfinato e brutale arbitrio della censura preventiva. Ogni cartella dell’articolo, in cui non c’è una sola parola incriminabile e men che rispettosa verso le autorità, porta il veto del Capo di Gabinetto della Prefettura sig. De Francisci.
[77] Il Corriere dell’Isola di Palermo, organo dei conservatori e che rispecchiava le tendenze dell’entourage aristocratico del generale Morra, scrisse in quella occasione un fierissimo articolo contro l’on. Crispi. Ad onore del vero si deve aggiungere che il numero in cui fu pubblicato venne sequestrato per ordine dello stesso generale, che certamente si sarà ricordato del: surtout pas trop de zèle!
Se questo libro non dovesse essere che la esposizione cronologica degli avvenimenti, più volte avrei dovuto accennare alla discussione parlamentare; ma poichè ho invece preferito raggruppare i fatti logicamente e metterli in connessione colle loro cause, facendoli seguire dai commenti che mi sono parsi opportuni, ho raccolto in unico capitolo tutto ciò che riguarda la discussione degli avvenimenti a Montecitorio; perchè in quelle discussioni c’è appunto il riassunto degli avvenimenti, della esposizione delle loro cause, e delle considerazioni fatte sugli uni e sulle altre, della responsabilità del governo, della utilità e convenienza della sua azione.
I giudizî emessi in Parlamento dànno la più esplicita sanzione a quanto sinora è stato esposto e servono di opportuna conclusione alla precedente narrazione ed ai relativi commenti.
Quali le cause intime e reali dei moti di Sicilia? Su questo argomento ci fu un consenso ammirevole[420] di parere tra gli oratori delle varie parti della Camera, che non potè essere menomato dal dissenso di pochissimi deputati, e che verrà lumeggiato in ultimo.
Prima tra le cause venne indicato il forte e rapido disagio economico. Si comprende che su di esso abbia insistito un socialista come il Badaloni, che opportunamente ricorda che le stesse cause economiche, le quali—secondo Massari, Castagnola e Villari—produssero il brigantaggio, cagionarono i moti di Sicilia. Egli con sintesi mirabile espose le risultanze della Inchiesta agraria—il cui volume sulla Sicilia porta, come si sa, la firma dell’on. Damiani—e secondo la quale nell’isola le classi lavoratrici hanno un impronta comune di miseria, di abbattimento e di patimento; dove invano si cerca un ceto agricolo, ma si trovano servi sfruttati sempre, riconosciuti mai, che per vivere sono costretti a rubare ed a vendere l’onore delle loro figlie e delle loro mogli...
Si comprende del pari che io—che da vero sobillatore, molti anni or sono avevo riprodotto questi giudizî del Damiani, dalle forti tinte,—mi sia trovato perfettamente di accordo coll’amico carissimo Badaloni; ma importa di più il conoscere che il forte disagio economico venne ammesso da molti altri, che militano in partiti avversissimi al socialista: dall’on. Comandini—che fece due discorsi forti per logica e per ricchezza di fatti—all’on. Farina; dall’on. Franchetti all’on. La Vaccara; dall’on. Filì Astolfone all’on. Di San Giuliano. Quest’ultimo anzi dette in sulla voce all’on. Nasi—i cui singolarissimi giudizî troveranno un posto speciale—ed insistette nel dimostrare i danni del latifondo, il rapido passaggio[421] dal benessere al disagio economico vivo e sentito da tutte le classi e non dai soli lavoratori.
Non è meno notevole il consenso sulla pessima amministrazione dei corpi locali e sulla iniqua ripartizione dei tributi: ammette questi gravi inconvenienti ed efficaci fattori di malcontento lo stesso on. Crispi!
Ricordai, che li aveva messi in evidenza l’onorevole Damiani in una intervista col corrispondente del Lokalanzeiger e li riconobbero gli onor. Farina, Pinchia e Filì-Astolfone. Ne fece un quadretto verista ammirevole l’on. Di Sant’Onofrio, che ricordò essere stato prodotto dalle iniquità e dalle prepotenze dei partiti locali il motto popolare, che ritiene: la legge essere fatta solamente per lo sciocco. Ma fu l’on. Di San Giuliano, che anche su questo riguardo col rammarico di dissentire dal solito Nasi, somministrò dati importanti sulla prevalenza delle relazioni e clientele personali, sull’accanimento delle lotte tra i partiti locali, sulla gravezza delle imposte, sulla dissennatezza delle spese, sulla falsità delle liste elettorali... E chi più ne ha, più ne metta!
I danni enormi del disagio economico e della iniquità e scorrettezza delle amministrazioni locali fu dimostrato che venivano aggravati dalla imperizia e dalla partigianeria dei funzionarî di ogni grado, che il governo ha mandati in Sicilia dal 1860 in poi in punizione o in esperimento.
Il male fu più volte denunziato e deplorato; ma i varî ministeri lo negarono sempre; il male era reale tanto che venne stigmatizzato in questa occasione da un uomo di facile contentatura, qual’è l’onorevole[422] La Vaccara, seguito dagli on. Di San Giuliano, Farina e Nicolosi.
Questi, di animo mite e alieno dalla critica contro l’ente governo, fece una vera e giusta carica a fondo contro i prefetti, la cui partigianeria politica generava un forte disagio morale, che aggravava il disagio economico. A notarsi: avendo io accennato ad un funzionario abile e intelligente, l’on. Damiani mi fece questa caratteristica interruzione: «Pare impossibile, ma è vero!»
Chi mise il dito sulla piaga sui funzionari governativi accennando al passato prossimo... ed al presente fu l’on. Comandini. Egli nel suo discorso del 27 febbraio 1894 disse:
«Non facciamoci illusioni: la condizione delle provincie siciliane, per ciò che si riferisce agli atti ed alla responsabilità delle autorità governative, non poteva essere peggiore... In Sicilia io ho trovato che negli uomini veramente di ordine era ed è radicata la convinzione che in alcuni comuni, per fini elettorali, non sdegnarono alcuni funzionarî del governo di farsi essi autori di circolari e di proclami, che venivano distribuiti ed affissi in pubblico sotto l’intestazione: Fascio dei lavoratori.» (Commenti).
Coi pieni poteri del generale Morra di Lavriano ci fu un miglioramento? Ecco il giudizio, da nessuno contraddetto, dello stesso on. Comandini:
«Io ho trovato che la fiducia nei funzionari amministrativi era scossa, e quando ho indagato se sua Eccellenza il regio Commissario straordinario si fosse insediato a Palermo con uno speciale gabinetto politico, sapete voi quale Gabinetto politico ho trovato? Ho trovato un Gabinetto composto di un militare e di due civili, perfettissimi gentiluomini, giovani di grande e buona volontà, d’ingegno pronto e di eccellente volontà nel lavoro, ma sorpresi essi stessi dal carico, ch’era stato addossato alle loro spalle, e non timorosi[423] di dire che essi si sentivano contenti di essere stati chiamati a tali funzioni, perchè imparavano una quantità di cose nuove, che prima essi ignoravano...»
La Sicilia era, dunque, pel Gabinetto del generale Morra di Lavriano corpus et anima villa... Ed ora si meravigli chi può della sapienza degli atti e degli editti del Commissario.
Date queste premesse e assodate queste cause predisponenti si può indovinare quale e quanta responsabilità si possa attribuire ai socialisti, ai sobillatori, ai Fasci dei lavoratori.
Sono essi, che hanno calunniato la borghesia e che hanno generato l’odio di classe?
Badaloni prende il volume dell’Inchiesta Agraria del Damiani e mostra che l’odio di classe è antico e produsse le manifestazioni del 1848 e del 1860 di quella popolazione, che lo stesso on. Crispi chiamò sobria, schiava della fame e del lavoro. Socci, Ferrari, Prampolini ed io, ribadimmo l’assunto del Badaloni; lo confermò Franchetti, che disse l’antagonismo tra le varie classi sociali antico e fatale. Ma le classi dirigenti e la grossa borghesia sono meritevoli di odio? Basta rammentare le parole di Crispi, riportate avanti, ch’egli pronunziò a Palermo nel 1886, in una riunione di operai...
Come la borghesia usò in Sicilia di quella sua onnipotenza? Ecco qua: «Il grande proprietario è troppo sovente fruges consumere natus, un parassita, un ozioso... ma non è (?) uno sfruttatore. I borghesi rurali in generale trattano male i contadini; amministrano i comuni con criterî d’interessi di classe; sono azzeccagarbugli, usurai... Le classi dirigenti non sono all’altezza dei loro doveri...» È[424] forse questo il giudizio appassionato di un socialista? No! venne formulato da un loro avversario, da un loro persecutore: dall’on. Marchese di San Giuliano il giorno 27 febbrajo 1894! E dopo le sue parole, lasciamo che il suo amico on. Castorina si diverta, e diverta gli altri, nel difendere la borghesia, e nell’affermare che borghesi e lavoratori in Sicilia fraternizzano, come nel più idillico dei mondi possibili!
Se i socialisti, i sobillatori, i Fasci non generarono l’odio di classe, che trovarono bello e preparato da anni e forse da secoli, non può dirsi neppure ch’essi furono gli agenti diretti, determinanti degli ultimi moti. Che non lo furono fu sostenuto da Badaloni, da Altobelli, da Comandini, da me. L’ottimo Farina si stupì, si meravigliò altamente degli on. Nasi e Saporito, che ai Fasci e ai sobillatori li attribuirono; ma il loro era naturalmente il parere dell’on. Crispi, che fu pure combattuto da uno dei suoi più fedeli amici politici, dall’on. Di Sant’Onofrio. Più equanimi vollero mostrarsi gli on. Filì-Astolfone e Di San Giuliano che dei moti trovarono la ragione parte nelle cause precedentemente esposte e parte nell’azione dei Fasci. Il secondo, anzi, si espresse in termini, che meritano di essere integralmente riprodotti.
«Per quanto concerne le cause—disse il rappresentante per Catania—voi avrete visto, e dalla discussione fatta qui e da quello che si è detto fuori di quest’aula, che vi sono due tendenze. Gli uni credono che causa unica sia il disagio economico, e specialmente la miseria dei contadini; altri credono che causa unica sia la propaganda dei sovvertitori.»
«L’onorevole Nasi nel suo discorso di ieri si accostava a quest’ultima opinione. Ora io francamente credo che abbiano[425] contribuito l’una e l’altra causa. Senza il disagio economico e senza il malcontento che ne consegue, la propaganda dei sovvertitori non avrebbe potuto avere gli effetti che ha avuto, e forse non si sarebbe fatta. Senza poi la propaganda dei sovvertitori il malcontento non si sarebbe manifestato ora, o si sarebbe manifestato in altro modo, forse non meno pericoloso, ma più legale.»
Non è evidente da questi forse dell’on. Di San Giuliano, che i moti si sarebbero avuti anche senza i Fasci, e in una forma non meno pericolosa?
Una manifestazione se è più pericolosa, dal punto di vista politico, non giova che sia più legale; ad ogni modo l’on. Paternostro, che dell’on. Crispi è amico politico e non è affatto socialista, riconobbe e ricordò colla sua lealtà, che il movimento dei Fasci era legalissimo e doveva essere rispettato.
Si dirà che i Fasci, i sobillatori, i socialisti hanno almeno la responsabilità indiretta dei tumulti siciliani, in quanto furono determinati o accelerati dalla loro propaganda? E allora a quanti hanno predicato e raccomandato la emancipazione o il miglioramento dei lavoratori deve assegnarsi buona parte delle responsabilità; e primo fra tutti all’on. Crispi, che proprio in Sicilia espose... in pubblici discorsi idee poco diverse per il fine cui miravano, di quelle propugnate dai socialisti. E gli on. Altobelli e Badaloni con eloquenza e con senso vero di opportunità all’on. Crispi ricordarono questi brani significanti dei suoi discorsi di deputato e di candidato:
«Bisogna una volta uscire da cotesto egoismo borghese, che ha già sconvolto altre nazioni, o, quel che più monta, ha soffocato nel sangue i reclami del popolo, volta a volta blandito e tradito.
«La questione sociale, se non venga risolta come dovere, verrà imposta come necessità.»[426]
«Alle plebi manca tutto, il loro rinascimento comincia da oggi...
«Bisogna che i lavoratori siano redenti dalla schiavitù della ignoranza, e dalla schiavitù del capitale...
«Bisogna che siano messi nella condizione di avere il denaro necessario, affinchè, volendolo, possano diventare padroni di un opificio, e che, associati, possano anche essi costituire opifici...
«Allora potrete trovare la soluzione del problema, che il capitale ed il lavoro stiano allo stesso livello, siano nelle stesse condizioni di eguaglianza, e che l’uno non possa comandare sull’altro, ma si riequilibrino, si rafforzino a vicenda...
«Noi avremo allora la vera concordia degli animi, avremo costituita quella unità morale, senza la quale non è possibile che duri l’unità politica del popolo italiano.
«Imperocchè fino a quando le classi sociali dureranno distinte per gl’interessi rivali, e qualche volta l’una tiranna dell’altra, saremo in continuo pericolo di disordini e conflitto.»
Ora io, dico, i socialisti e i sobillatori quando mai enunziarono propositi diversi e più radicali di quelli enunziati dall’on. Crispi in Palermo nel 1886? In quanto al metodo per farli trionfare non può dimenticarsi che lo stesso on. Crispi pochi anni dopo, proprio alla vigilia del movimento dei Fasci, telegrafava di rivoluzione come un qualunque avventato sobillatore...
Chi conosceva tutto quanto precede avrebbe dovuto concludere che nei moti di Sicilia non c’era stato accordo, non vi era stato intesa, non c’era l’intervento della cospirazione; ed alla Camera tale dimostrazione venne fatta da Altobelli e da me; e v’insistettero due oratori, che pel partito politico in cui militano non possono menomamente essere sospettati di tenerezza pei socialisti: l’uno l’on. Emilio Farina con quella espressione di sincerità ch’è l’impronta[427] dei suoi discorsi, perciò tanto bene accetti a Montecitorio, disse:
«Non vi furono attacchi contro le caserme, non movimenti simultanei, non danari spesi per suscitarli o sostenerli, ed è perciò che questi movimenti potevano apparire, come disse qualcuno dei colleghi, sfoghi d’ire locali, e non meritare tutti i rigori che sono stati adottati per reprimerli. Le stesse stragi furono motivate, non già da assalti preconcetti contro le truppe; furono le truppe in piccolo numero, che per svincolarsi da folle clamorose che mano mano andavano esaltandosi, fecero uso delle armi, con quel penoso resultato che ognuno sa. La strage stessa commessa sul pretore, non fu un’azione, ma una reazione dopo una strage di popolo.»
L’altro, l’on. Comandini, con l’immancabile e scettica sua ironia, mise in ridicolo la cospirazione, e a provare che era un romanzo aggiunse:
«Io non voglio far perder troppo tempo prezioso alla Camera, ma voglio evocare un curioso ricordo che ho comune con qualche nostro collega.»
«Nel 1874 si volle scuoprire una pretesa cospirazione repubblicana per la quale furono denunciati, arrestati e processati invano ventotto uomini, parecchi dei quali hanno già seduto ed alcuni seggono ancora in questo Parlamento.»
«Fra i documenti sequestrati, fu ritenuto uno dei più impressionanti di quella cospirazione una specie di discorso sedizioso che si voleva fosse stato preparato per una riunione di ribelli, e che fu trovato nella tasca di uno degli arrestati.»
«Per due mesi l’istruttoria si torturò con quello spietato discorso, che poi si verificò non altro essere che un semplice esercizio di traduzione dal latino in italiano di un’orazione di Catilina tratta dalla Congiura di Catilina di Sallustio (Ilarità).»
«Ella, onorevole Crispi, venne qui a dirci: «Ecco qua le lettere da Trapani, ecco qua il manifesto: «Operai, figli dei Vespri, ancora dormite?»
«Ma che Vespri, onorevole Crispi! Michele Amari, nel 1842, diceva che «i Vespri non si combinano; essi sono irresistibilmente[428] ispirati, irrompono nell’ora fatale e soppiantano il potere» (Commenti). «E queste stesse parole di Michele Amari hanno ripetuto a voi il nostro compianto collega Cuccia, il professore Salvioli, il professore Schiattarella, Antonio Morvillo, tutti i vostri amici di Palermo.»
Se la cospirazione era un romanzo, invece erano una triste realtà la violazione dello Statuto, gli eccessi del governo nella repressione, la reazione.
E a Montecitorio furono in molti a constatarle anche tra gli amici del ministero e dell’on. Crispi, sebbene non mancassero contraddittori, che trovarono tutto ben fatto.
Nel primo senso parlarono gli on. Imbriani, Bonajuto, Altobelli, Bovio, Sacchi, Comandini, Cimbali, Marcora, Pinchia, Paternostro ed io. Approvarono quasi incondizionatamente gli on. Lazzaro, La Vaccara, Damiani e Castorina; e pur approvando la condotta del governo ebbero da deplorare non poche cose gli on. Spirito e Di San Giuliano.
Bovio sostenne che le idee, le utopie non si possono colpire, ma soltanto i mezzi adoperati per realizzarle. Imbriani—certamente facendo violenza a sè stesso—disse che in Austria testè per proclamare lo stato di assedio in Boemia si domandò l’autorizzazione del Parlamento ed enunciò gli articoli dello Statuto, che furono violati in Italia: il 26º, inviolabilità della libertà individuale; il 27º, inviolabilità del domicilio; il 28º, libertà della stampa; il 32º, diritto di riunione e di associazione; il 45º immunità parlamentare; il 70º proibizione di derogare all’organizzazione giudiziaria; il 71º divieto di sottrarre i cittadini ai giudici naturali e di creare tribunali e commissioni straordinarie... E nessuno seriamente[429] osò negare che tanti articoli—i più importanti—siano stati manomessi; si constatò, invece, con giustezza dall’on. Sacchi, che l’azione reazionaria del governo potè passare con indifferenza, perchè in sostanza la reazione era nella Camera e nel paese!
L’on. Cimbali bene a proposito rilevò, che il disarmo fu fatto a benefizio dei malfattori. Sacchi dimostrò la enormità commessa dando effetto retroattivo alle ordinanze dei regî commissarî di Sicilia e di Lunigiana. E che i civili non si potessero sottoporre ai Tribunali militari l’on. Paternostro, lo provò colle parole dello stesso on. Crispi, che nel 1862 in un mirabile discorso sostenne ciò che quasi tutti gli oratori della Camera sostenevano su tale argomento, ed opportunamente ammonì che le armi della reazione non hanno mai salvato le dinastie...
L’on. Altobelli fu felicissimo nello studio comparativo tra la legge francese sullo Stato d’assedio e la legge italiana che esclude di poter fare ciò che fece il governo; contro le leggere asserzioni dell’on. Crispi che nel Codice penale militare del 1869 trovava la legittimazione del suo operato, provò che essa invece c’era soltanto nell’art. 137 del codice penale militare sardo del 1840 che diceva:
«Le stesse regole in tempo di pace potranno anche di nostro speciale ordine, qualora le circostanze lo esigano, essere poste temporaneamente in vigore in alcuna parte dei nostri stati»; e flagellò a sangue il contegno bassamente opportunista e servile della magistratura, riportando la motivazione della ordinanza della Camera di Consiglio che mandò il Molinari innanzi ai Tribunali militari «perchè non sarebbe[430] stato opportuno che i primi arrestati si sottraessero alla giurisdizione speciale!»
Si può passar sopra adesso all’affermazione troppo semplicista ed ottimista dell’on. Castorina che nello Stato di assedio vide un eccellente rimedio; ed all’altra dell’on. La Vaccara che nello Stato di assedio trovò un conforto.
I bravo! che partirono dall’estrema sinistra a questa inattesa uscita dell’on. rappresentante per Piazza Armerina, sottolinearono la esplosione d’ironia della Camera. Ad onore del vero devo aggiungere che il conforto di cui parlò l’onorevole La Vaccara rispondeva alla realtà; egli ebbe il torto, però, nell’asserire che l’applauso per lo Stato di assedio fu unanime; poichè il conforto non lo provarono che solo i conservatori e le classi dirigenti. Del resto questa loro tenerezza per lo stato di assedio è di antica data: Filippo Cordova nel 1863 riferiva che qualche siciliano gli aveva detto: assicuratevi che nel cuore di ogni proprietario siciliano vi è l’immagine di Rattazzi, non per altro che per lo stato di assedio!
E vengo in ultimo all’on. Di San Giuliano, il quale trovò opportuno lo Stato di assedio, ma non potè negare gli arbitrî e le ingiustizie commesse. Ed egli conchiuse con un pensiero, che racchiude tutta la filosofia degli ultimi avvenimenti, dà la misura della utilità della reazione e della repressione e ammonisce sulla via da battere.
«Dopo l’istruzione data e la propaganda fatta,—disse il rappresentante per Catania,—l’antica rassegnazione dei contadini e degli operai non tornerà più!»
E collo stesso on. Di San Giuliano, che fu seguito[431] dagli on. Comandini e Ferrari—contro il parere degli on. Saporito, Fortis e Damiani—mi trovo pienamente di accordo nel ritenere che ai mali della Sicilia si deve porre riparo con leggi speciali, ricorrendo ai veri criterî sperimentali. Non bisogna affidarsi alla uniformità delle leggi per tutta la nazione, perchè la uniformità rappresenta un vero letto di Procuste.
Da questo fedele riassunto della discussione parlamentare si detegge che di tutte le cause dei moti della Sicilia, frammentariamente, venne riconosciuta l’azione persistente, dagli uomini più temperati, dagli amici delle istituzioni, dai più devoti al ministero dell’on. Crispi; riconoscimento, che indirettamente eliminò la responsabilità dei Fasci dei lavoratori e della propaganda socialista.
La nota discordante non mancò, però, e venne portata alla Camera dagli on. Saporito-Ricca e Nasi.
L’on. Saporito, sorpreso del profondo perturbamento dell’ordine pubblico, maggiore che nelle precedenti rivoluzioni—e sorpreso perchè mai forse aveva posto attenzione all’indole dei moti puramente sociali—negò la spontaneità del movimento, lo attribuì interamente ai Fasci ed ai sobillatori e proclamò essere fandonie, ed ingiurie ingiuste e gratuite le asserzioni dei precedenti oratori. Si dichiarò soddisfatto dell’opera del governo, e nello Stato di assedio vide il rimedio supremo a tutti i malanni!
La stessa tesi precedentemente era stata svolta dall’on. Nasi, con lusso di particolari e con aneddoti ameni e piccanti, con una forma spigliata e talora elegante; sicchè il suo discorso dal punto di vista oratorio si può considerare come il gran successo della discussione.[432]
Secondo l’on. Nasi in Sicilia non c’era fame, vi erano minori che altrove le sofferenze economiche, il salario non era inferiore di altrove, il lavoro delle miniere di zolfo non era più duro che altrove, le amministrazioni comunali non andavano più male che altrove, il dazio sulla farina non aveva influenza prevalente ed uguale sul prezzo del pane; il governo non aveva le responsabilità che gli erano state addossate, nemmeno quella dei cattivi funzionarî mandati nell’isola, i quali avevano fatto sempre il proprio dovere; non c’era, infine, una quistione siciliana poggiata su cause politiche, economiche, amministrative.
I nuovi piagnoni avevano tutto esagerato, e tutto il movimento si doveva esclusivamente alla azione dei sobillatori, la cui propaganda socialista non era che una mistificazione, e che i Fasci dei lavoratori, non raccoglievano che ambiziosi e malcontenti.
Date queste premesse chiunque si sarebbe atteso, che l’oratore avrebbe conchiuso con un inno al governo e colla raccomandazione di lasciar correre tutto per la sua china, come pel passato. Nossignori! L’on. Nasi si dichiarò contrario al governo, non solo, ma stigmatizzando le infeconde lotte parlamentari profetizzò che il ritardo nel presentare opportuni rimedî porterà a conflitti terribili e pose termine al brillante discorso come tutti gli altri oratori socialisti e radicali, promettendo che in un possibile conflitto egli, con tutti gli uomini di cuore, si sarebbe schierato dalla parte del popolo.
La conclusione sorprese, e tutti—compresi i suoi intimi—si domandarono la ragione del discorso. Si avrebbe potuto cercarla nel livore contro qualche[433] collega suo e contro alcuni organizzatori dei Fasci suoi nemici politici e personali; ma escludendo pure questi moventi non belli si può ammettere che l’onorevole Nasi fu spinto a parlare dal desiderio di lanciare qualche freccia all’indirizzo dell’on. Crispi, e dall’altro non meno ardente di difendere l’antico ed amato ministero dell’on. Giolitti, e sopratutto fu mosso dalla patriottica e generosa preoccupazione di annunziare alla Camera che ai mali d’Italia—e forse dell’umanità—non c’era che un rimedio, uno solo: la dottrina di Alessandro Fortis!
All’annunzio di tanta scoperta tutti richiesero quale fosse la dottrina di Alessandro Fortis, la modestia del quale venne offesa specialmente perchè egli non ricordò di averne formulata mai alcuna sua propria, e che se per sua dottrina volevano prendersi gli accenni simpatici al socialismo di stato, fatti in momenti di espansione a Bologna o altrove, non potevasi e non dovevasi sospettare che tali accenni costituissero la sua dottrina, poichè egli si era affrettato a ripudiarli coi discorsi alla Camera e specialmente coi voti dati, coi fatti.
Comunque, le congratulazioni all’on. Nasi furono grandi nella Camera e in certa stampa pel successo del suo discorso, e fu notevole poi la lode rivoltagli dall’on. Comandini, che rapito dal discorso ammirò oltre ogni dire il coraggio dell’oratore. Oh! se ce ne volle del coraggio a dire tutto quello, che disse...... Ma le congratulazioni pel coraggio all’on. Nasi resero più amare le critiche, non degli avversarî politici, ma degli amici; perciò da uomo che non voleva procurarsi la nomea di peccatore ostinato, nella seduta[434] del 2 marzo, a meno di otto giorni di distanza, rimangiò le precedenti denegazioni, facendo precedere l’atto di autofagismo da questa dichiarazione, che lascia perfettamente intendere che io non ho di una linea esagerata o alterata la impressione che ricevette la Camera dal suo discorso:
«È troppo facile e vecchio argomento di polemica quello di attribuire ai propri avversari opinioni, che non hanno manifestato od assurdità, di cui non sarebbero capaci.»
«Io non ho negato nulla, non ho detto che in Sicilia non ci sia la miseria: non ho detto che non ci siano gli abusi municipali; non ho detto che in Sicilia non vi sia una questione dei tributi locali, o di contratti agrari. Gli onorevoli Comandini, Farina, San Giuliano e Sant’Onofrio, potevano quindi dispensarsi dal manifestare un dissenso, che è fondato sopra un semplice malinteso.»
«Il malinteso deriva da ciò, che essi hanno esaminato la questione in modo analitico: ed in molti loro giudizi io consento.»
«Io ho posto a base del mio ragionamento un concetto logico generale, che è il seguente: se c’è una questione siciliana, è necessario che essa abbia cause speciali del luogo. Ho distinto perciò le cause efficienti dalle condizionali.»
Egli fece molte sottili distinzioni in seguito; ma come si potè vedere continuò a denegare che una quistione siciliana ci fosse. Ma sia lode alla sua rettitudine: egli non persistette neppure in questa denegazione, che dovette pesargli sulla coscienza per ben lunghi quattro mesi, e perciò il 5 luglio interroga solennemente il ministro dell’interno per sapere se, come e quando intendeva provvedere ai bisogni della Sicilia, ritenendo che fosse necessaria una parola del governo prima che la Camera si separasse....
Mi sono dilungato sui discorsi dell’on. Nasi perchè egli fu il solo autorevole a smentire tutti gli oratori[435] che lo avevano preceduto e lo seguirono, e che non trovandosi di accordo neppure col governo, si creò una situazione nuova, specialissima.
Chi infine merita di soffermare l’attenzione è l’on. Crispi, non solo pel posto che occupava, ma sopratutto per l’autorità, che gli veniva dai suoi patriottici precedenti, per la simpatia, che ispirava la sua tragica situazione;—e dico tragica, perchè a nessuno passa per la mente di negare il suo affetto per la Sicilia, onde gli dovette sanguinare il cuore nel dovere prendere, come capo del governo, delle dolorose misure. Ed ispirava ancora simpatia per la singolare energia addimostrata in momenti gravissimi, in una età nella quale in Italia gli uomini politici se non materialmente, certo psichicamente sono finiti. E degli sforzi enormi fisici e morali si risentirono in questa occasione i suoi atti e sopratutto i suoi discorsi, nei quali si accentuarono non i pregi, ma gli abituali difetti. La leggerezza e l’assolutismo delle affermazioni furono veramente eccezionali, e per quanto mi riesca increscioso devo metterli in evidenza, perchè precisamente a forza di affermazioni recise e di altrettanto risolute denegazioni—che, dato l’uomo e la sua alta posizione, pochissimi osarono sospettare poggiate sul falso—la Camera si formò un concetto assolutamente erroneo sulla situazione e sulle rispettive responsabilità e votò conformemente all’errore.
Per parte mia sin dal primo iniziarsi della discussione, il 21 febbraio, con quanta più forza potei, all’annunzio di certe cospirazioni e di certi pericoli, gridai: È falso! È falso! È falso! E l’on. Crispi allora[436] solennemente affermò che c’erano documenti, che avrebbero schiacciate le mie affermazioni!
I primi atti, le prime parole e i primi scritti dell’on. Crispi—che M. Imbriani nella discussione delle leggi antianarchiche paragonò al convenzionale Fouchet—dimostrarono che egli si era posto su di una china pericolosa, che doveva percorrere intera, procurandogli le più amare ed incontrastabili smentite, più che dagli avversarî, dalle risultanze dei processi e dai fatti indiscutibili.
La violenza del linguaggio e la esagerazione iperbolica cominciarono a far capolino nella relazione dell’on. Crispi, che precede il decreto di proclamazione dello Stato di assedio, nella quale è detto: i moti furono provocati da gente dedita ad ogni sorta di delitti; saccheggi, incendî, rapine si commisero in QUASI TUTTI i comuni dell’isola. Poi, considera Molinari e Lombardino come esseri inferiori a Ninco-Nanco ed a Cipriano La Gala. E supera qualunque aspettativa quando ad un delicato appello d’Imbriani al suo cuore di padre in favore di Maria De Felice, risponde: quella è la figlia di un malfattore! La Camera riverente, per non dire servile, verso il presidente del Consiglio rimase profondamente addolorata di questa risposta... inqualificabile, e consentì, a proposta di Cavallotti, ch’essa venisse cancellata dal resoconto ufficiale: la massima censura che può infliggersi ad un oratore e che venne inflitta all’on. Crispi; il quale voleva esser punito più severamente dall’on. Agnini, che si oppose alla proposta Cavallotti, chiedendo che rimanesse constatata nel processo verbale, ad edificazione dei posteri, la frase che disonorava soltanto chi l’aveva pronunziata.[437]
A questa violenza—che non è energia—e scorrettezza di linguaggio dell’on. Crispi, fece degno riscontro la enunciazione di certe teorie illiberali e di certe proposizioni, che dovettero sorprendere e addolorare gli uomini di scienza e di cuore. Dopo avere affermato—contro le leggi—che c’è il diritto al ricorso per le sentenze dei Tribunali militari in tempo di guerra, immemore del biasimo che colpì l’on. Nicotera per avere indicato l’articolo del Codice penale che i magistrati avrebbero potuto applicare pei fatti del 1º maggio 1891, augurò, egli, Presidente del Consiglio, che la Suprema Corte di Cassazione respingesse i ricorsi, esercitando con ciò la più aperta pressione sull’animo dei magistrati, che docilmente respinsero. Nel Re riconobbe il diritto illimitato di proclamare lo Stato di assedio in forza dell’art. 5º dello Statuto, che gli conferisce il diritto di dichiarare la guerra....!
Pose le colonne d’Ercole alla evoluzione politica, annunziando che al di fuori delle attuali istituzioni non c’è che l’anarchia o il dispotismo. E arrestò la evoluzione economica e chiuse autorevolmente ogni dibattito scientifico affermando che abolito il feudo e soppressi i fidecommessi la proprietà è legittima.—legittimità da lui stesso poi violata colla proposta di legge sui latifondi di Sicilia—Che il socialismo moderno ha elevato a scienza il diritto della spoliazione e che il concetto dello stesso socialismo si avvicina al delitto. Vero è che parlando in tal modo egli alludeva al socialismo della piazza, ma nessuno potè sapere come distinguerlo da quello di Marx e dall’altro più temperato da lui stesso preconizzato nel discorso di Palermo del 1886.[438]
Dalla esposizione delle teorie passando alla esposizione dei fatti non si guadagna in esattezza e in verità. L’on. Crispi garentì che in Sicilia non c’era miseria; che i moti furono determinati dai Fasci; che l’esposizione di Palermo del 1892 fu una peste, perchè gli operai del continente in tale occasione importarono nell’isola la propaganda socialista; che la borghesia con tanti meriti, non aveva che una colpa sola: l’avere abbandonato le plebi alle sette ed ai preti; che i Fasci avevano promesso la divisione delle terre nel 1894; che i capi del movimento si erano posti in relazione coi clericali del continente e collo straniero; ch’erano state annunziate una guerra nel 1894, la invasione del Piemonte, la vittoria di flotte nemiche nel Mediterraneo, la autonomia siciliana sotto la protezione della Russia, cui si sarebbe ceduto un porto: che la insurrezione era pronta e lo stato di assedio fu posto in tempo; che duemila armati percorrevano la Lunigiana e 280 mila socî dei Fasci potevano accoppare i 14 mila uomini di truppa, che c’erano in Sicilia; che De Felice fu arrestato in flagranza ec. ec. Con pari esattezza e con altrettanta recisione interruppe me, che parlavo del processo mostruoso pei fatti di Valguarnera, garentendo che nessuno in Italia tentava le bricconate da me denunziate, e che i processati lo erano perchè ritenuti colpevoli, mentre poi il processo innanzi il Tribunale militare di Caltanissetta giustificò alla lettera le mie osservazioni. Contraddice formalmente Imbriani e me sulla autenticità dei fatti di Castelbuono e nega fede alla Giunta comunale, che li aveva stigmatizzati nella nota sua protesta; ma il Tribunale di Termini Imerese lo smentisce inesorabilmente, condannando[439] l’autore di quei fatti, il delegato Breda, a tredici mesi di reclusione. Assicura l’on. Imbriani, che arbitrî e ingiustizie non se ne commettono e che se i prefetti e le Commissioni speciali avevano mandato a domicilio coatto i pregiudicati ritenuti tali dalla legge di pubblica sicurezza, ciò era stato fatto con ordinanze regolari e dopo essere stati esaminati i fatti della loro vita e la loro condotta; e invece risulta da centinaia e centinaia di casi, che cittadini onestissimi, mai per lo passato processati, in nessun modo pregiudicati, senza processo, senza interrogatorio, senza formalità di sorta alcuna vennero arrestati, ammanettati e condotti nelle isole destinate al domicilio coatto, per isfogo di vendette personali di sindaci e per semplice furore di persecuzione e per paura dei delegati, della questura, dei Prefetti, senza che mai alcuna commissione fosse stata interrogata![78] Assicurò infine che non occorrevano leggi sociali e speciali per la Sicilia e dopo pochi mesi si smentisce da sè presentando lo specialissimo disegno di legge sui latifondi.
E veniamo finalmente ai documenti, a quei documenti, che l’on. Crispi annunziò che sarebbero riusciti schiaccianti per gli accusati e per coloro che,[440] come me, difesero questi alla Camera. Sono due: il trattato di Bisacquino e l’appello rivoluzionario agli Operai figli del Vespro.
Non ho bisogno di ripubblicare il trattato di Bisacquino, di umoristica memoria, di cui mi occupai nel capitolo sul processo mostruoso. In quel trattato erano contenute le notizie per le più terribili accuse contro i Fasci e contro i socialisti, me compreso. Quale il valore di esso risultò dal processo: l’avvocato Fiscale lo ripudiò formalmente e si sentiva umiliato, come di un tentativo di volgere in ridicolo il processo, ogni volta che accusati e difensori vi accennarono. Ma quando l’on. Crispi prestò fede al trattato di Bisacquino, si dirà che non gli erano note le risultanze del processo. Ebbene, fu proprio durante il processo che l’avv. fiscale Soddu-Millo annunziò all’on. De Felice, che nell’ottobre 1893 il sotto-prefetto di Corleone non ritenne degno di essere mandato alle autorità superiori il documento, che si deve alla fervida immaginazione di qualche spia e più probabilmente di qualche burlone, che lo dette come oro di coppella al delegato di Bisacquino. Il grottesco, l’inverosimile di quella fantasticheria, come la chiamò l’avv. fiscale, che apparvero evidenti ad un umile sotto-prefetto, non trasparirono menomamente innanzi agli occhi del Presidente del Consiglio.....?
Il secondo documento, ch’è passato alla storia sotto il nomignolo di firmatissimo, ha una origine più scellerata e più comica ad un tempo e servì a fini iniqui, e l’avervi prestato fede, e ancora di più l’aver mentito dichiarandolo firmatissimo costituisce una delle grandi vergogne per l’on. Crispi.[441]
A dimostrare quale importanza egli vi annettesse riproduco integralmente il brano del discorso da lui pronunziato alla Camera dei Deputati, il giorno 28 febbraio; di quel discorso in cui si valse—precipuamente a falsare l’opinione della Camera e del paese a danno dei Fasci, e di De Felice e degli altri compagni—dei due cennati documenti. Dopo avere esposto il contenuto del trattato di Bisacquino, che fu accolto, secondo il resoconto ufficiale degli atti parlamentari, da commenti vivissimi, l’on. Crispi aggiunse:
«A dare un concetto dei proclami che si spargevano nei Comuni, ve ne leggerò uno solo che vale per tutti. (!)
«Operai! Figli del Vespro: Ancora dormite? Corriamo al carcere a liberare i fratelli! Morte al Re, agli impiegati. Abbasso le tasse. Fuoco al municipio e al casino dei civili. Evviva il fascio dei lavoratori! Quando le campane della Matrice e del Salvatore suoneranno, assieme corriamo armati al castello, che tutto è pronto per la libertà.»
«Attenti al segnale!» (Impressione.)
Prampolini. È firmato?
Crispi, presidente del Consiglio. È firmatissimo! (Ilarità).
C’è anche il nome del Comune. Tutto risulterà dal processo.»
Or bene: è falso che quell’appello sia stato sparso nei comuni dell’isola; è falso che sia stato pubblicato e letto da qualcuno, meno che dal suo autore, da un delegato di P. S. e dai magistrati che se ne occuparono; è falso che fosse nonchè firmatissimo, neppure... firmato. Di vero non c’è che il nome del Comune in cui venne manipolato. Ma eccone la storia, che rappresenta un breve intermezzo comico-erotico, in questo dramma siciliano dai tragici episodî,[442] che in un paese di uomini liberi avrebbe abbattuto il ministro.
In Petralia Soprana—provincia di Palermo—c’era un disgraziato vice cancelliere di pretura perdutamente innamorato della moglie di un agiato pastaio del luogo, certo Alessi. La donna, tanto bella quanto onesta, aveva replicatamente respinto le profferte del vice-cancelliere; il quale nel suo furore erotico arrivò a minacciarla di ridurla in condizioni da doverglisi dare a discrezione. E l’immondo satiro ricorse ad un diabolico mezzo: scrisse il manifesto agli operai figli del Vespro—il manifesto firmatissimo,—e lo mandò per posta allo indirizzo del marito della sua amata, l’Alessi; poi con una lettera anonima denunzia lo stesso Alessi alle autorità del luogo come uno dei promotori più pericolosi dei disordini, e in prova della realtà del fatto denunziato avvisa che proprio in quel giorno allo Alessi doveva arrivare per la posta un manifesto rivoluzionario. In questa guisa il vice-cancelliere sperò fare arrestare l’incomodo marito e avere nelle sue braccia la moglie.
Si era nel periodo più acuto dei tumulti, e le autorità di Petralia Soprana credettero di salvare la patria, corsero alla posta, sequestrarono la lettera indirizzata all’Alessi, e in base al manifesto rivoluzionario sequestrato procedettero al suo arresto. A questo punto la moglie dell’Alessi intravvede le trame inique e denunzia tutto alle stesse autorità, che onestamente e rapidamente ripararono al mal fatto arrestando il vice-cancelliere; il quale confessò tutto, cercando di scusarsi con la follia amorosa.
Pochi mesi dopo il vice cancelliere di Petralia Soprana venne condannato dal Tribunale di Termini[443] Imerese come autore del manifesto firmatissimo a tre anni di reclusione....
E qui mi fermo senza commentare ulteriormente questi indecorosi documenti, in base ai quali si strapparono voti iniqui alla Camera dei deputati; mi fermo, perchè dovrei adoperare roventi parole contro l’on. Crispi, del quale non si può abbastanza deplorare la... leggerezza.
Lo stesso on. Crispi, il 9 Marzo, discutendosi la domanda di autorizzazione a procedere contro l’onorevole De Felice, dopo che da me era stata fatta la storia del firmatissimo, osò continuare a prestarvi fede ed uscì in queste dichiarazioni testuali:
... «Si oppugnò a torto un documento del quale vi diedi lettura: e che, del resto, non è il solo, perchè ne ho qui molti altri più importanti di quello, che per prudenza e per sentimento di giustizia non volli leggere. Se li avessi letti, sarei stato fatto segno all’accusa di voler pesare, con la mia parola, sopra atti dell’autorità giudiziaria, la cui indipendenza voglio resti impregiudicata.
..... «In altra occasione, quando i processi saranno terminati, dirò tutto, e meraviglierò anche la Camera con la storia degli avvenimenti siciliani. Allora gli interruttori potranno sfogarsi a lor guisa, imperocchè non ci sarà più pericolo per gl’imputati.»
La tenerezza dell’on. Crispi per gl’imputati in quella occasione fu appresa come un prodigio incredibile; che dire poi del suo delicatissimo riserbo di non voler leggere i molti altri documenti più importanti, dopo che ne aveva letti due, che riteneva i più gravi, e che erano falsi? Che dire di un riserbo che... dura tutt’ora, quando i processi sono finiti e la pubblicazione dei documenti, che dovranno meravigliare la Camera, potrebbe essere fatta senza[444] pericolo per gl’imputati, che per dodici, per sedici, per diciotto anni sono al sicuro... nelle sinistre celle dei varî penitenziari d’Italia? Ed è da sperarsi, che l’on. Crispi li verrà a leggere alla Camera, non essendo stati letti nei processi, a difesa del proprio decoro e della propria serietà, onde il paese apprenda che per davvero l’on. Crispi fu generoso verso gl’imputati, non avendo voluto dare al magistrato documenti che avrebbero potuto aggravare le pene alle quali furono condannati e che forse li avrebbero potuto far condannare a morte da un Tribunale militare che punisce con un Codice in cui la pena di morte è conservata...
Pervenuta al termine la discussione sui casi di Sicilia, e venuti in luce i fatti, le accuse e i documenti che le suffragavano, tutti si attendevano che il governo fosse venuto a chiedere un bill d’indennità—che in Inghilterra e dovunque c’è regime costituzionale, si ritenne sempre indispensabile dopo la sospensione delle guarentigie costituzionali, anche quando la medesima sia stata ordinata con legge del Parlamento—bill d’indennità, che, secondo il Majorana, ha un doppio carattere: giuridico, al fine di togliere qualunque azione possa spettare ai cittadini per tutte le violazioni di leggi comuni e statuti normali in cui il governo sia incorso; politico, per fare sanzionare l’opera di questo dal sovrano sindacato parlamentare.
Molti, anche avversarî del Ministero presieduto dall’on. Crispi, tenendo conto delle eccezionalità dei casi e della bontà delle intenzioni, erano disposti a concedere detto bill d’indennità.
L’on. Ambrosoli in nome della destra pure lo accordava,[445] chiedendo, però, che una legge, a somiglianza della francese, regolasse lo Stato di assedio; accordavalo l’on. Martini in nome del centro sinistro, negando un voto politico e chiarendo erronei i precedenti invocati dall’on. Crispi, e voleva darlo l’Arcoleo, pur ritenendo—egli professore di diritto costituzionale—che fosse quasi incompatibile lo Stato di assedio con la ordinaria funzione del Parlamento.
E il meno che poteva fare il Presidente del Consiglio, a propria giustificazione, si era di convocare il Parlamento, dopo la violazione dello Statuto o di tutte le leggi durante lo Stato d’assedio, per chiedere il bill d’indennità.
Questo avrebbe dovuto e potuto bastare a qualunque Ministro ed a qualunque Ministero, ma l’onorevole Crispi, disse l’on. Imbriani, respinse per alterigia abituale il bill d’indennità e chiese un voto politico esplicito, che ne approvasse la condotta e stabilisse che tutto era proceduto conforme a legge. Ciò sembrava enorme e contrario a tutti i precedenti parlamentari, anche italiani, e si ricordava come in altri tempi si giudicò temerario l’on. Nicotera, che bill d’indennità chiedesse per ciò che aveva fatto nella stessa Sicilia; ed aveva fatto assai di meno e di meno peggio dell’on. Crispi (Zini op. cit. p. 47 e 48). Altri tempi!
Ora, la Camera dette ragione al Presidente del Consiglio, eliminò il bill d’indennità, e con 342 voti favorevoli contro 45 contrarî e 22 astensioni approvò quest’ordine del giorno presentato dell’on. Damiani e accettato del governo:
«La Camera, approvando l’azione del Governo, diretta alla tutela della pace pubblica, confida ch’esso saprà definitivamente[446] assicurarla con opportuni provvedimenti legislativi, e passa all’ordine del giorno.»
La enorme maggioranza, che approvò la condotta del governo non lasciava luogo a sperare—nella sua resipiscenza nella grave quistione che le venne innanzi il giorno 8 Marzo—per la autorizzazione a procedere contro l’on. De Felice e per la convalidazione del suo arresto.
Qui erano in giuoco le prerogative della Camera, delle quali, dal 1848 in poi, essa si era mostrata sempre gelosa. Ma a nulla valsero le osservazioni di Cavallotti, di Barzilai, di Imbriani, di Sacchi, di Altobelli, di Merlani, mie e dello stesso Palberti, ch’era relatore delle Commissione nominata dagli ufficî della Camera dei Deputati per esaminare la domanda di autorizzazione a procedere presentata dal Regio Procuratore presso il Tribunale di Palermo.
Non valse che io dimostrassi che le accuse si fondavano sopra documenti ridicoli come il trattato di Bisacquino, o infami come il firmatissimo; che lo stesso Procuratore del Re, costatando la lunga lotta in seno del Comitato dei Fasci alla vigilia della proclamazione dello Stato d’assedio, escludeva implicitamente l’azione dello stesso Comitato e dell’on. De Felice nei moti di Sicilia; che lo stesso pubblico accusatore non avesse potuto dimostrare un sol caso di azione diretta del rappresentante per Catania nei tumulti; che aveva torto l’on. Palberti ad ammettere la esistenza di depositi di armi vecchie e nuove sulla semplice assicurazione del questore Lucchese. Non valse che l’on. Sacchi collo esame della corrispondenza tra l’on. De Felice e il[447] Cipriani—il cavallo di battaglia del processo e dell’accusa di alto tradimento—avesse luminosamente provata la inesistenza dei mezzi idonei per provocare la rivoluzione. Non valse che l’on. Barzilai avesse esposto i casi numerosi (Luzzi, Carbonelli, Costa, Francica, Bonajuto, Dotto ec.) nei quali la Camera, contro il parere dell’on. Palberti e della maggioranza della Commissione di cui era relatore, era entrata nel merito della domanda di autorizzazione a procedere. Non valse che lo stesso on. Sacchi avesse ricordato il parere del più grande e autorevole commentatore delle leggi inglesi, il Blackstone, sulla prerogativa parlamentare, che la Camera inglese non volle mai definita da leggi speciali affinchè, di caso in caso essa ne facesse quell’uso che nel suo sovrano apprezzamento le sembrasse conveniente; a nulla valsero tanti sforzi: la Camera accordò l’autorizzazione a procedere perchè il governo la voleva.
La lotta della quistione dell’autorizzazione a procedere passò in terreno ancora più favorevole ai difensori dell’on. De Felice quando si discusse della convalidazione dell’arresto. Rammentò opportunamente l’on. Imbriani, che nel 1848, quando fu eletto deputato Didaco Pellegrini, nella Camera, appena se ne pronunziò il nome, alcuni deputati si alzarono per domandare se fosse già stato messo in libertà, trovandosi in carcere il Pellegrini sotto accusa di Stato. Il Ministro Pinelli riconobbe il diritto della Camera ed immediatamente ordinò la escarcerazione. Tali nobili e liberali tradizioni del Parlamento subalpino non esercitarono influenza sulla Camera del 1894.[448]
Se altra volta si era ordinata la liberazione di chi era stato eletto mentre era in prigione, ora si violava evidentemente l’art. 45 dello Statuto arrestando il De Felice, mentre era deputato. Vero è che lo stesso articolo sottrae dalla prerogativa il caso della flagranza; ma questa derogazione, osservò l’on. Barzilai, ha la sua ragione potente: nel caso della flagranza l’evidenza della prova distrugge ogni sospetto di un arbitrio, di una ingerenza indebita a danno del deputato. Ora, a danno dell’on. De Felice, erano evidenti non la flagranza—che nessuno seppe dimostrare e che l’on. Palberti tanto condiscendente verso il governo ridusse alla quasi flagranza e alle considerazioni di convenienza politica,—ma l’arbitrio e la ingerenza indebita del governo per odiosi e partigiani motivi politici; per quei motivi, che appunto hanno fatto consacrare nello Statuto la prerogativa parlamentare dell’art. 45!
Se c’era un caso, adunque, in cui la escarcerazione avrebbe dovuto ordinarsi ai sensi di quell’articolo era proprio questo dell’on. De Felice. E indarno l’on. Cavallotti su questa questione della prerogativa parlamentare provò che la giurisprudenza costante della Camera e il voto di due commissioni solenni—quella del 1855 e l’altra del 1870—di cui facevano parte il senatore Cadorna, Valerio, Mancini, Biancheri, davano completa ragione all’on. De Felice e mostravano che i nemici dello Statuto, dei plebisciti e delle leggi, gli adulteratori della storia erano al banco dei ministri; indarno! La Camera che nel 1869, tenera delle proprie prerogative, non volle ammettere la flagranza a danno dell’on. Majorana Cucuzzella accusato di assassinio e accettò[449] la divisa della sua Commissione: in dubiis pro libertate; nel 1894 la riconobbe in odio all’on. De Felice accusato di reato politico.
Concessa l’autorizzazione a procedere; riconosciuta la flagranza, e convalidato perciò l’arresto dell’on. De Felice, si sperava infine che la Camera non si volesse coprire di vergogna riconoscendo la retroattività dei Tribunali di guerra, sanzionando la più iniqua ed erronea violazione delle leggi e dello Statuto. Era lecito sperare, che la Camera a questo punto si sarebbe arrestata sulla china vergognosa delle concessioni, e del proprio esautoramento; perchè il relatore onorevole Palberti in nome della Commissione—in maggioranza composta di amici del governo—aveva affermata manifestamente la propria ripugnanza ad arrivare sino a quel punto. Ma l’on. Palberti affermava il principio, la teoria, esprimeva il desiderio; però non osava formulare recisamente la proposta per ottenere che l’on. De Felice venisse sottratto alla illecita giurisdizione dei Tribunali militari, e si limitò a sperare nella equanimità del governo e sperò eziandio, che su questa quistione il governo si sarebbe astenuto, disinteressandosene, come aveva fatto sempre pel passato in tutte le quistioni, che toccano i diritti e le garenzie del Parlamento. Ma egli stesso dovette riconoscere che le sue speranze furono una illusione e dovette sentirsi dire dall’on. Cavallotti non essere giusto, non essere bello dimostrare che una cosa è iniqua e non avere il coraggio di proclamarlo.
D’onde la incertezza e la condotta fiacca dell’onorevole Palberti e della Commissione? Dal timore[450] e dallo scrupolo d’invadere il campo della magistratura, di preoccuparne le decisioni e di sollevare anche un conflitto tra la Camera dei Deputati e la Corte di Cassazione; poichè in quei giorni si attendeva la decisione della Suprema Corte sui ricorsi contro la competenza dei Tribunali militari, e si trovava sconveniente da un lato indicare alla medesima la via da battere; e dall’altro non si sapeva trovare una uscita corretta nel caso che il giudicato della Cassazione riuscisse contrario al voto della Camera dei deputati.
Quanto poco valore dovessero avere quegli scrupoli lo dimostrò lo stesso on. Palberti, che cortesemente rimproverò al guardasigilli la pressione esercitata sull’alta magistratura, annunziando lui la risoluzione che esso avrebbe dato al difficile quesito che le era stato sottoposto. Così era lecito al governo venir meno ai riguardi dovuti alla suprema magistratura per farle commettere una enorme iniquità; ma la Camera, doveva usare tutti i riguardi verso la prima e rinunziare ai propri diritti e alle proprie prerogative in danno di una causa giusta!
Che la decisione della Camera non potesse nè invadere il campo della magistratura, nè lederne i diritti, nè menomarne la indipendenza, nè sollevare conflitti colla medesima ce lo apprese la sentenza della stessa Corte di Cassazione nel ricorso De Felice e C., nella quale si riconobbe che essa non si permetteva di entrare in apprezzamenti di indole politica, sull’alta ragione di Stato che aveva potuto consigliare lo Stato d’assedio con tutte le sue conseguenze, e che lasciava di giudicarne alla competente autorità politica,[451] cioè al Parlamento, che se n’era rimesso alla Cassazione! Da Caifas a Pilato...
E così la Camera dette l’ultimo passo sulla via dell’approvazione degli arbitri sterminati, e accettando i comodi ed onesti scrupoli dell’on. Palberti, lasciò che governo e Cassazione vedessero loro in quanto alle competenze dei Tribunali militari; e l’una e l’altra provvidero... nel modo conosciuto.
Tutto questo era fatto per rattristare profondamente l’animo di coloro che amano la libertà e che vorrebbero vedere l’Italia procedere per le vie della rettitudine in politica e nel delicatissimo campo della amministrazione della giustizia; ma la Camera e il governo nello stesso giorno in cui si passava sopra a tutte le illegalità e le enormezze commesse in Sicilia, recitava una farsa che destava una nausea invincibile: nel giorno 9 marzo infatti, dopo avere emesso l’autorizzazione a procedere contro l’on. De Felice, averne convalidato l’arresto e consentito che venisse sottratto ai giudici naturali e sottoposto ai Tribunali militari, con una ipocrisia veramente fenomenale respinse due altre domande di autorizzazione a procedere contro lo stesso on. De Felice per due discorsi-reati pronunziati a Pedara e a Casteltermini, e che formavano parte integrale dell’accusa che lo condusse innanzi al Tribunale di Palermo e da questo alla reclusione per diciotto anni...
Due cose in questa farsa indegna furono notevoli: la generosità dell’on. Crispi che dichiarò disinteressarsi di queste due altre domande di autorizzazione a procedere e la premura delicatissima dell’on. Canegallo, che volle si sapesse dalla Camera e dal[452] paese che esso in seno alla Commissione, contro la maggioranza, aveva votato in favore della concessione. All’uno e all’altro la corona civica non dovrebbe mancare.
Verso la Camera dei deputati fui severo nel libro Banche e Parlamento, esaminandone la condotta e la responsabilità nelle quistioni degli scandali della Banca Romana e in quella della legge sul riordinamento degli istituti di emissione; non potrei essere altrettanto severo in questa occasione dei casi di Sicilia, quantunque non siano stati meno ingiusti e meno esiziali alla vita pubblica italiana i voti dati secondo le richieste e la volontà del governo.
Non mancarono i deputati servili, quei deputati che furono in altri tempi fieramente flagellati dall’onorevole Crispi, che votarono favorevolmente al governo per l’abituale servilismo che li distingue per motivi non nominabili; ma giustizia vuole che io dica che molti altri, pur addolorati dello strazio fatto dello statuto e delle pubbliche libertà, approvarono l’opera del governo sotto l’incubo di preoccupazioni di ordine politico elevatissimo. In molti infatti era sincera la convinzione che gli eccessi commessi dal governo dell’on. Crispi, fossero una dolorosa necessità non solo per ristabilire l’ordine pubblico, ma anche per conservare l’integrità della patria! Essi che avevano un’idea iperbolica della entità dei pericoli corsi dell’Italia, guardarono al successo rapido e immediato del governo e ne rimasero ammirati senza guardare ai mezzi adoperati per ottenerlo. Invece, i mezzi sinora adoperati creano pericoli veri, e servono soltanto alla reazione bieca, che tanto più impunemente e sicuramente se ne[453] giova in quanto che all’ombra del vecchio patriottismo e della qualità di siciliano dell’on. Crispi molte forze vive che avrebbero potuto opporre una diga o sono state neutralizzate anch’esse dalla paura dell’immaginario pericolo corso, o rimasero inerti perchè non sanno ribellarsi a chi considerarono per tanti anni come capo ed amico e che oggi riprovano in fondo dell’animo loro senza avere il coraggio di rendere palese il proprio pensiero.
Conosciuto il movente del successo parlamentare ed anche extra-parlamentare dell’on. Crispi, mi rimane l’ultimo compito increscioso: esaminare se esso rispondeva al vero e completare l’esame obbiettivo coi confronti storici invocati dall’on. Crispi a giustificazione della sua azione e ridotti alle loro giuste proporzioni, cioè a nulla, dagli on. Cavallotti, Altobelli, Comandini ecc.
Che il pericolo in Sicilia per la integrità della patria fosse grande, più volte l’on. Crispi lo dichiarò, e fece comprendere che dell’ordine stabilito gli si doveva tanta se non maggiore riconoscenza quanto della spedizione liberatrice dei Mille. Il fatto, dall’on. Guardasigilli si tentò di giustificare con quella teoria di diritto pubblico, che ritiene legittimi lo Stato di assedio e le misure eccezionali a difesa della esistenza dello stato, come legittima ogni violenza si riconosce negli individui a difesa della propria esistenza. (Seduta della Camera dei Deputati del 28 Febbraio 1894).
Gli epigoni completarono l’accenno del Ministro Calenda dei Tavani facendosi forti dell’autorità di Bluntschli, che nei seguenti termini ha formulato tale teoria: «In tempo di guerra o di sedizione la[454] istituzione del Consiglio di guerra, può essere una pubblica necessità per la salute dello Stato. Quando si tratta di salvare lo stato e la salvezza non è possibile senza violare i diritti dei privati od anche di tutta una classe della popolazione, allora il governo non può e non deve per risparmiare quella, far perire questo, ma deve anzi far tutto ciò ch’è necessario alla conservazione colla salvezza dello stato. Su di ciò si fonda il cosidetto potere eccezionale, il diritto di necessità del governo, che corrisponde al diritto di necessità del popolo.»
Nell’applicazione, questa teoria s’infrange di fronte alla quistione della misura e della opportunità di invocarla; poichè chi governa è sempre tentato di ricorrervi ad ogni difficoltà che incontra e che tanto più facilmente vi ricorrono gli uomini impari alla situazione. Il primo venuto, diceva Cavour, può governare collo stato di assedio!
Cavour in Italia non fa più scuola, è quasi considerato come un anarchico; i Tedeschi invece, sono di moda—s’intende, non quelli della democrazia sociale—e ad un Tedesco, perciò, ad un professore e Consigliere aulico me ne appellerò per mostrare le enormità di tale teoria e i pericoli, che si annidano in seno della medesima. A Bluntschli contropporrò Holtzendorff. Il quale osserva: che non c’è illegalità, non c’è attentato contro il diritto, che non si possa dorare sotto il pretesto dell’interesse dello stato. «Questa teoria del bene pubblico, colla sua pericolosa massima: salus publica suprema lex est, non offre alcuna base per la politica pratica... In nome di tale teoria ci fu un governo—non tedesco—che proibì l’uso dei fiammiferi, perchè[455] facevano aumentare gl’incendî e in alcune parti della Germania non si permise ai contadini la danza più di tre volte in un anno per impedire la demoralizzazione!»
Lo stesso compianto professore dell’Università di Monaco, elevandosi in una sfera ancora più generale e più nobile, raccomandò quasi quell’azione cosidetta sovversiva presa oggi di mira da coloro che operano e legiferano in nome della salute della patria, scrivendo: «nei codici penali si perpetua il pensiero, che i sentimenti dei cittadini devono essere regolati e ordinati da parte dello stato e che l’eccitamento all’odio e al disprezzo stesso delle cose e delle istituzioni odiose e spregevoli merita tutti i rigori della legge.
«Alcuni Stati, che si dicono cristiani e tedeschi, obbliarono, sotto pretesto del bene pubblico, che l’apostolo condanna in nome della morale il fatto di non sapere odiare ciò ch’è male.» (Principes de la politique p. 116, 117 e 119).
Non si direbbe che queste parole dello scienziato tedesco siano state scritte a difesa di coloro, che furono accusati di eccitamento all’odio di ciò ch’era odioso e spregevole, del male, cioè: della oppressione dei lavoratori siciliani?
Ma questa teoria non riesce semplicemente pericolosa ai cittadini, i cui diritti sono esposti all’arbitrio del governo; ma spesso riesce pericolosa al governo stesso, che la invoca; poichè il Royer-Collard—un altro pericoloso anarchico!—tanti anni fa ricordava, che le leggi eccezionali sono come i prestiti ad usura: presto o tardi chi se ne serve si rovina completamente. Già lo stesso Bluntschli[456] parlò di un diritto di necessità del popolo, che sta di fronte e limita il diritto di necessità del governo e che corrisponde al diritto sopra costituzionale dell’Hallam. Quando il governo ricorse alle violenze delle leggi di eccezioni, come si fece sotto Carlo X colle ordinanze di luglio, e sotto Luigi Filippo colla proibizione dei banchetti parlamentari, il popolo rispose colle barricate e vinse. I casi della Francia si sono ripetuti e si potranno ripetere altrove...
Ciò premesso sul conto della teoria e dei suoi possibili risultati, brevemente si dica della opportunità della invocazione della salus patriae, poichè se essa fu opportuna realmente tutto il resto cade e l’opera dell’on. Crispi—quali che abbiano potuto essere gli eccessi, le violenze e gli arbitri contro i cittadini e quanto abbia potuto essere la manomissione delle leggi e delle pubbliche libertà, rimane giustificata e rimane come un suo titolo di gloria; e s’intende che lo esame non va fatto dal punto di vista di coloro che vorrebbero mutato l’ordinamento politico-sociale attuale dello stato, ma dal punto di vista strettamente legale della conservazione delle vigenti istituzioni.
Esisteva realmente il pericolo della integrità della patria? Lo affermò il trattato di Bisacquino, e coloro che si valsero di quel documento oggi se ne vergognano e lo ripudiano.
Esisteva il pericolo per le istituzioni? È strano che lo si abbia trovato in dimostrazioni e tumulti avvenuti al grido di: Viva il Re! quando si portarono in giro i ritratti dei Sovrani; quando affermavasi che il governo guardava con simpatia ai dimostranti, stanco com’era di vederli opprimere[457] dalle consorterie locali e dall’egoismo dei grandi proprietari; quando si sperava che il figlio del Re e lo stesso on. Crispi sarebbero venuti a capitanarli—Questa la voce, che correva a Palma Montechiaro. E furono precisamente le sentenze dei Tribunali militari, che constatarono l’assenza di ogni carattere politico nei moti, che essi furono destinati a punire. C’erano forze incoscienti ma organizzate, che a momento opportuno avrebbero potuto essere adoperate dai malintenzionati ai loro fini sovversivi, volgendo a loro benefizio, la ingenuità stessa dei tumultuanti? I famosi 300,000 soci dei Fasci erano un esercito sulla carta; esercito immaginario non solo, ma inerme assolutamente, privo di qualunque mezzo per l’attacco o per la resistenza.[79] E furon gli stessi Tribunali militari, osserva l’on. Prof. Lucchini, a ridurre a proporzioni ridicole il pericolo,[458] che li fece sorgere! E che il pericolo fosse insussistente risulta, infine, da un dato di capitale importanza; l’on. Comandini ripetè nella Camera dei deputati ciò che aveva pubblicato nel Corriere della sera, senza che nessuno lo smentisse e cioè: che lo stesso generale Morra il 3 gennajo 1894 neppur lui avesse ritenuto opportuna, necessaria la proclamazione dello Stato di assedio e che aveva ceduto alle insistenze del potere centrale; il quale, era assediato e ipnotizzato in Roma, dai campioni della reazione.
La insussistenza del pericolo, la inopportunità della invocazione della salus patriae e dei conseguenti provvedimenti eccezionali e la mancanza di misura nell’uso dei medesimi, risultano meglio e con maggiore evidenza dal confronto tra i casi recenti di Sicilia e gli altri nei quali il regno Sardo prima e il regno d’Italia dopo, per motivi politici e sociali, si trovarono in condizioni di invocare tale massima.
Nel 1849, lo Stato di assedio viene proclamato a Genova. Le cause che lo determinarono erano assai più gravi di quelle di Sicilia. Da un lato c’era la guerra collo straniero, coll’Austria; dall’altro c’era una grande città, che fatta la rivoluzione si era proclamata repubblica e si era distaccata dal Piemonte. Genova aveva già un governo nemico a quello che sedeva a Torino; aveva forze organizzate, che opposero resistenza, e la città si dovette bombardare e prendere di assalto. La proclamazione dello Stato di assedio era legale, perchè il Parlamento il 29 luglio 1848 aveva dato i pieni poteri al governo con una legge, nella quale però si diceva:[459] salve le guarentigie costituzionali. C’era nulla di simile in Sicilia nel 1894? Eppure il generale Lamarmora, i cui poteri erano assai più legittimi di quelli del generale Morra, nel suo proclama accennò alla possibilità dei Tribunali militari; ma non li istituì, e allora forse potevasi parlare di un nemico col quale si era in guerra!
Nel 1852, Sassari insorge e vi si proclama lo Stato di assedio; due eserciti stanno di fronte: la guardia nazionale da un lato e il regio esercito stanziale dall’altro. Eppure non furono soppressi i magistrati ordinarî, non furono istituiti i tribunali militari! Di più: il ministro dell’interno Pernati fece alla Camera dei deputati queste dichiarazioni—opportunamente ricordate dall’on. Altobelli—che suonano aspra rampogna all’on. Crispi. Il ministro sostenne di non avere avuto bisogno di farsi autorizzare dal Parlamento per proclamare lo Stato di assedio perchè non aveva violato lo statuto e soggiunse:
«Ma diverso sarebbe il caso della sospensione dell’articolo 71 dello Statuto, che garentisce la libertà individuale in guisa che nessuno può esser sottratto ai suoi giudici naturali. Se dunque una dichiarazione di stato d’assedio assorbisse il potere giudiziario, e lo concentrasse in altra autorità, egli è certo che si toccherebbe allo Statuto. In tal caso il Governo dovrebbe chiedere PREVENTIVAMENTE l’assenso del Parlamento, od almeno, qualora l’urgenza lo costringesse ad agire senza indugio, dovrebbe riferire, in seguito, il suo operato al Parlamento per la convalidazione, e per avere un BILL d’indennità.»
Nel 1862, lo Stato di assedio viene proclamato in Sicilia e nel Napoletano. Perchè? Un esercito meridionale era risorto al di fuori dell’autorità del governo[460] e contro gli ordini espressi del Capo dello Stato. Quell’esercito era capitanato da Garibaldi e provocava diserzioni numerose nelle fila dell’esercito; il potente vicino impero francese esigeva che si arrestasse la marcia su Roma. Qualche imprudente ha detto che ogni paragone tra Garibaldi e De Felice—tra l’esercito dei volontari che volevano la liberazione di Roma e i tumultuanti che volevano la liberazione dalle tirannidi locali e il miglioramento economico—era impossibile. Sia. Eppure l’ente governo, sempre disposto ad abusare del salus patriae, trattò alla stessa stregua i nemici del 1862 e quelli del 1894; chiamò tutti disfacitori dell’Italia e ribelli. E quelli la cui missione viene ora dichiarata più nobile furono puniti più severamente e più iniquamente: la ferita di Aspromonte e i fucilati di Fantina ne fanno fede. Ad ogni modo la misura del pericolo nel 1862—e lo stesso si potrebbe dire pel 1867, quando l’esercito dei volontari con Garibaldi si rimise in marcia verso Roma e venne arrestato a Mentana—non era identica a quella del 1894, e l’uguaglianza del provvedimento, perciò, rimane ingiustificabile. Ed uguale rimane la protesta in Parlamento; sulla quale Cavallotti osservò:
«Pigliate i resoconti di quella memoranda discussione su l’interpellanza Boncompagni: al banco del Governo, al posto di Rattazzi, mettete Crispi; poi qui all’estrema, al posto del Nicotera d’allora, mettete Bovio; al posto di Mordini, mettete Colajanni; al posto del perpetuo e violento interruttore di allora, ch’era l’onorevole Crispi, mettete Imbriani, (Ilarità) e voi avrete la discussione di quei giorni, completamente, fotograficamente riprodotta.»
Nel 1863-64, provvedimenti eccezionali vengono presi per le provincie meridionali.[461]
«Allora sì, fu un momento per l’Italia ben più grave, ben più scuro di adesso. Era il momento in cui il brigantaggio infuriava per tutto il Mezzogiorno: non i quaranta o cinquanta o cento matti della Lunigiana, ma bande organizzate di briganti scorazzavano tutto il Mezzodì, assalivano e uccidevano i nostri soldati, entravano da conquistatori nelle terre e nei paesi. Era la guerra civile nel vero, terribile senso della parola, che aveva qui in Roma il suo quartiere generale; da qui il re di Napoli dirigeva le mosse, nominava i capitani; da qui la reazione mandava i denari. Ci poteva essere un caso più grave, nel quale il governo fosse tentato per la salus reipublicae di procedere per mezzi spicci, rigorosi, terribili? Ebbene, il Governo venne innanzi al Parlamento, e, come l’urgenza cresceva, si stralciarono, per far presto, dal progetto di legge per la repressione del brigantaggio pochi articoli che il Parlamento discusse e votò, e che formarono la legge Pica.»
«Che cos’era questa terribile legge? Il suo primo articolo diceva questo solo: «Fino al 31 dicembre nelle Provincie infestate dal brigantaggio e che tali saranno dichiarate con Decreto Reale, i componenti comitiva o banda armata di almeno tre persone che vada scorrendo le pubbliche strade o le campagne, per commettere crimini o delitti, saranno giudicati dai tribunali militari di cui nel libro II, parte II, del Codice penale militare».
«Era il meno che si potesse chiedere in un caso di vera guerra civile, ed era chiesto per legge. Ebbene, l’onorevole Crispi lo trovava enorme!» (Cavallotti)
Le condizioni nel 1862-63, adunque, erano più gravi che nel 1894; eppure i provvedimenti eccezionali, furono assai meno rigorosi di quelli del 1894: ai briganti si consentì la difesa civile negata ai socialisti, e quei provvedimenti infine furono consentiti preventivamente dal Parlamento.
Nel 1866, lo Stato d’assedio viene proclamato in Palermo. Allora la guerra coll’Austria era appena cessata e la pace non era stata ancora segnata:[462] quella città delle grandi iniziative e delle barricate, che nel 1894 si mantenne completamente tranquilla, era in piena insurrezione, in potere dei ribelli armati, che avevano costretto a rinchiudersi nel Palazzo reale la legittima autorità; oppose fiera e sanguinosa resistenza alle truppe e alla flotta mandate per ristabilire l’ordine e fu necessario bombardarla per domarla. Lo Stato d’assedio potevasi legittimamente proclamarlo, perchè il governo aveva avuto concessi poteri straordinarî dalla legge, di cui fu relatore eloquente lo stesso onorevole Crispi, che trovò allora occasione di dichiarare solennemente:
«io sempre amerò la libertà e mi opporrò ai pieni poteri. Credo che la libertà meglio di qualunque intelligente dittatura sia la sola feconda pel trionfo dell’unità nazionale.»
Eppure l’on. Presidente del Consiglio di allora, il Ricasoli, si affrettò a togliere lo Stato di assedio (lui, che non lo aveva imposto!) prima che si riaprissero le Camere.
Accanto a questi casi nei quali furono presi provvedimenti eccezionali e in condizioni e per ragioni tali e in tale misura che riescono a far condannare severamente chi li prese e quali li prese nel 1894, alcuni altri ve ne sono, nei quali sebbene con più ragione si sarebbe potuto invocare la giaculatoria del salus patriae, pure non si ricorse a provvedimenti eccezionali.
A Genova nel 1857 si tenta una insurrezione, s’invade il forte Diamante, si uccide un sergente, bande armate percorrono i dintorni delle città; ma non si proclama lo Stato di assedio. Nel 1869 una vasta cospirazione repubblicana si scopre nelle file dell’esercito, ch’è veramente minato e non si ricorre a misure eccezionali. Nel 1870 ben dodici[463] provincie sono in disordine, vi sono insurrezioni nelle caserme—a Pavia ed a Piacenza—si dovette arrestare Giuseppe Mazzini allo sbarco in Sicilia; ma non si proclama lo Stato di assedio. La condotta dei conservatori allora fu tale che l’on. Comandini potè buttare in faccia ai liberali di oggi le parole pronunziate da Marco Minghetti nel 1875 nel difendere la legge straordinaria proposta appunto per la Sicilia: «la mia dottrina, la mia coscienza, la tradizione del mio partito mi consigliano di rifuggire dal ricorrere a mezzi eccezionali; tutto si deve sempre domandare ed ottenere dal Parlamento.»
Argomento a più melanconiche riflessioni è il fatto che la reazione non si è limitata alla Sicilia; nè è seguita ai folli e criminosi atti di Caserio e di Lega. Gli avvenimenti in Italia in ordine al tempo e allo spazio dicono che i moti di Sicilia e i crimini anarchici servirono di comodissimo pretesto per colorire il programma della reazione, ciò che prova luminosamente che la salus patriae fu invocata in malafede.
Guardate. Lega non aveva sparato il suo innocuo colpo e il guardasigilli aveva già da un pezzo diramate le sue circolari inculcanti una maggiore severità contro la stampa; e la epurazione delle liste elettorali era bene avviata;[80] e le liste di proscrizione[464] erano composte e i consigli dei giornali fedeli al governo si ripetevano con insistenza per porre argine a quella propaganda socialista, che[465] oggi si dichiara sovversiva e ieri serviva di bandiera nelle lotte elettorali ai ministri caduti ed a quelli risorti ed ai loro accoliti i quali blateravano con idillica ignoranza ed impudenza di un socialismo monarchico, che portava tanto di bollo dell’autorità superiore. I tumulti erano stati in Sicilia, ma le persecuzioni contro ogni libera manifestazione e gli scioglimenti dei sodalizî invisi e i sequestri e le minacce, infierivano in ogni parte d’Italia.
Lo Stato d’assedio legalmente viene tolto in Sicilia ma le norme e i criteri di governo non libero continuarono ad essere in vigore impunemente e sfacciatamente: a Palermo la questura chiama in ufficio Colnago ed altri giovani eletti e li ammonisce a moderare la loro propaganda; la censura telegrafica[466] continua; la soppressione dei giornali assume forma più odiosa, perchè più ipocrita; quella del sequestro sistematico, capriccioso, non motivato da alcun pretesto plausibile, come si pratica contro l’Unione di Catania; le armi non vengono restituite ai loro proprietarî: si mantengono a domicilio coatto coloro che vi furono mandati arbitrariamente.
Quando il pretesto alla reazione è eccellente—e lo danno gli anarchici—la reazione abbandona ogni riserbo e arriva al suo parossismo colle leggi antianarchiche pensatamente indeterminate—delle quali un alto magistrato, l’Auriti, aveva dichiarato non esservi bisogno per combattere i nemici della società. In Parlamento si promise con solennità eccezionale, che non si sarebbero applicate contro i socialisti, ma appena votate sono già state sperimentate colla proibizione dei congressi, coi sequestri dei giornali, collo scioglimento delle associazioni a danno dei socialisti, dei repubblicani, dei democratici più tiepidi, ma sinceri, sospettati soltanto di non essere abbastanza soddisfatti della delizie che il regime ci procura nell’ora presente. E non solo le leggi antianarchiche si applicano contro coloro che si era dichiarato solennemente non ne sarebbero stati le vittime, ma la magistratura educata alla scuola di un qualsiasi Morra di Lavriano dà a dette leggi, in materia di stampa, un effetto retroattivo, sollevando proteste, forse le ultime, in certe sfere non sospettabili di tenerezze per tutte le gradazioni del mondo cosidetto sovversivo.[81]
E la reazione trionfante ha trovato il suo uomo, l’on. Crispi: deciso, caparbio, senza scrupoli, facile alle promesse, alle lusinghe o alle minacce se più opportune soccorrono, ed anche simpatico ed affascinante per certe sue doti eminenti e perciò più pericoloso. E tale uomo rinunzia agli ultimi legami colla tradizione democratica e coi suoi precedenti democratici e per quello stesso opportunismo[468] che prima lo indusse ad inneggiare alla Dea Ragione ed a Giordano, a Napoli lo spinge a riconciliarsi col Papa e col Dio di Torquemada e di Lojola, e al clericalismo attonito, novello Costantino, bestemmiando di Mazzini, dà l’insegna: con Dio, col Re per la patria! e grida: in hoc signo vinces.
Ed ora si troveranno più amici e laudatori di Francesco Crispi, che oseranno negare ch’egli s’è gettato completamente ed entusiasticamente nelle braccia della reazione?...
Di quest’uomo testè Giovanni Bovio ha detto: «non ha partito e la Camera gli va incontro; si professa democratico e il Senato gli si piega ossequioso; non sollecitò il potere e gli scese incondizionato dall’alto; auspicò il monumento a Bruno e il Vaticano gli volge l’occhio salutevole. Il paese e la stampa che fanno? L’uno sotto la sua mano si addormenta; l’altra, in gran parte, lo seconda.»
Questa sintesi mirabile di contrasti risponde alla verità? Risponde; ma questo solo deve osservarsi, che l’uomo supera tutte le difficoltà, non perchè egli sia grande, ma soltanto perchè il paese e la sua rappresentanza sono piccoli. Il paese si addormentò e la stampa secondò altri uomini che di Crispi erano minori e che rispondevano ai nomi di Depretis e di Giolitti e che adoperarono mezzi ora uguali ora dissimili da quelli adoperati dall’attuale Presidente del Consiglio. Queste diversità negli uomini e nei mezzi e questa simiglianza nei risultati prova, che la ragione del successo sta al di fuori di essi.
Ciò si osserva non per acre voluttà di diminuire[469] un uomo; ma per quell’imperativo categorico, che impone l’omaggio alla verità: alla verità, che deve giovare non preparando illusioni nuove e dolorose col fare sperare salute dalla caduta di un uomo; che deve giovare non permettendo un errore nella diagnosi del male, e nella scelta dei rimedî.
Il male è nel paese e si rispecchia nella sua rappresentanza legale. Lo constatai un anno fa in Banche e Parlamento di fronte alla onnipotenza dell’on. Giolitti; lo constato qui, di fronte alla onnipotenza dell’on. Crispi; constatai l’aberrazione morale dilagante colla tregenda bancaria; constato l’aberrazione giuridica, politica e sociale incarnatasi nella reazione.
Lo scienziato, che vive al di fuori delle passioni politiche, il Brusa, pensoso dello spettacolo che danno le presenti vicende politiche, scrisse che i governanti d’Italia hanno pareggiato i Borboni, il prete e l’Austria; anche sorpassato. (op. cit. pag. 28 e 31). Un altro scienziato, il Lucchini, soggiunse che le violazioni dello Statuto pei casi di Sicilia e di Lunigiana in altri tempi avrebbero sollevato popolo e parlamento.
Così è, nessuno si solleva per le condizioni che riassunsi altra volta e che ora ripeto perchè non potrei mutare di una linea: «le istituzioni si liquidano, la corruzione dilaga, la miseria cresce, tutti soffrono e sono malcontenti; e ancora il popolo non sa come, quando, perchè insorgere e che cosa sostituire a ciò che sente ed intuisce di dover demolire!» (Banche e Parlamento p. 384).
Sarà sempre così? Non lo credo, e la speranza in un futuro migliore tanto più mi si fa viva nell’anima[470] quanto più audace si fa la reazione, quanto più essa infierisce contro il moto sociale che non si arresta mai.
Certo si passeranno momenti non lieti, ma la reazione capitanata da un Bismark fu doma la prima volta in Germania; rialza la testa altra volta, ma ricadrà più precipitosamente; la reazione armata del sentimento religioso, dell’odio di razza, dell’egoismo economico e maneggiata alternamente dai partiti storici dell’Inghilterra è stata costretta a capitolare in Irlanda.
In Italia la riscossa potrà essere più lenta e più tarda perchè la reversione atavica del servilismo ajuta efficacemente la reazione; ma la riscossa non può mancare.
[78] Il Generale Morra, più sincero dell’on. Crispi, non esitò a indicare i criterî seguiti nello invio a domicilio coatto. Egli infatti nella circolare di commiato ai prefetti mette da parte ogni riserbo e dice: «Quello che più di tutto interessa si è che la mala pianta dei sobillatori, dei sovvertitori dell’ordine pubblico e delle istituzioni, che ci reggono, non abbia a ripullulare ed estendersi. Gran parte e i più pericolosi in questo genere sono stati allontanati, sia perchè condannati, sia perchè a domicilio coatto...»
[79] Il generale Corsi aveva già accennato alle esagerazioni sulle forze dei Fasci e sui pericoli temuti. A tempo opportuno—oggi potrebbe procurare molestie a molti—narrerò un episodio tipico, che darà la certezza della assoluta inesistenza della cospirazione della organizzazione delle forze dei Fasci e della attribuita preveggente azione dei capi. A coloro, che non hanno seguito con attenzione i fatti da me esposti o li hanno dimenticati, ricorderò, che questi miei giudizi sulle forze dei Fasci, sulle loro mire politiche, sugli intendimenti separatisti e antinazionali ec. ec. non li accampo oggi per comodità di difesa dei miei amici; ma li precisai con crudezza di verismo, che dispiacque a molti, che credevano utile alla propaganda ogni esagerazione, e nella Grande Revue del gennajo 1893 e nella Rivista popolare di Roma e nel Secolo di Milano e nel Giornale di Sicilia di Palermo nello stesso anno e molti mesi prima, che si arrivasse ai tumulti—da me preveduti e preannunziati—che provocarono lo stato di assedio e la repressione.
[80] Ciò che avviene in fatto di liste colla nuova legge elettorale fatta votare dall’on. Crispi nelle sedute mattutine della Camera, fra la disattenzione e la nausea di tutti, è inaudito. All’on. Crispi che si vantava democraticamente di aver fatto votare l’art. 100 nella legge elettorale del 1882 oggi può assicurarsi la benevolenza dei suoi nuovi amici, i reazionarî, ricordando l’ultima legge del 1894, che il diritto elettorale quasi annulla. Non calunnio, non esagero; ecco come La Tribuna commenta alcune corrispondenze pervenutegli:
«Pubblichiamo su questa quistione delle liste elettorali la lettera di Capua per debito d’imparzialità e quella di Albano Labiale che prima ci è pervenuta per ordine cronologico. Ma se volessimo potremmo aggiungere qui sotto a diecine lettere e corrispondenze le quali ripetono press’appoco ciò che ci scrive il corrispondente di Albano Laziale e dimostrano che l’anarchia nella compilazione delle liste dovrà, anzi imperversare allegramente.
Molte commissioni elettorali si sono ostinate a seguire questo sistema di cancellare cioè tutti gli elettori, già inscritti, i quali non forniscono la documentazione del loro diritto elettorale.
Abbiamo già avvertito, quanto alle liste vecchie, che esse sono permanenti: che nella revisione straordinaria che si sta compiendo, coloro che sono già inscritti hanno per loro più che una presunzione di diritto: che se anche si vuole documentare il diritto elettorale, elettore per elettore, l’obbligo di ricercare, verificare, accertare i documenti spetta intero alle commissioni comunali: che queste non possono alla leggera disturbare i cittadini, quando esse hanno tutti i mezzi di verifica e di mutamento: infine che soltanto quando ogni prova e documento manchi, e se v’è reclamo o contestazione, allora solo le Commissioni debbono richiedere all’elettore di provare.
Le Commissioni dunque che si conducono come quella di Albano Laziale e come quella di Capua e come le altre, dalle quali ogni giorno ci si scrive, sono fuori della legge.
Noi non insistiamo di più, perchè non vogliamo ripeterci: chiediamo soltanto di nuovo e insistentemente una circolare esplicativa del ministero dell’interno che metta a posto le cose.
Altrimenti potrà avvenir questo fra l’altro: che gli arruffoni, e ve ne sono massime nei piccoli comuni, si metteranno in mezzo a procurare iscrizioni, a far reclami, a chiedere cancellazioni, a far man bassa sulle liste elettorali, a prepararsi il terreno per l’avvenire, mentre i galantuomini, seccati o indifferenti, lasceranno fare e si lasceranno cancellare magari.
E le liste elettorali non saranno purgate, ma mutilate, se non corrotte.
Fra i moltissimi che ci hanno scritto protestando contro i metodi inquisitorii delle Commissioni comunali, parecchi concludono dicendo:—Noi non produrremo i documenti che ci si chiedono e subiremo piuttosto con indifferenza l’onta di non più appartenere alla classe degli elettori.»
Ed oramai ne siamo a questo: ci sono paesi, come Lovere in Lombardia, che sono rimasti senza elettori, perchè i cittadini nauseati non hanno voluto far valere i proprî diritti contro lo sconfinato arbitrio e la crassa ignoranza delle Commissioni!
[81] Come indizio eloquentissimo della situazione noto quanto segue:
Non appena i magistrati vollero dare effetto retroattivo alle leggi antianarchiche a Roma, ad Ancona, a Siena nei processi contro Il futuro sociale, Il Lucifero e la Martinella—giornali esclusivamente socialisti e repubblicani e antianarchici per eccellenza—le proteste fioccarono sulle colonne della Tribuna e il giornale le fece sue. Ora viene la proibizione del Congresso socialista d’Imola e la stessa Tribuna (n. 242 anno 1894) approva il Prefetto di Bologna. Il fatto, data la attitudine del giornale verso il governo, è importante perchè prova la malafede più impudente delle sfere ministeriali. Quando il governo per bocca di Crispi nella Camera prometteva ai deputati socialisti, che a loro non potevansi applicare le leggi antianarchiche, conosceva certamente il loro programma, che s’impernia nella lotta di classe, che tante polemiche ha suscitato e tanti malumori ha destato nello stesso campo socialista. La sua slealtà, adunque, è innegabile ed è enorme oggi, che si attacca a quel programma per farlo oggetto di persecuzione. Figuriamoci ciò che avverrà quando si sarà trovata l’isola adatta per mandarvi i coatti! E allora tu, o buon amico Lucchini, vedrai quanto avrai guadagnato a fare accettare una dicitura invece di un’altra appellandotene a Fanfani e a Tommaseo! I magistrati, i prefetti e i questori d’Italia che si occupano di sinonimia! e che nelle distinzioni di Tommaseo dovrebbero trovare la guida per agire correttamente e interpretare onestamente le leggi antianarchiche....! Questi preludî possono servire di opportuno commento alla liberale circolare dell’on. Crispi sulla applicazione di dette leggi.
In tutti i capitoli di questo libro traspare un pessimismo, che non è ordinariamente nel mio carattere e nelle mie convinzioni, ma che fatalmente s’impone a chi esamina gli avvenimenti recenti, sia nella parte che riguarda il governo, sia in quella che concerne le classi dirigenti.
Ma non c’è un raggio di luce, che possa rischiarare le tenebre che circondano la sconsolante prospettiva dell’avvenire?
Non si può e non si deve a priori negare la possibilità nelle cose siciliane di un esito diverso da quello enunziato e temuto; si può anzi ammetterla, purchè governo e classi dirigenti agiscano di conserva e rapidamente per iscongiurare i pericoli che risorgeranno spontanei dalla situazione, presto o tardi, senza o con l’opera dei sobillatori, col concorso indiretto dei Fasci come nel 1893, o senza che fossero conosciute le teorie socialiste, e senza che Fasci esistessero come nel 1860 e in altre epoche.
Storia e scienza politica si accordano nel riconoscere[472] che non c’è che un mezzo per evitare le rivoluzioni violente: le riforme date a tempo. E riforme ne sono state proposte di ogni sorta per la Sicilia: riforme economiche, politiche amministrative e sociali; riforme, che in parte riuscirebbero utilissime al resto d’Italia.[82] Ma perchè riuscirebbero utilissime al resto d’Italia c’è da temere che non ne saranno votate in tempo per la Sicilia dal Parlamento; e per lo stesso motivo i deputati siciliani più interessati al mantenimento dello Statu quo e che rispecchiano fedelmente le aspirazioni e gl’interessi delle classi dirigenti, levano alta la voce contro ogni legge speciale per la Sicilia, che scioccamente designano come legge eccezionale—di leggi eccezionali essi non invocano e non approvano che lo Stato d’assedio con tutti i suoi amminicoli, dalla censura preventiva ai Tribunali militari!—poichè essi sono giustamente convinti che allontanerebbero per più lungo tempo l’amaro calice delle riforme economico-sociali, quando tutti i deputati d’Italia fossero costretti ad avvicinarvi le labbra.
Di ciò che si dovrebbe e potrebbe fare, di ciò che si è fatto già o si è mostrato l’intenzione di praticare, bisogna fare rapidissima menzione.
Nell’ordine amministrativo si reclamano pronti provvedimenti che spengano ed impediscano il risorgere dell’attuale prepotenza delle consorterie locali,[473] che opprimono i deboli e gli avversarî; non rendono fruttuosa l’opposizione nelle vie legali; e coll’intrigo, colla corruzione o colla protezione dei deputati, del governo centrale e dei suoi rappresentanti scambiano le parti e riducono alla condizione legale di minoranze, quelle che realmente sono maggioranze. E prontamente si farebbe opera di pacificazione, (più sincera e più duratura di quella più che consigliata, imposta dai Prefetti e dagli ufficiali dell’esercito tra i partiti opposti all’indomani dei disordini e delle repressioni), collo scioglimento di molti Consigli comunali e colle elezioni senza ingerenza indebita di chicchessia.
Ciò che si è fatto non ispira fiducia, poichè dalla narrazione precedente, e specialmente dai capitoli sui Tribunali militari e sull’Opera civile del generale Morra si apprese che furono abbandonate le primitive buone intenzioni in ordine alla ricostituzione delle amministrazioni comunali sulle basi della giustizia, della legalità e della preponderanza delle maggioranze reali; lasciando perdurare, anzi consolidando il prepotere di quelle consorterie—in fondo apolitiche—che si mostrano più ligie al governo ed ai suoi rappresentanti locali.
In un ordine più generale bisognerebbe provvedere affinchè venisse assicurata la onesta compilazione delle liste elettorali: come sarebbe savio provvedimento determinare la misura delle spese obbligatorie—eliminandone alcune; impedire la partigianeria nella distribuzione delle imposte; riformare il sistema dei tributi locali, modificare la tassa di minuta vendita, alla quale nei comuni aperti sfuggono gli agiati colle compere all’ingrosso, abolire[474] il dazio sulle farine, la tassa sulle bestie da trasporto e da lavoro, mantenendo quella sui bovini, abolire le quote minime del focatico e stabilire un maggior numero di categorie che rendano possibile la più equa graduazione dell’imposta stessa, che in sè è delle più democratiche, ordinare che non si possano sorpassare certi limiti nei dazî di consumo se non quando siano raggiunti gli estremi limiti nelle imposte dirette, invertendo il sistema vigente; distruggere, infine, come dice l’anonimo del Giornale degli economisti, «il vizio fondamentale del sistema finanziario locale che si riassume nel fare pagare prevalentemente le imposte ai meno abbienti e nel farle usufruire per servizi pubblici prevalentemente ai maggiori abbienti.» (Febbrajo 1894)[83].
Nel precedente capitolo si disse a che cosa è servita sinora e serve la nuova legge elettorale: è sicuro, che si avrà un enorme peggioramento nella compilazione delle liste elettorali, nelle quali finiranno col trovar posto solamente coloro, che preventivamente avranno ipotecato il loro voto.
L’organismo amministrativo si dovrebbe completare col referendum—accessibilissimo alle intelligenze meno sviluppate, perchè si esercita sopra quistioni chiare e concrete—parziale o totale;—e colla elezione diretta del sindaco e degli assessori—sistema dei selectmens,—tenendo conto sempre delle diversità di cultura, di educazione e di tradizioni, che rendono dannosa qualunque legge[475] unitaria che debba aver vigore in Lombardia e in Sicilia, in Piemonte e in Basilicata[84].
E di questa varietà di ordinamenti (perfettamente consona a quella politica sperimentale, di cui ci ha dato tanti esempi convincenti il Donnat, nel libro che porta detto titolo, e a quella analoga politica quantitativa descritta da uno dei più sapienti positivisti che seguirono il Littrè—il Wirouboff) non c’è da allarmarsi come di uno sbocconcellamento della patria italiana, se lo stesso on. Crispi, il più fanatico unitario d’Italia, sin dal 1878 riconobbe «che le isole hanno diritto a norme speciali di governo, ad una speciale amministrazione» come ricordò di recente l’on. Comandini (Corriere della sera n. 50, 1894).[85]
È corsa con insistenza la voce, che l’on. Crispi voglia realmente venire ad un ordinamento speciale per la Sicilia; ma tutto quanto sinora si è fatto non autorizza a sperare che la riforma sia inspirata a sensi democratici; se a qualche cosa che somigliasse[476] alla regione egli verrà, di sicuro tutto si ridurrà ad una diminuizione nel numero delle provincie e delle intendenze e ad un concentramento di poteri nel Prefetto di Palermo; avremmo al più un decentramento more imperiale, di cui la parte popolare non avrebbe da rallegrarsi.
Più difficili, ma di maggiore importanza rispetto ai lavoratori delle campagne e delle miniere, sono le riforme di ordine economico-sociale.
Alcune si può essere sicuri che verranno adottate tra breve—e fu già presentato qualche disegno di legge per tutta Italia, ma che ha particolare importanza per la Sicilia, dal passato ministero—; così quella sul truck-sistem nelle miniere di zolfo, che bisognerebbe completare con una legge contro l’usura, che rovina i contadini; quella sull’obbligo dei frequenti pagamenti agli operai e sulla insequestrabilità degli stipendi; sulla così detta cassa piccola da doversi imporre in tutte le miniere di zolfo; sui probi-viri nell’agricoltura; sulle cooperative di consumo e di lavoro, alle quali si dovrebbero concedere diritti reali e mezzi adatti per farli riconoscere dalle amministrazioni locali e dal governo, ecc. ecc.
Maggiori ostacoli si incontrerebbero per diffondere e regolare equamente il credito, sottraendolo agli usurai e alle influenze politiche, e per organizzare efficacemente il credito fondiario ed agrario, dopo che fu votata e sanzionata la infausta legge bancaria del 10 agosto 1893; ma è materia di cui c’è da occuparsi, perchè molte altre riforme economiche sono intimamente connesse alle facilitazioni che possono venire dal credito equamente distribuito e[477] ad interessi miti, che possano essere sopportati dall’agricoltura.
Le difficoltà divengono veramente gravi, quando si arriva alle proposte per migliorare i rapporti tra contadini e proprietari mercè la riforma in via legislativa dei contratti agrari e promovendo lo spezzamento del latifondo. Qui non c’è solamente l’aspro conflitto tra due scuole economiche diverse, che battagliano nel campo teorico; ma c’è il conflitto tra gl’interessi contrarî colla prevalenza di quelli dei proprietari e del capitalismo, che soli sinora comandano nei comuni, nelle Provincie, nei Comizî agrarî, nelle camere di Commercio, nel Parlamento.
Qualche provvedimento che riesca indirettamente a tale miglioramento nei contratti agrarî non è difficile che prevalga, perchè contemporaneamente se ne avvantaggerebbero le classi dirigenti, che nell’attuale conflitto tengono, come suol dirsi, il coltello per il manico: tale sarebbe ad esempio la proposta sesta del Comitato promotore dei grandi proprietarî di Sicilia:—esenzione per legge dalle tasse di focatico, sul bestiame, bestie da tiro e da soma e ricchezza mobile per quei contadini che prendano stabile dimora nelle campagne—mentre mi sembra più difficile che possa passare la proposta settima colla quale si dimanda la riduzione del 50 % della imposta fondiaria sui latifondi nei quali verrebbero costruite case coloniche e adottati quei metodi di coltura razionale che sarebbero, caso per caso, stabiliti da apposite commissioni tecniche, nominate dal ministro di Agricoltura e Commercio.[478]
E nello interesse dei grandi proprietari,—ma che indirettamente potrebbe giovare ai contadini, perchè indurrebbe più facilmente i primi alle enfiteusi—i senatori siciliani, con alla testa il principe di Camporeale, fecero votare dal Senato la istituzione di una Banca che si occupasse del riscatto dei censi a richiesta del proprietario, a somiglianza di ciò che già si pratica altrove.
Cessata la cieca venerazione per la proprietà privata col suo quiritario jus utendi abutendique, per il legislatore in Sicilia non riuscirebbe difficile il compito di creare una numerosa falange di piccoli proprietarî e poco più disagevole riuscirebbe l’altro della riforma dei contratti agrari.
Gli esempi che ci somministra la legislazione straniera sono incoraggianti, come osserva il Cavalieri: Le Homestead Laws negli Stati Uniti, le leggi per l’Irlanda del 1881, altre leggi per la stessa Irlanda, per la Scozia e per l’Inghilterra—Small holdings Act, Allotments Act, ecc., ecc.—le colonizzazioni interne, le modificazioni alle leggi sull’enfiteusi in Germania, la quotizzazione dei terreni sabbiosi resistenti alla filossera in Ungheria e le più recenti proposte di leggi dell’Austria sulla cooperazione agraria e sulla redenzione dei debiti ipotecarî cogli opportuni temperamenti suggeriti dalle condizioni e dalle tradizioni locali, potrebbero riuscire di grande efficacia in Sicilia per migliorare la condizione dei contadini e i rapporti tra proprietari e lavoratori.
Da tempo, e prima che gli ultimi avvenimenti richiamassero sull’isola l’attenzione generale, proposte inspirate ai criteri informanti la legislazione[479] straniera succennata, nel 1883—più di un decennio fa!—erano state avanzate dal Baer: il quale, sebbene schietto conservatore, arrivava sino alla espropriazione dei latifondi privati per distribuirli a piccoli lotti ai contadini.
Gli esempî stranieri e i consigli non sospetti condurranno a risultati pratici?
Non mi abbandono ad un alcun preconcetto pessimista nella previsione dei medesimi, ed espongo puramente e semplicemente i dati di fatto, che possano aiutare il lettore a formarsi da sè stesso un esatto concetto.
In quanto alla riforma dei contratti agrarî c’è poco da sperare dal Parlamento. Figuriamoci che si considerò come troppo ardito, quasi rivoluzionario, il progetto sulla mezzadria dell’on. Sonnino! E la sorte che correrebbe qualunque altro disegno meno anodino si può indovinarla dalle discussioni e dalle risoluzioni della Commissione nominata dal ministro di Agricoltura e Commercio e da quello di Grazia e Giustizia per istudiare precisamente la riforma di detti contratti agrarî.
La maggior parte dei deputati e dei senatori, che ne facevano parte—tra i quali l’on. Fortis, che a tempo perso si proclama socialista di Stato—si mostrarono decisamente avversi ad accettare quella corrente nuova (che fa capo a Menger in Austria, che in Italia è rappresentata degnamente da Gianturco, Nitti, Salvioli, Cogliolo, ecc.) la quale mira ad innestare il contenuto socialista nel Codice Civile, modificando il concetto quiritario della proprietà e facendo posto adeguato alle ragioni del lavoro.[480]
L’opposizione alle chieste modifiche dei contratti agrarî da parte degli elementi conservatori di detta Commissione, sebbene truccati alcuni da democratici in aperto conflitto coll’elemento universitario (Nitti, Cogliolo, Salvioli) quantunque disinteressata nella apparenza, perchè mossa da elementi non siciliani, pure tale non era: essi avvedutamente han dovuto pensare che ciò che adesso si concederebbe alla Sicilia, sotto la pressione della rivolta, più tardi si dovrebbe accordare al resto d’Italia dove sussistono condizioni analoghe. L’esempio di ciò che è avvenuto nella Gran Brettagna li ammaestrava: le concessioni e le riforme agrarie della Irlanda non tardarono a varcare il canale di San Giorgio, per essere proposte a vantaggio dei lavoratori d’Inghilterra e di Scozia.
In quanto allo spezzamento del latifondo, e alla creazione dei piccoli proprietari, memore più che degli esempi stranieri dei consigli dei conservatori illuminati e preveggenti, (Baer, Cavalieri, Monsignor Carini ecc., ecc.) in seno della Commissione eletta dai deputati siciliani per istudiare le opportune proposte per la loro regione, osai proporre il censimento obbligatorio dei latifondi di una certa estensione; ma rimasi solo: gli on. Di Rudinì, Di San Giuliano, Sciacca della Scala, Reale e Filì-Astolfone si dichiararono avversi alla proposta mia. L’on. Damiani l’accolse con simpatia; ma funzionando da presidente non credette pronunziarsi in proposito[86].
Il 1º Luglio 1894 l’on. Crispi presentò alla Camera dei Deputati il disegno di legge intorno alla enfiteusi dei beni degli enti morali e ai miglioramenti dei latifondi dei privati nelle provincie Siciliane, e il cuore dei partigiani delle sane riforme si riaprì alla speranza e le previsioni dei pessimisti e degli increduli parve che ricevessero una solenne smentita.
Con quel disegno di legge non solo s’imponeva la enfiteusi dei beni degli enti morali, ma si costringevano ai miglioramenti agrarî colla mezzadria i latifondisti che non ottemperando a tali disposizioni dovevano vedere sottoposti all’enfiteusi obbligatoria i loro fondi.
Non occorre scendere a dettagliata disamina delle proposte del Presidente del Consiglio dei ministri, perchè esse colla chiusura della Sessione parlamentare, legislativamente sono già morte e sepolte, sebbene suscettibili di resurrezione; basta qui e adesso giudicarne il principio, che lo informa.
Negli uffici il disegno di legge agraria venne combattuto fieramente alla quasi unanimità dai deputati siciliani,—e si vede da ciò ch’erano fedelmente rappresentati in quella Commissione privata di cui mi occupai precedentemente—e venne combattuto perchè ritenuto violento e rivoluzionario[87].[482] I socialisti invece—e in nome loro autorevolmente ha scritto il professore Salvioli nella Riforma Sociale (N. del 10 agosto 1884)—non lo trovarono di loro gradimento, «perchè in sostanza è conservatore, tendendo a diffondere quella proprietà fondiaria coltivatrice, pegli stessi lavoratori del suolo, la quale secondo la relazione che la procede è per lo Stato e per le civili istituzioni una più sicura garenzia di ordine e di stabilità.»
Io non esito a dichiarare che il principio del disegno di legge agraria Crispi era equo ed opportuno, era rispondente alle condizioni del momento, e sebbene combattuto ad un tempo dai socialisti e dai latifondisti—senza distinzione di colore politico—sarebbe riuscito bene accetto e giovevole ai contadini ed ai proletari. Nè ciò dicendo credo derogare alle teorie socialiste, che da anni sostengo, come in altro luogo e in altra occasione cercherò di dimostrare[88].
Se della legge agraria cennata accetto il principio informatore, non approvo però i particolari, molto meno posso dichiararmi soddisfatto dei mezzi proposti per creare la piccola proprietà rurale e promovere i miglioramenti agrarî.
Inoltre non sono favorevole alla quotizzazione dei demanî comunali, e credo che sarebbe più utile e conveniente costituirli in proprietà collettiva o[483] almeno farli servire ad esperimenti di cooperazione agraria.
Il nome e la cosa in fatto di proprietà collettiva oggi non dovrebbero più spaventare, dopo che un progetto di legge che mira a conseguire tale risultato venne presentato da deputati conservatori e timidamente liberali per i dominî dell’ex stato pontificio; progetto al quale promise il suo appoggio il ministro Boselli.[89] E queste proprietà collettive[484] potrebbero e dovrebbero allargarsi, costituendo un vero campo di sperimentazione economico-sociale coll’adottare le misure proposte poco tempo fa dall’egregio avv. P. Di Fratta, segretario al Ministero di Grazia e Giustizia—nell’opuscolo sulla Socializzazione della terra.
La cennata discussione della Regia Commissione sui contratti agrari e l’accoglienza fatta negli Uffici al disegno di legge Crispi lasciano poche illusioni sulla sorte dello stesso progetto qualora venisse ripresentato nella futura sessione: per farlo accettare dal Parlamento occorrerebbe una forte, direi quasi, minacciosa pressione della pubblica opinione e un ministero energico che sapesse rendersene interprete. E in tanto abuso di decreti reali, chi potrebbe protestare se ancora una violazione delle buone norme costituzionali si avesse a fin di bene per attuare qualche importante riforma economico-sociale? A cosa fatta—l’esperimento è stato ripetuto,—la Camera non ardirebbe negare la sua approvazione: tanta energia nessuno gliela suppone e potrebbe attingerla soltanto nel più sfrenato egoismo.
Ma dato che si arrivi comunque allo spezzamento del latifondo e alla costituzione di numerosi piccoli proprietarî rurali, cura somma dello statista dovrebbe essere quella di saper conservare; poichè si sa che i piccoli proprietarî sorti dal censimento dei beni dell’asse ecclesiastico e dalla quotizzazione[485] di alcuni demanî comunali sono nella massima parte scomparsi: i loro campicelli furono inghiottiti dall’antico latifondo limitrofo o servirono a costituire qualcuno nuovo.
Nelle legislazioni straniere c’è la preoccupazione di conseguire tale supremo intento ed oltre le Homestead laws degli Stati Uniti è noto «che lo Schäffle, che voleva davvero le piccole proprietà, non si è peritato di suggerire la proibizione di accendere ipoteche per la legittima ogni volta che dovevano colpire un già modesto fondo; in Prussia e in Austria si è giunti a costituire degli Höferolle, che rappresentano una specie di catasto speciale della piccola proprietà ai fini della sua conservazione; e nel Mecklemburgo si è provveduto non solo alla irredimibilità dei beni enfiteutici, ma anche alla loro trasmissione indivisibile». (Cavalieri, p. 60).
Questo bisogno di provvedimenti urgenti ed efficaci per la conservazione della piccola e media proprietà è più impellente per le provincie del mezzogiorno, e specialmente per la Sicilia e per la Sardegna come risulta con straziante eloquenza dalle cifre.
Su 100,000 abitanti nelle vendite giudiziarie nell’anno 1885 l’Italia settentrionale è rappresentata con 7,16, l’Italia centrale con 16,43, il Napoletano con 49,34, la Sicilia con 61,57, la Sardegna con 742,89.
Nel 1886, nel 1887, nel 1888, troviamo gli stessi rapporti e nel 1889 c’incontriamo con questi dati: l’Italia Settentrionale 8,21, l’Italia centrale 17,46,[486] il Napoletano 77, la Sicilia 170,77, la Sardegna 1380,41!
E non siamo ancora negli anni ultimi, nei quali la crisi economica è terribilmente aumentata......
Ancora delle cifre! Per ogni cento vendite di mobili e di frutti pendenti, in quelle di valore non superiore a trenta lire l’Italia settentrionale è rappresentata da 7,69% l’Italia centrale da 6,57 il Napoletano da 33,53, la Sicilia da 26,41, la Sardegna da 29,28: in quelle non superiori a cinquanta lire, l’Italia settentrionale è rappresentata da 8,12% la Centrale da 8,60, il Napoletano da 12,76, la Sicilia da 17 e la Sardegna da 26,69. Nelle vendite per espropriazione forzata in quelle non superiori a 500 lire l’Italia settentrionale da 5,80, la centrale 7,27, il Napoletano 7,19, la Sicilia 9,45, la Sardegna 14,62; in quelle superiori a tale somma e non oltre mille lire l’Italia settentrionale dà 8,31 l’Italia centrale 7,80, il Napoletano 11,23, la Sicilia 16,60, la Sardegna 16,04.
Non avevo dunque ragione nell’affermare che da tali cifre risulta colla massima evidenza l’impellente dovere di provvedere alla difesa della piccola e media proprietà in Sicilia e in Sardegna; ed esse stesse non provano ancora una volta luminosamente che le condizioni economiche dell’isola sono generalmente più tristi di quelle del resto d’Italia, eccettuata la povera Sardegna?[90]
Quando poi si considera che l’avidità del fisco italiano è la grande e generale causa della espropriazione e della graduale scomparsa della piccola e media proprietà si deve riconoscere che gli sforzi legislativi per creare l’una e l’altra sono un perditempo,[488] anzi una crudele ironia e che è perfettamente inutile pensare a fare colla mano destra ciò che la sinistra deve affrettarsi a distrurre. E chiunque ha fior di senno e non si lascia mistificare dalle apparenze e dalle parole, dopo avere esaminato i provvedimenti ch’erano contenuti nella legge agraria dell’onorevole Crispi, meschinamente inspirati al concetto dell’Homestead, per ovviare al riassorbimento nel latifondo della piccola proprietà, dovrà coscienziosamente riconoscere che essi non corrispondono affatto allo scopo. Meglio si riuscirebbe con una politica generale casalinga ed economica.
Accanto alla questione agraria in Sicilia ce n’è una mineraria ancora più acuta. Nulla per essa, proprio nulla, ha fatto mai il governo italiano, che in questo di tanto si mostra inferiore al governo borbonico. E quanto ci sarebbe da fare risulta dai due progetti d’iniziativa parlamentare presentati l’uno dall’on. Ippolito De Luca e l’altro da me, nonchè dalle proposte della Sotto commissione dei Deputati Siciliani (Di Rudinì, Di San Giuliano, Colajanni). È da notarsi, per aggravare la enorme responsabilità del governo nella quistione mineraria, che la Sicilia non chiede alcun sacrifizio pecuniario al resto dell’Italia, a tutti i contribuenti; essa non chiede se non ciò che le spetta di pieno diritto; essa chiede che venga consacrato all’industria[489] zolfifera ciò che questa dà allo Stato e che lo Stato indebitamente prende, cioè il prodotto del dazio di esportazione sugli zolfi. Dico che lo Stato lo prende indebitamente perchè dopo l’abolizione del dazio di esportazione sulla seta, chiesto ed ottenuto dai lombardi, quello sugli zolfi è il solo dazio di esportazione che resta in Italia e che pesa esclusivamente sulla Sicilia anzi su tre provincie soltanto dell’Isola. La parità di trattamento s’imponeva tanto, che l’abolizione di detto dazio chiesta dall’on. Pantano e da me nella Camera dei Deputati nel 1891, venne promessa dal ministro delle Finanze on. Luzzatti e la promessa fu riconfermata dall’on. Di Rudinì nel discorso di Milano. Le promesse!
Ora l’industria non chiede l’abolizione di quel dazio di uscita; ma domanda, ed ha diritto di ottenere, che se ne impieghi il prodotto a proprio vantaggio, lasciando anche un largo margine di profitto all’erario dello Stato ed altro maggiore creandogliene col risollevamento economico di una numerosissima classe di lavoratori, di speculatori, o di proprietari. Sarà ascoltata?....
Una circolare riservata dell’on. Boselli altra volta lasciava sperare che ad un lato della questione mineraria—quello della proprietà del sotto suolo e del sistema degli affitti angarici ed a breve durata—si cominciava a pensare nelle sfere ministeriali. Ma l’on. Boselli è passato alle finanze e il suo successore, on. Barazzuoli, propugnatore dell’anacronistico liberismo economico non dà alcun affidamento, che qualche cosa di bene si voglia fare. Egli anzi ha cominciato dal ritirare il disegno di legge sui consorzî obbligatorî, sulla brucia ecc.[490] presentato prima dall’on. Lacava, e mantenuto dal Boselli e che pur riuscirebbe tanto utile all’industria!
E mentre il governo si mostra così incurante o così ligio a vieti principî economici—a meno che non si tratti di violarli nello interesse delle finanze—l’ingiustificabile rinvilimento nel prezzo degli zolfi continua vertiginosamente, gli scioperi forzati si succedono con allarmante frequenza, la miseria dei zolfatarî ha raggiunto proporzioni spaventevoli e non ostante lo Stato di assedio avvengono terribili attentati e delitti minerari che fanno ricordare i delitti agrari dell’Irlanda e della stessa Sicilia[91].
Le misure economiche-sociali dianzi cennate risolverebbero in parte la quistione Siciliana; ma la soluzione dovrebbe essere completata da provvedimenti di altra indole.
L’analfabetismo è una delle piaghe dell’isola, che va amorevolmente studiata e curata.
I vantaggi generali che si avrebbero da una buona istruzione impartita alle classi lavoratrici sono evidenti. Vero è che l’istruzione è un prezioso coefficiente per la propaganda socialista, anche quando riesca a creare un grande numero di spostati, come[491] ha dimostrato il Bebel; ma non si dovrebbe ignorare che anche colla più crassa ignoranza non si sono evitate le ribellioni e i tentativi di rivendicazioni sociali; dalle guerre servili alle Jacqueries; dai moti di Ben Tillet in Inghilterra e dell’anabattismo in Germania e in Isvizzera, ai tumulti dei contadini del Napoletano nel secolo scorso e della Sicilia dal 1860 al 1894. Si rileva che l’analfabetismo non è rimedio efficace per impedire le esplosioni determinate dalle sofferenze dei lavoratori. Dalla storia invece si apprende che dovunque gli operai e i contadini hanno acquistato una certa coltura, ivi la lotta si è fatta pacifica, evolutiva, con manifesto vantaggio delle classi dirigenti.
Vero è che l’istruzione obbligatoria com’è attualmente organizzata, non dà risultati corrispondenti alla spesa che costa ai comuni; ma questo non autorizza a prendere occasione dall’insuccesso delle leggi attuali per domandarne l’abolizione o indicarla come spesa facoltativa ai comuni, come con mia sorpresa ha proposto un egregio scrittore.
Meglio sarebbe invocarne la riforma e comprenderla tra gli obblighi dello Stato assai più utilmente e più equamente che non si faccia col lasciargli l’insegnamento secondario ed universitario, ch’è un bisogno meno universale della istruzione elementare.
Ma purtroppo le classi dirigenti o il governo non apprezzano in Sicilia i vantaggi della istruzione, non ne vedono che i pericoli. Ivi appena si affacciò sull’orizzonte la reazione trionfante fu dichiarata guerra a morte all’istruzione. L’odio che alcuni lords in Inghilterra manifestarono contro la istruzione e di cui parla Marx, si è ripresentato nell’isola,[492] dove dapertutto quasi venne invocata la chiusura delle scuole serali istituite saviamente dai Fasci. Nella Sala Ragona non solo si protestò contro l’insegnamento universitario, che ha tendenze socialiste; non solo s’invocò che nelle scuole s’imponesse il catechismo ma quando un oratore parlò degli aggravi che l’istruzione obbligatoria impone ai Comuni si gridò con entusiasmo! abolitela! abolitela! E quel ch’è peggio i rappresentanti del governo si mostrano dello stesso avviso dei reazionarî grandi proprietarii della Sala Ragona.
Tali riforme e tali provvedimenti dovrebbero essere coronati da un ultimo d’indole politica, che pur troppo incontra la più viva opposizione e nel governo e nelle classi dirigenti che spadroneggiano in parlamento e fuori: la ricostituzione dei Fasci dei lavoratori.
Se si tenesse conto delle savie considerazioni svolte dall’on. Di San Giuliano nel suo libro sulla opportunità di conservare i Fasci (p. 23 e 120) si converrebbe anche adesso da conservatori intelligenti che alla causa dell’ordine vero gioverebbe la ricostituzione di quei sodalizî, che rappresenterebbero tante valvole di sicurezza, tanti organi per la esplicazione legale dei bisogni e delle tendenze delle classi lavoratrici. Il Brentano ritenne che le Trade Unions—delle cui vicende si fece menzione—in Inghilterra furono un vero elemento di ordine e di conservazione sociale, e l’Howel ha dimostrato (Le passé et l’avenir des Trade Unions) che le grandi associazioni inglesi cessarono di essere causa di perturbamento dopo che vennero lasciate libere di svolgersi ed intraprendere le loro lotte contro il capitalismo[493] pel miglioramento del salario dei loro socî.
Le dichiarazioni dell’on. Sonnino—ministro e non più semplice touriste—sulla iniquità del dazio di consumo e sulla ripartizione dei tributi locali avevano a sufficienza giustificata l’azione, anche tumultuaria, dei Fasci dei lavoratori; chi poi l’ha addirittura glorificata è stato l’on. Crispi colla presentazione del suo disegno di legge agraria. Se lo ha presentato, è segno che lo ritiene giusto e necessario, e se così è tutto il merito della sua iniziativa dev’essere restituito esclusivamente ai Fasci, che la propugnarono, che minacciosamente la chiesero e senza la cui azione non sarebbe venuta come non era venuta per trentaquattro! anni. Se quel disegno verrà ripresentato e trionferà, potrà il governo iniquamente continuare a mantenere in galera i capi e gli organizzatori dei Fasci dei lavoratori, ma esso stesso avrà loro innalzato un altare nel cuore dei contadini che alla loro agitazione e ai loro sacrifizî dovranno la terra tanto desiderata e invano per tanti secoli.
E qui è opportuno ribattere qualche sofisma che le reminiscenze liberiste fanno spuntare anche in bocca di chi dal liberismo si mostra lontano, a dimostrare ancora che ciò che è avvenuto testè in Sicilia non è che un caso di una regola generale.
Il Cavalieri, che ripetutamente ha invocato il savio intervento dello Stato, a certo punto si ricorda di essere conservatore in politica e torna liberista in economia per dare ingiustamente addosso ai Fasci. Egli dopo avere osservato, che da Giorgio III in poi senza bisogno dei socialisti la legislazione inglese promosse molte radicali riforme agrarie esclama:[494] «non c’è bisogno di stringersi in una setta (?), di ordire costanti macchinazioni (?), di ricorrere alla violenza per fare trionfare nuovi canoni di distribuzione della ricchezza, che se son giusti, faranno certo la loro strada da sè.» (p. 64)
Non avrei rilevata questa strana affermazione—che suona aperta contraddizione in bocca del Cavalieri—se essa non venisse ripetuta—in buona o in mala fede—da molti uomini politici, che vanno per la maggiore e dai loro giornali.
No! non è vero che i nuovi canoni di distribuzione della ricchezza, se giusti, faranno la loro strada da sè, nè importa se la parola socialisti e socialismo ai tempi di Giorgio III non esistevano: altri ne rappresentarono l’azione equivalente e le riforme furono la conseguenza delle agitazioni popolari e di una maggiore partecipazione dei lavoratori alla vita politica, come risulta dalla citata polemica tra il Prof. Luzzatti e l’avv. Bissolati, nonchè dal libro del Thorold Rogers sulla interpretazione economica della storia d’Inghilterra.
E le grandi riforme agrarie dell’Irlanda, che tra non guari saranno completate dall’Home rule, non si devono esclusivamente ad un secolo di lotte ed anche di violenze? Che cosa avrebbe ottenuto l’Isola senza gli agitatori, senza i Feniani, senza la Land League e forse anche senza il tremendo delitto di Phoenix Park?
Nulla! La giustizia non avrebbe trovato la strada da sè; e se la violenza gliel’aprì spesso, la responsabilità dei suoi possibili danni ricade intera sui governanti e sulle classi dirigenti, che vogliono[495] tenerla sbarrata ad ogni costo e in tutti i modi.
Da tanti anni, per non dire secoli, si conoscono i mali della Sicilia; ma quali i rimedi efficaci sinceramente apportati? Nessuno! Ebbene i contadini di Piana, di Corleone e di cento altri siti unendosi in setta, ricorrendo alla violenza se si vuole, migliorarono salari e patti agrari, mentre l’inchiesta sulla Sicilia del 1875, l’inchiesta agraria, i libri di Caruso, di Sonnino, di Franchetti, di Basile, di Villari, ecc., gli articoli di Baer e di tanti altri non cavarono, da sè pur troppo! un ragno da un buco.
E che cosa è avvenuto non appena soppressi i Fasci e impedita la loro e proficua agitazione? I miglioramenti ottenuti scompaiono e si torna all’antico colla antica miseria eccessiva dei lavoratori. E ciò che previdi sin dallo scorso gennaio in alcuni articoli e nella prima edizione di questo libro oggi viene riconfermato dall’agitazione che rinacque in Corleone, e altrove, appena tolto lo Stato d’assedio, e ch’è tanto giusta che provoca scoppi di sdegno anche nella più autorevole stampa ufficiosa, che se la prende colla improntitudine, colla slealtà e colla ingordigia dei grandi proprietari e che invece si dovrebbe scagliare contro il governo e contro il suo proconsole cicisbeo, che ai grandi proprietari hanno prestato mano forte e della cui iniquità si sono fatti strumento.
E questa solidarietà di fatto tra governo, proconsole e grandi proprietari è tanto più mostruosa in quanto che tra gli ultimi non si è levata sin ora una voce coscienziosa, autorevole, efficace contro la propria classe e in favore dei contadini, mentre[496] in Irlanda non mancarono landlords, che dettero l’esempio della equità e del disinteresse, come risulta dalla relazione della Commissione presieduta dal duca di Richmond e che preparò la legge agraria del 1881 di cui fu segretario un grande proprietario irlandese, il colonnello King-Harman, che si mostrò tra i più energici e convinti nel propugnare la causa dei lavoratori della terra.
Il vicino passato e gli avvenimenti contemporanei adunque, se c’è sincerità nell’on. Crispi nel promettere il miglioramento dei contadini, dovrebbero indurlo a consentire la ricostituzione dei Fasci, che prima delle sue leggi varrebbero ad infrenare il mal volere dei grandi proprietari.
Ma per quanto ciò non sarebbe altro che il rispetto puro e semplice dei diritti riconosciuti dallo Statuto, nulla fa sperare che verranno rispettate queste leggi nostre, in sè stesse tanto inferiori in liberalismo alle straniere—come osservò l’Impallomeni—e c’è tutto da temere che si perdurerà nella reazione ignominiosa e pericolosa. Certe abbominevoli liste di proscrizione a me note, le leggi antianarchiche, la loro interpretazione—di cui si ebbe già un saggio nell’applicazione retroattiva pei reati di stampa—le decimazioni tra gli elettori popolari, i numerosi arresti arbitrarî, l’avviso dato dalla questura di Palermo al barone Colnago e ad altri socialisti di astenersi da qualunque agitazione e propaganda, la proibizione dei congressi socialisti di Carpi, di Bozzolo e d’Imola e cento altri sinistri indizî confermano un tale timore.
Ben so che c’è una circolare dell’on. Crispi, che invita le autorità ad interpretare nel senso più largo[497] e meno illiberale le così dette leggi anti-anarchiche; ma ammesso pure che egli l’abbia dettata colle migliori intenzioni del mondo, se conosce uomini e cose del suo paese deve immaginare che le sue raccomandazioni, data la qualità delle nostre autorità di pubblica sicurezza, rimarranno lettera morta.
Nè questo è giudizio avventato suggerito dalla partigianeria politica: venne formulato in termini più severi da un amico del governo, da un alto funzionario dello Stato, da un conservatore infine, qual’è il Senatore Costa nella relazione sulle stesse leggi.
Ed ora prendiamo quanto di ottimismo ci rimane in fondo dell’animo e concediamo che governo e Parlamento concordemente si mettano all’opera per dare alla Sicilia una legislazione riformatrice economico sociale, quale le occorre—e quale, del resto, su per giù occorre al resto d’Italia.—Di fronte ad una siffatta manifestazione di buona intenzione potremo dire che si sono superate le più gravi difficoltà e che si è risoluto il problema? Sarebbe strana illusione il pensarlo.
Le riforme tributarie, intese ad alleviare la sorte dei contribuenti—e che sono le più urgenti—e quelle economico-sociali sopraccennate, presuppongono bilanci dello Stato e dei Comuni in condizioni tali da potere sopportare le prime; capitali a disposizione dello Stato e dei Comuni e dei privati per eseguire le seconde.
È quasi impossibile, dato l’attuale sistema tributario, pensare alla soppressione dei dazi di consumo, che maggiormente pesano sui lavoratori di[498] fronte alla condizione dei bilanci dei Comuni (che nei medesimi spesso trovano la maggiore risorsa) e del bilancio dello Stato che attinge nella stessa sorgente di entrate.
Crescono la difficoltà dopo la votazione dei provvedimenti finanziarî dell’on. Sonnino, che hanno peggiorato le condizioni finanziarie dei Comuni, di già dissestate dalla continua diminuizione del prodotto del dazio di consumo a causa delle peggiorate condizioni economiche del paese; e i provvedimenti dell’on. Sonnino riescono esiziali ai Comuni anche per l’insufficiente abbuono ch’essi ricevono dal governo per l’abolizione del dazio governativo sulle farine, per l’avocazione allo Stato dei decimi sulla ricchezza mobile e per avere imposto ai comuni alcune spese, che per lo passato venivano sopportate dallo Stato[92].
Ho sottocchio un prospetto redatto dal Comitato permanente dal Congresso dei sindaci nel quale si notano i danni recati dai nuovi provvedimenti a centocinquanta comuni del regno; ma lasciando da parte ciò che riguarda il continente, correggendo e completando i dati del Comitato dei sindaci si avrà un’idea del danno che subiranno i Municipî dell’isola da queste sole cifre: Palermo perderà circa 600 mila lire, 200 mila Catania, 200 mila Messina, 50 mila Caltanissetta.... E il danno è tanto sicuro e grave che il presidente del Consiglio promise[499] di occuparsene. La promessa sarà sincera, ma di dubbia realizzazione; certo è invece il danno che arreca questo ministero restauratore che continua nell’antica e cattiva politica che mira a peggiorare le condizioni dei municipî sottraendo ad essi i cespiti di entrata e addossando loro spese che prima erano dello Stato.
Andiamo avanti.
Per la istruzione, per la sicurezza pubblica, per le strade di campagna, per le case coloniche, per le acque potabili, per gli attrezzi agricoli, per le sementi, per gli animali da lavoro, per le scorte ecc. ecc. occorre denaro, denaro, denaro. Chi lo appronterà? I Comuni, lo Stato, gl’Istituti di credito, i grandi proprietari? Nessuno credo che attualmente sia in condizione di soddisfare tale primario e prepotente bisogno; meno che tutti lo Stato, il cui bilancio è in deficit minaccioso; lo Stato, cui l’on. di San Giuliano formalmente attribuisce tale obbligo; lo Stato, che non si stanca di chiedere sacrifizi ai contribuenti per riempire la botte delle Danaidi, che si chiama bilancio del ministero della guerra; lo Stato che il denaro ha saputo trovare per profonderlo sulle aride sabbie dell’Africa maledetta, lo Stato a cui non mancò il denaro per la pronta repressione dei moti di Sicilia e che forse meno ne avrebbe speso se avesse pensato alla savia e benefica prevenzione sociale!
E quale risultato potrebbe avere qualunque buona legge economico-sociale, di fronte ai mezzi finanziari che mancano per eseguirla, ci lascia indovinare il disegno di legge agraria dell’on. Crispi.
I mezzi assegnati per la sua esecuzione erano[500] deficienti e facevano presentire che la legge agraria, come le precedenti leggi sanitaria e di pubblica sicurezza, nella parte buona e sociale che esse contenevano, sarebbe rimasta una platonica affermazione con niuna o ridicola efficienza reale.
Ma per quanto deficienti i mezzi per l’attuazione della legge agraria dove essa li attingeva? Alla cassa di soccorso per le opere pubbliche in Sicilia, alle opere pie, al quarto dei beni dell’asse ecclesiastico assegnato ai comuni dell’isola.... cioè a tutti quegli enti, che sono stati dissestati dal governo e che avrebbero bisogno di essere rafforzati e che rispondono a bisogni presenti e impellenti, come la cassa di soccorso per le opere pubbliche!
Nelle condizioni del bilancio dello Stato e nelle generali condizioni economiche del resto d’Italia sta la maggiore difficoltà a provvedere efficacemente ai mali della Sicilia. Non bisogna illudersi: se nella maggiore isola del regno si soffre, non si sta molto meglio nelle altre e nel continente; e si può tanto meno riparare alla crisi locale in quanto che realmente la crisi è generale. E nel grido partito dalla Sicilia, che si ripercosse, sebbene debolmente, in Calabria e nelle Puglie, potrebbe ravvisarsi un salutare avvertimento: il segnale dello incendio, scoppiato in un punto ieri, ma che domani potrà divampare in tutto il regno!
Questa considerazione sulla vastità del pericolo affacciatosi da principio al di là dello stretto, dovrebbe altresì far apprezzare più esattamente la natura dei movimenti siciliani, nei quali si errerebbe di gran lunga se non si vedesse che la risultanza delle condizioni locali. Queste sono innegabili,[501] ed hanno accelerato la esplosione e le hanno dato una impronta speciale, ma non si dimentichi ciò che i grandi proprietari della Sala Ragona avvertirono sul malessere generale; ma non si dimentichi che se in Sicilia da principio la lotta ha assunto carattere municipale, ciò si deve in gran parte alle condizioni intellettuali del popolo che la abita: i contadini e gli operai dei piccoli centri essendo quasi tutti analfabeti, non leggendo giornali e non sapendo scorgere le cause lontane e indirette delle loro sofferenze, tutte quante le attribuiscono alle amministrazioni locali e contro di esse hanno accumulati i loro risentimenti e contro di esse sfogano la loro ira. Le ingiustizie, talvolta enormi, del sindaco, degli assessori, dei consiglieri, rappresentano le ultime goccie che fanno traboccare il liquido del vaso.
Le vittime di tante ingiustizie si ribellano contro le autorità amministrative, perchè non sanno risalire più in alto per ricercare e trovare gli oppressori.
La forza delle cose adesso, o una maggiore coltura in appresso, li spingerà alla ricerca.
E la ricerca farà loro apprendere che i municipî ricorrono a tasse odiose, angariche, perchè il governo centrale non ne lascia altre a loro disposizione per i bisogni della vita locale, e per soddisfare le numerose esigenze che lo Stato ha loro imposto in nome della civiltà; che il governo centrale assorbe tutte le risorse economiche della nazione, perchè spende e spande pazzamente, e talvolta disonestamente; che della denegata giustizia, degli abusi perpetrati, delle violenze subite è responsabile[502] interamente il governo centrale, che ha lasciato impuniti i colpevoli, conoscendoli tali e che dei colpevoli spesse volte si è fatto complice.
Si prendano pure e subito tutti quei provvedimenti che si credono indispensabili e particolari per la Sicilia; ma non si dimentichi che bisogna anche pensare al resto d’Italia, che soffre assai e che presto o tardi avrà anche esso le sue manifestazioni sanguinose.
Si deve mutare l’indirizzo della politica generale; si deve sopratutto pensare alla questione economica. I casi di Sicilia devono servire di monito severo: essi devono far riflettere che oggi la semplice proposta di nuove imposte è una grave provocazione.
Che sia grave il generale malessere economico che genera alla sua volta quello politico e morale, si rileva da indizi numerosi, molti dei quali sono stati raccolti e sobriamente commentati dall’illustre Comm. Bodio nella sua monografia presentata all’Accademia dei Lincei. (Di alcuni misuratori del movimento economico in Italia. 2. Ed. 1891)[93] Infatti da alcuni anni diminuiscono i consumi e aumenta la emigrazione, aumentano o rimangono stazionarie le alte cifre dei reati e rimangano parallele quelle dell’analfabetismo, si chiudono le officine, si moltiplicano i fallimenti, si consumano i risparmi, o rimangono inoperosi nelle casse pubbliche, paurosi[503] di avventurarsi in qualsiasi intrapresa di cui si vede quasi sicuro l’insuccesso, diminuisce a miliardi la ricchezza nazionale, e mentre si pensa ad aumentare pazzamente le imposte, lo stesso ministro del tesoro è costretto a confessare che quelle esistenti renderanno nel corrente anno finanziario circa 30 milioni meno del previsto. Si potrebbero avere più evidenti i segni dello esaurimento della economia pubblica?
Se si vogliono rintracciare le cause di questo esaurimento l’impresa riesce agevole: si sono spesi molti miliardi in armamenti senza riuscire a dare all’Italia un esercito ed una flotta corrispondente ai sacrifizî fatti, come dichiarò l’on. Crispi in uno dei suoi scatti di sincerità; si sono sperperati tanti altri miliardi, in soverchi lavori pubblici ed autorizzando i più gravi sospetti di corruzione, per non dire di furti ingenti, come risulta dai discorsi e dalla relazione sui lavori pubblici pel bilancio 1894-95 dell’onorevole Brunicardi, da una relazione dell’on. Carmine, da una interrogazione dell’on. De Bernardis e dagli stessi discorsi dell’on. Saracco ministro dei lavori pubblici; si può infine garentire in generale che il tenore di vita dello Stato, delle Province, dei Comuni, dei privati adottato e sviluppato dal 1860 in qua non è stato e non è menomamente proporzionato allo incremento della ricchezza; d’onde un disquilibrio nel bilancio della nazione e dello stato tra le entrate e le spese; e gli sforzi persistenti, direi quasi feroci del secondo per provvedere a sè premendo con tutta la sua forza sulla seconda ed assorbendone rapacemente tutte le risorse sino alla usurpazione del necessario.[504]
I confronti statistici tra le nostre condizioni economiche e quelle degli altri Stati ci dicono perchè da noi il risentimento e il malumore sono più vivi che altrove e più vicino, anzi imminente, sembri uno scoppio, e i confronti statistici tra i bilanci europei ci somministrano del pari la ragione per cui risentimento e malumore in Italia a preferenza si acuiscono contro il governo, anzichè indurre come in altri paesi alla rassegnazione, considerando le sofferenze come circostanze fatali di cui non si potrebbe facilmente assegnare la responsabilità a chicchessia[94].
Le conseguenze di siffatte premesse sono chiare, inesorabili: bisogna mutare l’indirizzo nella cosa pubblica non solo rispetto alla Sicilia, ma relativamente all’Italia tutta, bisogna mutare la politica doganale, la politica tributaria, la politica africana, la politica militare, e la politica estera, che su tutte le altre preme e sopratutto si percote sulla politica interna. La necessità di mutare s’impone, perchè come dice l’on. E. Giampetro: «oramai il dilemma sembra messo nettamente: o un governo avrà il coraggio di trasformare radicalmente tutto ciò che sinora si è fatto, o il paese farà da sè una completa demolizione di tutto ciò che in politica esiste.» (L’Italia al bivio, Roma 1894)
I segni precursori di questa demolizione che principia non mancano e presentano una grande analogia con quelli che nel secolo scorso precedettero lo scoppio tremendo della rivoluzione francese.
Si legga l’Ancièn règime di Tocqueville e di Taine e si vedrà che in Francia prima del 1789 come in Napoli, nelle Puglie, in Sicilia nel 1893 e nel 1894 si sente che c’è un popolo in rivoluzione latente, che aspetta l’occasione per irrompere; che questo popolo manca ancora di organizzazione e di capi, non avendo più fiducia in quelli che hanno l’autorità[506] legale. Anche allora si gridava: «Pane, non tasse non cannoni!» ch’è il grido del bisogno, dice Taine, e il bisogno esasperato irrompe e va avanti come un animale inferocito. E i magazzini scassinati, i convogli di cereali arrestati, i mercati saccheggiati.—E si grida: abbasso l’ufficio del dazio! E le barriere sono infrante, gl’impiegati vinti e scacciati.... E si danno al fuoco i registri delle imposte, i libri dei conti, gli archivi dei comuni... e si fa tutto al grido di Viva il Re!»[95]
La scena descritta dal Taine per Bignolles e per altri siti non sembra la fotografia di ciò che è avvenuto a Valguarnera, a Partinico, a Monreale, a Castelvetrano, a Ruvo, a Corato? Eppure i contadini di Sicilia e di Puglia non sanno e non conoscono cosa sia la rivoluzione francese, i cui preludi imitano e ripetono.
Non basta ancora; l’analogia continua più grande che mai sulle cause che accelerano la catastrofe in Francia e che potranno accelerarla adesso in Italia. Si disse dei gravissimi imbarazzi in cui si dibatte il nostro paese e Gomel ha messo stupendamente in evidenza le cause finanziarie della rivoluzione Francese.
Qualche piccola inversione nell’ordine degli avvenimenti vi potrebbe essere; quando Joly de Fleury si decise all’aumento delle imposte i Parlamenti di Francia protestarono e invocarono la riunione degli Stati Generali. Noi non abbiamo assemblee che per[507] la storia si rassomiglino ai Parlamenti francesi, ma abbiamo una Camera dei Deputati, che dovrebbe equivalere agli Stati Generali, che sotto l’incubo dello scioglimento ha approvato le imposte proposte dall’on. Sonnino, e che potrà essere disciolta se non farà quell’ultimo sforzo che si chiama ultimo per ischerzo, ma ch’è sempre seguito dalla domanda di un altro.
Chi può garentire che in Italia non si cominci da uno scioglimento mentre in Francia si cominciò da una convocazione? E qualche altra differenza ci sarebbe ancora nei protagonisti del prologo. L’Italia da alcuni anni ha visti i Maurepas, i Vergennes, i Calonne, i Brienne, i Joly de Fleury ed anche i D’Ormesson; l’Italia potrà anche trovare il suo Necker; ma in tanta decadenza indarno cerca un Turgot! Dov’è il ministro che dica coraggiosamente al Re ch’è impossibile ogni ulteriore accrescimento delle imposte; che prestiti non se ne possono fare più; che la salvezza è nelle economie e nelle riforme?
E tutto ciò disse Turgot al buon Luigi XVI; ma non fu ascoltato!
Lo sarebbe adesso in Italia?
Nessuno può dirlo; ma tutti devono riconoscere che gli avvenimenti incalzano e che la scintilla partita dalla Sicilia, che nell’arte, nella coltura, nella organizzazione sociale, in tutto, si trova—come direbbe Giuseppe Ferrari—in ritardo di fronte alle fasi di sviluppo percorse dalla Francia e da altre regioni dell’alta Italia, che sentirono l’alito della rivoluzione francese; quella scintilla, ove non si provveda[508] in tempo, potrà, varcando lo stretto, far divampare l’incendio nel resto d’Italia.
Comunque, se insipienza di uomini di governo o fatalità di cose vorranno che gli avvenimenti non abbiano quel corso pacifico ed evolutivo, che dev’essere vagheggiato da quanti conoscono i danni e gli orrori delle cruente rivoluzioni, io faccio voti ardenti pel bene del mio paese che il grido: «morti a li cappedda» non possa acquistare quella triste celebrità che al di là delle Alpi acquistò il grido: «les aristocrates à la lanterne!»
FINE
[82] Una lunga serie di riforme di ogni specie enumerò l’onorevole Marchese di San Giuliano e quasi tutte sono accettabili da chi pur essendo socialista convinto, non crede di potere arrivar in un fiat alla trasformazione totale dell’attuale ordinamento politico ed economico. Vedremo più innanzi se le proposte furono fatte sul serio.
[83] Qualche cosa è giusto si dica è stata fatta colla legge del 23 luglio 1894.
[84] Delle riforme amministrative più opportune e più urgenti mi occupai dal 1882 nel libro: Le istituzioni municipali—presso Remo Sandron, Palermo L. 3.
[85] L’anonimo citato del Giornale degli economisti, ch’è piuttosto conservatore anzichè radicale non solo afferma vigorosamente la necessità di ordinamenti diversi nelle diverse regioni d’Italia, ma arriva a formulare la proposta della libertà doganale da sperimentarsi limitatamente alla Sicilia, e alla Sardegna, perchè crede che la forma insulare di quelle due regioni si presti alla prova. E ciò tanto più in quanto che la Sicilia e la Sardegna sono state tra le più danneggiate regioni del regno colle tariffe doganali generali del 1887—contro le quali mi onoro aver fatto il mio primo discorso alla Camera dei deputati, nel Gennaio 1891.
[86] Ho fatto i nomi dei membri della Commissione perchè si vegga come e quanto in Italia, tra i deputati, fatti e parole concordino. Invero per quanto lo avessi temuto e preveduto rimasi oltremodo addolorato dal contegno dell’onorevole Di San Giuliano, che dimenticando tutte le belle cose scritte nel citato libro sulle Condizioni della Sicilia, si schierò della parte dei latifondisti, che volevano la conservazione dello Statu quo e che confidavano ancora nella libera iniziativa dei medesimi latifondisti!
[87] Tra i pochi che si mostrarono favorevoli al principio del disegno di legge dell’on. Crispi sento il dovere di ricordare l’on. Nasi.
[88] La somiglianza tra le idee sostenute da me in seno alle Commissioni dei Deputati Siciliani col principio cardinale della legge Crispi fece credere ad alcuni, che io fossi stato l’autore principale di quest’ultima, come venne telegrafato a qualche giornale di Sicilia. Ciò che non è affatto vero.
[89] Il progetto sull’ordinamento dei dominî collettivi nelle provincie dell’ex-Stato pontificio venne presentato nella seduta del 20 febbraio 1893 e porta le firme degli on. Tittoni, Zucconi, Garibaldi, Pugliese, Fani, Zappi, Colajanni Napoleone, Suardi Gianforte, Gamba, Comandini, Rava, Tasca Lanza, Torlonia e Sacchetti. Fu svolto e preso in considerazione nella seduta del 7 febbraio 1894. L’on Tittoni fu eletto relatore della Commissione ed ha presentato testè alla Camera dei deputati una pregevolissima Relazione sul disegno di legge, inteso a disciplinare l’esercizio dei dominii collettivi nelle provincie ex pontificie e nell’Emilia. Se nel lungo dibattito ch’ebbe luogo alla Camera, nel 1888, circa l’abolizione delle servitù prediali in quelle provincie, Governo e Commissione avessero accettato l’emendamento all’art. 9 proposto e vivamente sostenuto dall’on. Pantano—con cui nella maggioranza dei casi si conferiva agli utenti la preferenza dello svincolo, e si chiedeva per lo meno venisse loro riconosciuto, come si riconosceva in senso inverso ai proprietarii, il diritto di pagare un canone e godersi il fondo in natura tutte volte che l’interesse e i diritti degli utenti fossero in prevalenza su quelli dei proprietarii—; noi avremmo avuto oggi in quelle provincie una congerie di dominii collettivi ben più vasta e ricca di quella, già per sè importante, illustrata dall’on. Tittoni. Anche l’on. Andrea Costa appoggiò quell’emendamento e prese parte a tutta la discussione, come vi presero parte, con decisa simpatia pei diritti degli utenti e per l’utilità dei dominii collettivi, parecchi altri egregi oratori politicamente più che temperati.
La commissione dei deputati siciliani si chiarì favorevole agli sperimenti di proprietà collettiva e di cooperazione nei demanî comunali.
[90] Tolgo queste cifre dall’opera citata dell’Alimena (I limiti e i modificatori dell’imputabilità p. 321 e 322); il quale, a rincalzare sempre più l’influenza del fattore economico sulla delinquenza, ha messo pure in rapporto le liti coi delitti. Procedono parallelamente le une e gli altri in Sicilia e in Sardegna: perciò il chiarissimo scrittore cosentino al Ferri, che aveva affermato non esservi notevoli differenze tra le singole regioni d’Italia chiede: «dinanzi a questi fatti, potrebbe ripetere che le condizioni sociali dell’Italia settentrionale non differiscono molto da quelle dell’Italia meridionale?»
Si hanno poi i dati numerici del malessere maggiore in Sicilia di fronte alle altre regioni d’Italia in queste altre cifre:
Quota per abitante di | |||
Ricchezza | Dazio di consumo | Sovrimposta sui terreni | |
Sicilia | L. 1,471 | L. 6,76 | L. 1,63 |
Piemonte | 2,746 | 3,71 | 4,03 |
Lombardia | 2,400 | 3,27 | 5,35 |
Veneto | 1,935 | 2,42 | 5,45 |
«E anche va notato che i dati della ricchezza per abitante e per regione si riferiscono ad un quinquennio (1884-1889) di eccezionale prosperità sopratutto in Sicilia. La crisi sopravvenuta dopo, ha certamente arrestato e retrocesso lo sviluppo della sua ricchezza proporzionalmente più che sulle regioni del Nord, per effetto della politica economica, più specialmente lesiva del mezzogiorno. Ma pure restando per larghezza di concessione, ai dati del Pantaleoni, il dazio consumo, che in Sicilia è quasi il doppio che in Piemonte, mentre la ricchezza ne è la metà, esercita nell’isola una pressione tributaria almeno quattro volte maggiore. Invece la sovrimposta sta ad un limite di poco inferiore a quello, che potrebbe ancora raggiungere in vista della ricchezza rispettiva; mentre le altre imposte (valor locativo, tassa famiglia bestiame, vetture e domestici) sono già in cifra assoluta per abitante più gravose pel contribuente siciliano. Questi dati permettono due considerazioni: 1º che il sistema delle imposte comunali in Sicilia esercita una pressione maggiore che nel continente; 2º che la ripartizione del carico tributario locale è fatta tutta a danno dei contribuenti, che pagano imposte indirette». (L’Insurrezione siciliana nel Giornale degli Economisti. Febbraio 1894).
[91] In Giugno dopo i fatti dolosi del Dicembre ’93 e Gennaio ’94—quando i zolfatari di Grotte fecero una dimostrazione furono suonati due squilli di tromba ed intimato lo scioglimento dell’assembramento; ma quei disgraziati rimasero immobili gridando: «Sì, ammazzateci! vogliamo morire, giacchè i nostri figli provano la fame!» Si evitò una catastrofe per la prudenza del delegato. Sulla crisi zolfifera ho pubblicato due lunghi articoli nella Riforma Sociale del Nitti. In un terzo ed ultimo mi occuperò dei possibili rimedi.
[92] Pare impossibile, ma pure è vero, che alcuni grossi comuni dell’isola hanno cominciato a violare le prescrizioni relative alla misura del dazio sulle farine; e la legge non è votata che da pochi mesi!
[93] Questi dati vennero completati e aggravati nei discorsi pronunziati sul bilancio della guerra e sui provvedimenti finanziari dagli on. Carmine, Colombo e da me alla Camera dei deputati in maggio e giugno 1894.
[94] Il bilancio della Francia, dice il Vivante, è il prodotto dei fasti e delle avventure dell’impero, delle catastrofi del 1870, dello sperpero demagogico della repubblica, di costose recenti imprese coloniali, delle imperiose esigenze di una triplice difesa—i Vosgi, le Alpi ed il Mediterraneo—e malgrado questo sciagurato concorso di fattori disastrosi, esso è intrinsecamente migliore del nostro.
Il bilancio della Francia è il doppio del nostro: ma la ricchezza pubblica della prima essendo quattro volte maggiore della nostra si comprende che la pressione tributaria in Italia sia assai più grave che nella vicina repubblica.
La cifra complessiva delle spese intangibili e militari nel nostro bilancio rappresenta una percentuale superiore a quella che si riscontra nel bilancio di tutti gli altri Stati; supera del 6 e 1/2 % quella del bilancio francese. Lo stesso può dirsi facendo il paragone tra il bilancio nostro, il nostro reddito patrimoniale e il nostro reddito nazionale. Il bilancio nostro in rapporto al reddito patrimoniale supera 23 % quello francese e del 7 1/2 % pel reddito nazionale. Di più: «in tutti gli altri Stati di Europa, ad eccezione della Spagna (e dell’Austria in minime proporzioni) hanno la totalità del loro debito pubblico all’interno. Il Tesoro riversa dunque nel paese tutto il prodotto delle imposte; da noi ciò non è il caso. I 200 milioni circa che rimettiamo all’estero è denaro definitivamente perduto e sottratto dal reddito nazionale con doppio danno economico e monetario. Inoltre, in Austria, in Francia, in Inghilterra e più ancora in Germania lo sviluppo dei bilanci militari fu connesso ad uno sviluppo corrispondente delle industrie relative, che non solo forniscono allo Stato tutto ciò che gli abbisogna, ma esportano l’eccedenza dei loro prodotti all’estero. L’Italia non basta a sè stessa!» (Felice Vivante. Il nostro bilancio. Roma 1894.)
[95] Filippo Cordova—nel più volte citato discorso—sin dal 1863 trovò delle analogie tra i casi di Sicilia e i casi di Francia.
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Ricca Salerno G. Sulla teoria del Capitale. Un volume in-16, pag. 150, Milano | 2 50 |
—— L’imposta e le forme tributarie di alcuni stati Europei. Una brochure in-8, pag. 27, Palermo | 1 — |
Richter E. Dopo la vittoria del socialismo. 7ª edizione. Un vol. in-16, pag. 212, Milano 1894 | 1 — |
Riforma Sociale (La). Rassegna di scienze sociali e politiche.
Direttori: F. S. Nitti e Luigi Roux. Esce ogni
15 giorni in fascicoli di 80 pagine in-8, cad. fasc. 1 25 Abbonam. per l’Italia, anno L. 20 — Semestre L. 10. |
|
Rinnovamento politico-amministrativo (Il). Direttore: Dr. Edoardo Pantano. Esce una volta al mese in fascicoli di pag. 96, in-8, cadun fascic. | 1 25 |
Romano-Catania G. Sul comunismo. Notizie storiche. Un opuscolo in-8, pag. 80, Palermo 1892 | 1 50 |
Rossi A. L’agitazione in Sicilia. A proposito delle ultime condanne. Un vol. in-16, pag. 130, Milano 1895. | 1 — |
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Salvioli Prof. G. Il passato e l’avvenire della lotta di classe in Inghilterra | — 20 |
Sangiuliano (Di) A. Le condizioni presenti della Sicilia. Studi e proposte. Un vol. di pag. 226 in-16, Milano 1894 | 2 — |
Schaeffle A. F. La Quintessenza del Socialismo. Prima traduzione italiana autorizzata del prof. Avvocato Angelo Roncali. Un volumetto in-16, pagine 104, Genova 1892 | 1 — |
Schiattarella R. Il plebiscito sociale. Un opusc. in-8, Palermo 1893 | 0 60 |
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Schmidt K. Brot! Ein Büchlein für alle die Brot essen. Un vol. in carta tela in-16, Lipsia 1893 | 1 50 |
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Siciliani P. Socialismo, Darwinismo e Sociologia moderna. Terza ediz. interamente rifusa e accresciuta dalle Questioni contemporanee. Un vol. in-8, Bologna | 5 |
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—— Beneficenza negativa e positiva, traduzione di Sofia Fortini-Santarelli con Revisione del prof. Felice Di Tocco. Un vol. in-16, pag. 254, Città di Castello 1894 | 2 50 |
—— Introduzione allo studio della sociologia, con prefazione di A. Sergi. Un vol. in-8, pag. 570, Milano | 7 — |
—— L’individuo e lo Stato. Traduz. di S. Fortini-Santarelli con prefazione di Giacomo Barzellotti. Un volume in-16, di pag. CVII-164, Città di Castello 1886 | 2 50 |
—— La Giustizia, traduzione di S. Fortini-Santarelli con uno studio sul sistema etico-giuridico di H. Spencer del Prof. Icilio Vanni. Un vol. in-16, pag. LII-432, Città di Castello 1893 | 5 — |
Starkenburg H. La degenerazione sessuale dei nostri tempi. Trad. di L. F. P. con prefazione di A. G. Bianchi. (In corso di stampa). | |
Strafforello G. La quistione sociale ovvero Capitale e lavoro. Un vol. in-16, pag. 246, Torino 1872 | 2 — |
Sedre M. A. Histoire du Communisme ou rèfutations des Utopies socialistes. 5e Edition. Un vol. in- 18 | 4 — |
Tammeo G. La prostituzione nella storia, nella legislazione nella società. Mali e rimedi. Un volume in-8, pag. 212, Torino 1893 | 4 |
Tarde G. La logique sociale. Un vol. in-8, Parigi 1895 | 8 50 |
Tarroux F. Lettres sur le socialisme. Un vol. in-18, Paris 1894 | 4 |
Tounissoux M. Quèstion sociale et bourgeoisie. Un vol. in-18 | 2 30 |
Valli E. L’Imperatore socialista. Opuscolo in-8, p. 65, Torino 1894, | — 70 |
Vandervelde E. La decadenza del capitalismo. | — 20 |
Vanni I. Linee critiche di un programma di sociologia. Un vol., in-8 gr., pag. 200, Perugia 1888, | 4 — |
La funzione pratica della Filosofia del Diritto, considerata in sè ed in rapporto al Socialismo Contemporaneo. Un volume in-8 grande, Bologna 1894, | 2 — |
Weill. G. Un précurseur du socialisme. Saint Simon et son oeuvre. Un volume in-16, | 4 — |
Westermarck E. Storia del matrimonio umano, con introduzione di Sir Alfredo B. Wallace e prefazione del Prof. G. F. Gabba, traduzione dall’Inglese di Giulio De Rossi. Un vol. in-8, pag. 507. Pistoia, | 5 — |
Winterer (L’abbè) deputè au Parlement allemand. Le socialisme contemporain. 2e edit. Un volume in-12, Parigi 1894, | 4 — |
Zablet. Le crime socialiste. Un vol. in-16, Parigi 1894, | 4 — |
Zubiani A. Il privilegio della salute. Pavia 1894, | —25 |
CARLO MARX
IL CAPITALE
ESTRATTI
DI PAOLO LAFARGUE
CON INTRODUZIONE CRITICA
DI
VILFREDO PARETO
E REPLICA DI
PAOLO LAFARGUE
Un elegante vol. di pag. LXXX-240—L. 2.
YVES GUYOT
Già Ministro dei LL PP. della Repubblica Francese
LA TIRANNIDE SOCIALISTA
TRADUZIONE, PREFAZIONE E NOTE
DI
F. CIOTTI
Un volume in-18 di pag. 320—L 1.50
I PRINCIPII DELL’89 ED IL SOCIALISMO
TRADUZIONE CON APPUNTI E NOTE
DI
BIAGIO LA MANNA
Un volume in-18 di pag. 350—L. 1.50
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Any alternate format must include the full Project Gutenberg-tm License as specified in paragraph 1.E.1. 1.E.7. Do not charge a fee for access to, viewing, displaying, performing, copying or distributing any Project Gutenberg-tm works unless you comply with paragraph 1.E.8 or 1.E.9. 1.E.8. You may charge a reasonable fee for copies of or providing access to or distributing Project Gutenberg-tm electronic works provided that - You pay a royalty fee of 20% of the gross profits you derive from the use of Project Gutenberg-tm works calculated using the method you already use to calculate your applicable taxes. The fee is owed to the owner of the Project Gutenberg-tm trademark, but he has agreed to donate royalties under this paragraph to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation. Royalty payments must be paid within 60 days following each date on which you prepare (or are legally required to prepare) your periodic tax returns. 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Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation's EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state's laws. The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S. Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered throughout numerous locations. Its business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email business@pglaf.org. 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Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: http://www.gutenberg.org/fundraising/donate Section 5. General Information About Project Gutenberg-tm electronic works. Professor Michael S. Hart is the originator of the Project Gutenberg-tm concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For thirty years, he produced and distributed Project Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as Public Domain in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Each eBook is in a subdirectory of the same number as the eBook's eBook number, often in several formats including plain vanilla ASCII, compressed (zipped), HTML and others. Corrected EDITIONS of our eBooks replace the old file and take over the old filename and etext number. The replaced older file is renamed. VERSIONS based on separate sources are treated as new eBooks receiving new filenames and etext numbers. Most people start at our Web site which has the main PG search facility: http://www.gutenberg.org This Web site includes information about Project Gutenberg-tm, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks. EBooks posted prior to November 2003, with eBook numbers BELOW #10000, are filed in directories based on their release date. If you want to download any of these eBooks directly, rather than using the regular search system you may utilize the following addresses and just download by the etext year. http://www.gutenberg.org/dirs/etext06/ (Or /etext 05, 04, 03, 02, 01, 00, 99, 98, 97, 96, 95, 94, 93, 92, 92, 91 or 90) EBooks posted since November 2003, with etext numbers OVER #10000, are filed in a different way. The year of a release date is no longer part of the directory path. The path is based on the etext number (which is identical to the filename). The path to the file is made up of single digits corresponding to all but the last digit in the filename. For example an eBook of filename 10234 would be found at: http://www.gutenberg.org/dirs/1/0/2/3/10234 or filename 24689 would be found at: http://www.gutenberg.org/dirs/2/4/6/8/24689 An alternative method of locating eBooks: http://www.gutenberg.org/dirs/GUTINDEX.ALL *** END: FULL LICENSE ***